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Omero
Per parlare di cosa intenda Omero per anima non si può prescindere dalla sua no- zione di corpo. La realtà nella quale sono immersi ed agiscono gli eroi omerici è prettamente concreta e sensibile, e tali sono anche i termini nei quali essi si espri- mono per descrivere esperienze appartenenti alla sfera psichica. Le parole ψυχή e σῶμα sono già presenti nel vocabolario dei poemi omerici ma in un'accezione ben diversa dal significato che ad esse assegnerà la riflessione filosofica di Plato- ne. Esse compaiono solo in concomitanza con l'esperienza della morte o all'ap- prossimarsi di essa, ed è soltanto tale evento ad attribuir loro un'esistenza relativa- mente unitaria e autonoma. Infatti, come spiega Vegetti , il termine σῶμα indica il corpo esanime, il cadavere, la salma, e non viene mai utilizzato per designare il corpo in vita. Di quest'ultimo Omero non pare avere una nozione precisa né tanto meno unitaria e per indicarlo si serve di diversi vocaboli che ne esprimono di vol- ta in volta l'aspetto o la funzione per la quale lo si chiama in causa: per esempio, δέμας ne rappresenta la statura, la corporatura, χρώς la pelle intesa come superfi- cie, involucro esterno che può essere lacerato da una ferita, mentre γυῖα e μέλεα ne designano le membra il cui insieme in movimento si esprime in azioni, in gesti. Citando Vernant, nell'uomo greco dell'età "l'elemento corporeo comprende realtà organiche, forze vitali, attività fisiche e ispirazioni o influssi divini. Lo stesso ter- mine può riferirsi a questi diversi piani; in compenso, non esiste una parola che designi il corpo come unità organica che serve da supporto all'individuo nella molteplicità delle sue funzioni vitali e mentali. [] Finché l'uomo è vivo, vale a dire animato da forza ed energia, attraversato da pulsioni che lo muovono e lo commuovono, il suo corpo è plurale" e solo con la morte esso acquista una per- sistenza unitaria.
Una tale concezione della corporeità, del resto, risulta ancor più comprensibile se inserita nelle pieghe di una società fortemente competitiva, quale era quella della Grecia arcaica, in cui il riconoscimento del proprio valore e del proprio onore av- veniva nell'agone del campo di battaglia e sotto l'incessante sguardo altrui, fosse esso d'origine umana o divina; in cui, inoltre, l'esistenza dell'uomo, contrapposta a quella degli dèi, era considerata parte del mutevole ritmo della natura (φύσις) e, in quanto tale, si distingueva per imperfezione, instabilità e caducità:
Le generazioni degli uomini sono come le foglie: le fa cadere il vento ma altre ne spuntano sugli alberi in fiore quando viene la primavera. Così le stirpi degli uomini, una nasce, l'altra svanisce. (Il., VI, 146-149)
Vincolato all'evento della morte è anche l'uso del termine ψυχή, che denota l'ani- ma di un defunto, senza che Omero riveli alcunché circa la sua sede o il suo ruolo nel vivente. Mera forza vitale priva di alcuna funzione specifica all'interno del corpo, essa compare solo quando abbandona l'uomo svenuto o in punto di morte, venendo esalata attraverso la bocca nell'ultimo respiro o fuoriuscendo con il san- gue da una ferita fatale per andarsene nell'Ade dove conduce un'esistenza umbra- tile, sbiadita immagine di colui al quale era congiunta in vita:
Mio dio, nelle dimore di Ade vi è dunque un'ombra, un fantasma (ψυχὴ καὶ εἲδωλον) sen-za più spirito (φρένες). Per tutta la notte l'anima dell'infelice Patroclo mi è stata accanto, piangendo e gemendo, e molte cose mi raccomandò e gli somigliava in modo incredibile. (Il., XXIII, 103-107)
Questo legame della psyché con gli umori corporei, nonché il riferirsi a ciò che avviene dentro l'uomo in termini di volatilità o liquidità, rappresenta un lascito talmente importante nella cultura diffusa dei Greci da condizionare diverse delle sue manifestazioni successive, costituendo, come avremo modo di osservare in se- guito, un motivo ricorrente sia in ambito letterario, sia nel campo del pensiero naturalistico e medico Del resto, l'etimologia stessa della parola ψυχή, che secon- do lo Chantraine appare come un post-verbale di ψύχω (soffiare, raffreddare) in cui la radice ψυ è connessa con il soffio rimanda ad un originario nesso con la corporeità, nonché ad una consistenza leggera e fluttuante dell'anima, comparata nel testo omerico a fumo che sparisce sotto la terra Il., XXIII, 100), a un'ombra o a un sogno che vaga volando (Od., XI, 207-208; 222).
Ma questa psyché neppure dopo la morte svolge una qualche funzione psichica particolare. Anzi, anche nell'Ade essa gode di così scarsa autonomia dalla cor- poreità, da dover bere del sangue per poter essere in grado di riacquistare memoria delle vicende terrene Od., XI, 98-99). La condizione spettrale dell'anima nel re- gno dei morti è sottolineata anche dal fatto che lì non la attende alcun premio o punizione in base alla condotta avuta in vita: la morte risulta essere un evento ine- luttabile e l'esistenza non riserva altri onori o glorie al di là di quelli avuti sulla terra e lasciati al ricordo dei posteri nella parola poetica. Lo stato in cui versa la ψυχή nel regno dei morti è espresso a chiare lettere, oltre che dai versi dell Iliade appena citati, anche dal modo in cui la defunta madre di Odisseo si rivolge al fi- glio in un momento di estremo dolore: quest'ultimo, come già cercò di fare Achil- le con la psyché di Patroclo, tenta di abbracciare l'anima della sua genitrice senza riuscire a stringere alcunché tra le mani:
"O figlio mio, [] questa è la sorte degli uomini, quando si perde la vita: la carne, le ossa, non son più rette dai nervi, la violenza del fuoco ardente le annienta appena lo spirito (θυμός) lascia le bianche ossa; l'anima (ψυχὴ) se ne vola via come un sogno."
(Od., XI, 216-222)
L'alito vitale, quindi, anima il corpo dell'uomo e resta congiunto ad esso fino alla morte ma non per questo sembra essere ciò che identifica la persona, giacché, co- me osserva Galimberti: "Qui l'Io dell'uomo non è la ψυχή, ma il corpo, come corporee sono quelle funzioni che un giorno saranno pensate proprie dell'anima"
Per parlare di slanci, di emozioni, di aspetti di riflessione e di cognizione, Omero fa appello a diversi termini fra cui θυμός e νόος: l'uso di questi vocaboli, però, è alquanto incerto e il più delle volte accompagnato da un riferimento anatomico a κῆρ, ἦτορ, κραδίη, φρένες, πραπίδες. Ma tali regioni somatiche non sembrano essere concepite in qualità di organi corrispondenti a determinate funzioni psichi- che, pare trattarsi altresì di quelle parti del corpo, mai chiaramente distinte le une dalle altre, in cui l'eroe omerico localizza, in maniera istintiva e irriflessa, il suo vissuto psicologico in quanto lì egli percepisce il contraccolpo delle emozioni.
In base a ciò, Snell ha ritenuto che la mancanza di una visione unitaria non con- traddistingua solo la concezione del corpo, bensì anche quella della psiche umana rappresentata da Omero. Tale interpretazione, a lungo egemone in quest'ambito di studi, è stata recentemente criticata da Spatafora, secondo il quale per Omero tutte le funzioni vitali sarebbero concentrate in un unico complesso organico, po- sto all'interno del petto, costituito da ἦτορ, κραδίη, κῆρ, φρένες e πραπίδες In particolare, queste ultime risulterebbero una sorta di membrana esterna che ab- braccia il cinto pericardiale le φρένες, invece, potrebbero esser considerate il pericardio, "una sacca che circonda il cuore in cui si muove il θυμός, e che svolge tutte le funzioni vitali proprie dell'intero complesso pericardiale" a sua volta il cuore verrebbe chiamato κῆρ per designare la sede dell'emotività e delle passioni, mentre sarebbe definito κραδίη e ἦτορ per indicare l'organo anatomico, di cui quest'ultimo costituirebbe la porzione più interna. Il θυμός, infine, in qualità di vapore sanguigno emanato dall'ἦτορ, pur non essendo localizzabile come le parti sopraccitate del complesso pericardiale, svolgerebbe un ruolo basilare all'interno dello stesso giacché dal suo muoversi e agitarsi nelle φρένες dipenderebbero e- mozione, pensiero, movimento e linguaggio. L'insieme di ἦτορ, κραδίη, φρένες e θυμός, quindi, regolerebbe l'intera vita dell'uomo omerico e i diversi organi che lo costituiscono, non essendo indipendenti gli uni dagli altri, assolverebbero a tutte le funzioni simultaneamente e senza specializzazione delle singole parti
Questa concezione per cui ciò che noi definiamo in termini di somatico e di psi- chico risultano indistinti e in cui il corpo non viene concepito come strumento a disposizione dell'anima, bensì come esecutore di azioni e reazioni che emergono dall'urgenza della situazione da affrontare, si rifletterebbe nel linguaggio stesso di Omero in cui, seguendo ancora l'interessante analisi testuale proposta da Spatafo- ra, non solo tutti quegli eventi da noi ritenuti appartenenti alla sfera psichica ven- gono espressi e descritti mediante l'utilizzo di vocaboli facenti parte del campo della corporeità, ma essi stessi avrebbero una concreta valenza corporea. Gioia, dolore, ira, pazzia, ansia, risulterebbero così essere delle forze che colpiscono il corpo nello stesso modo e con la stessa violenza con cui potrebbe farlo una lancia, ossia suscitando vere e proprie alterazioni e modificazioni degli organi vitali cui Omero avrebbe attribuito una terminologia specifica a seconda della loro gravità. Allora un verso come: non andrebbe inteso in senso metaforico, bensì nel senso di una reale e profonda alterazione fisiologica subita dall'ἦτορ investito da una forza. "Al presentarsi di un determinato stato d'animo, sia esso dolore, ira o rancore, si innesca all'interno dell'organismo umano un processo di alterazione biologica; gli organi della vita perdono così gradatamente parte della loro materia costitutiva, fino a spegnersi de- finitivamente"
Nella descrizione di una pluralità di esperienze che noi valutiamo in termini psico- logici, pertanto, una nozione di psyché come soffio o ombra, che non svolge alcu- na funzione specifica nel vivente e che è chiamata in causa solo in punto di morte della persona, risulta essere troppo incerta e debole per fungere da fulcro. Per con- tro, le alterazioni, i turbamenti, i movimenti delle diverse parti del corpo comprese nel cinto pericardiale, unite allo thymós che in esse si agita e si dibatte, divengono espressione di esperienze psichiche di varia natura. Per dirla con le parole di Gui- dorizzi: "ciò che in epoca successiva viene inteso come fenomeno unitario, cioè l'Io psicologico di un individuo che pensa e prova emozioni autonome, in Omero
tende a essere presentato come la somma di impulsi differenti. L'Io omerico è formato da una serie di 'organi parziali' del sentire e del pensare, la cui reciproca in- terazione costituisce la vita psichica di una persona" La mancanza di distinzione fra somatico e psichico che ne deriva, permea il modo stesso in cui Omero rende vicende e dinamiche che noi riteniamo essere interiori: nelle pagine seguenti pren- deremo in esame proprio le diverse modalità in cui, nel testo dei poemi epici, ven- gono rappresentati atti di riflessione, emozioni, sentimenti opposti, momenti di in- decisione e un colloquio che immaginiamo abbia luogo fra sé e sé.
Nel primo di questi casi l'eroe non pare venir mai ritratto nell'atto di pensare: egli viene presentato come se parlasse a se stesso, rivolgendosi il più delle volte al suo thymós o al suo cuore, ma nella modalità che userebbe per parlare con un interlo- cutore esterno. I suoi gesti e le sue parole vengono espressi come se fossero og- gettivamente osservabili e pubblicamente udibili Tale è il caso di Achille che, presagendo la sorte toccata all'amico Patroclo, parla al proprio cuore come se par- lasse a voce alta e si rivolgesse realmente a qualcuno di presente:
"Mio dio, perché dunque gli Achei dai lunghi capelli fuggono per la pianura verso le navi in preda al terrore? Spero che gli dei non compiano l'evento tremendo di cui un tempo mi parlava mia ma- dre quando diceva che, mentre io ero in vita, il più valoroso dei Mirmidoni, cadendo per mano dei Teucri, avrebbe lasciato la luce del sole. Ah, certo è morto il forte figlio di Menezio, è morto: ep- pure gli dissi di allontanare il fuoco funesto e ritornare indietro alle navi, senza scontrarsi con Etto- re".
(Il., XVIII, 6-14)
Successivamente risulterà chiaro come il ricorso al dialogo sia una costante signi- ficativa in entrambi i poemi, ma già questo primo esempio mostra che Omero non pare fare differenza fra un colloquio che noi definiremmo interiore e uno pronun- ciato pubblicamente con l'emissione della voce.
Quando si tratta di evocare un'emozione, il poeta ne descrive sovente gli effetti fi- sici o ne rende l'intensità mediante il paragone con fenomeni meteorologici, soprattutto vento e tempesta:
Esempi simili a questo si susseguono numerosi nel corso di tutta l'opera ed evi- denziano la forte connotazione emotiva delle esperienze psicologiche. I sentimen- ti, che sembrano non venir analizzati né concatenati, si traducono spesso diretta- mente in azioni, guadagnandone in termini di forza e immediatezza espressiva. Basti pensare a come nell Iliade Achille passi da tutta una serie di stati d'animo - dal rifiuto di combattere al consenso di mandare Patroclo al suo posto, dal deside- rio di vendetta all'accettazione di restituire il corpo di Ettore - senza che una sola parola ci aiuti a comprendere l'evoluzione del personaggio. Andando a cogliere un singolo momento all'interno di questa vicenda, per esempio, quando il figlio di Peleo apprende da Antiloco della morte del caro amico Patroclo, del suo dolore viene data una rappresentazione esteriore, fatta di gesti, di segni visibili, degli im- mediati riscontri che il turbamento dell'eroe genera nel comportamento di persone e dèi circostanti Il., XVIII, 22-64): quando "una nera nube di dolore avvolge l'e- roe", egli si sparge della cenere sul capo e sulla veste, poi si distende in quella stessa polvere sporcandosi e strappandosi i capelli; intorno a lui le schiave lancia- no grida, si battono il petto, cadono in ginocchio e Antiloco si lamenta piangendo; successivamente l'eroe getta un urlo tanto tremendo da venir udito fin nelle pro- fondità del mare, dove sua madre Teti dà inizio a un lamento insieme a tutte le fi- glie di Nereo e infine decide di recarsi dal figlio per sapere il motivo di tanta sof- ferenza. Prende quindi forma il dialogo fra Achille e la madre (73-137) in cui l'e- mozione che sconvolge l'eroe pare rimanere inespressa per tradursi piuttosto in un proposito d'azione:
"il cuore mi impedisce di vivere e di rimanere fra gli uomini se prima Ettore, colpito dalla mia lan- cia, non abbia perduto la vita e pagato il prezzo per l'uccisione di Patroclo figlio di Menezio. [] Ora io andrò a cercare colui che ha ucciso il mio amato compagno". (Il., XVIII, 90-93; 14)
La decisione di Achille di vendicare l'amico non si aggancia ad alcuna descrizione del suo stato d'animo e, in tal modo, la sua risoluzione sembra sorgere da una evi- dente necessità, dal dolore insostenibile provocato dalla perdita dell'amato amico Patroclo.
Anche il dialogo fra Ettore e Andromaca Il., VI, 407-493), per accennare ad un passo illustre, se per un verso testimonia la capacità di Omero di individuare dei caratteri, dall'altro palesa come qui non vengano espressi dei sentimenti, bensì delle manifestazioni esteriori di sentimenti. Il poeta coglie il visibile: l'angoscia di Andromaca che fugge al campo di battaglia è espressa nelle parole della sua an- cella che la vede correre verso le mura "come una pazza" (389); la tenerezza dei due sposi emerge di fronte al gesto del figlioletto che si ritrae dall'abbraccio del padre impaurito dal pennacchio dell'elmo (466-474) e lo strazio del loro addio viene riassunto nel "ridere piangendo" di Andromaca (484).
Le modalità espressive non cambiano anche nel caso in cui Omero sia alle prese con l'esposizione di un'altra esperienza che noi definiremmo psichica: quando un eroe esita, si assiste a un conflitto fra piani di azione o impulsi in competizione. Nel primo caso, il personaggio è incerto fra due alternative e prende in esame i ri- schi cui va incontro in un caso o nell'altro, come testimonia Ettore prima di fron- teggiare Achille:
Ahimé, se passo le porte e rientro tra le mura, Polidamante mi coprirà di ingiurie per primo [] E allora è molto meglio per me affrontare Achille e ritornare dopo averlo ucciso, o essere ucciso da lui, ma con gloria, davanti alla mia città. E se invece depongo lo scudo convesso e l'elmo pesante, se appoggio al muro la lancia e vado incontro al nobile Achille, se gli prometto di restituire agli Atridi Elena e con lei tutti i tesori [], se prometto di fare parte agli Achei di tutto ciò che possiede questa città [], ma che cosa suggerisce il mio animo? Se gli vado incontro, non avrà certo pietà di me, né rispetto, e se depongo le armi mi ucciderà così, nudo e inerme come una donna []. Meglio lo scontro, subito: vedremo a chi dei due il re dell'Olimpo vorrà dare gloria. (Il., XXII, 99-130)
Nell'Odissea, quando Penelope parla a Odisseo senza averlo ancora riconosciuto, benché evochi delle emozioni più complesse dicendo: "a me hanno dato gli dei un dolore senza misura: in lacrime passo i miei giorni [] acuta pena intorno al cuore oppresso mi strazia" (XIX, 512-517), e l'intensità della pena venga espressa nella comparazione al canto della figlia dell'usignolo Pandareo (518-524), l'esitazione verte ancora su alternative pratiche (restare o partire), sulla miglior condotta da seguire e non comporta un conflitto di sentimenti:
[] se restare col figlio e custodire ogni cosa, le mie ricchezze, i servi, la reggia dall'alto soffitto, rispettando il letto nuziale e la voce del popolo, oppure andarmene con uno degli Achei, il migliore di quelli che in casa mi fanno la corte offrendo doni infiniti. (Od., XIX, 525-529)
In tal senso, la figura di Odisseo risulta particolarmente significativa: stando ad un'analisi condotta da Barnouw, l'intelligenza di questo eroe sembra configurarsi come una capacità tutta pratica di trovare di volta in volta l'alternativa migliore anticipando le conseguenze immediate e remote di una determinata scelta, valu- tando scenari e esiti alternativi, regolando, in base a ciò, le proprie azioni A te- stimonianza di questa abilità, lo studioso prende in esame un passo tratto dal libro IX dell'Odissea, il momento in cui Odisseo si appresta a fronteggiare il Ciclope, e mostra come la sua deliberazione consista in una contesa fra impulsi in competi- zione o piani d'azione aventi sede nel θυμός. L'eroe, chiuso insieme ai suoi com- pagni nell'antro del terribile gigante e sconvolto per aver appena visto due dei suoi uomini uccisi dalla furia massacratrice di quest'ultimo, cerca un modo per ovviare alla tremenda situazione:
E io meditavo nel cuore (τὸν μὲν ἐγὼ βούλευσα κατὰ μεγαλήτορα θυμὸν) di andargli vicino e sguainando la spada affilata conficcarla, a tastoni, nel petto, là dov'è il fegato, chiuso dentro il dia- framma. Ma mi trattenne un altro pensiero (ἕτερος δέ με θυμὸς ἔρυκεν): saremmo morti di mor- te orribile anche noi, là dentro, non potevamo con le nostre braccia spostare dall'alta apertura il masso pesante che vi aveva posto il Ciclope. Piangendo allora aspettammo l'Aurora divina.
(Od., IX, 299-306)
L'uso del verbo greco ῥύομαι (che significa proteggere, sorvegliare, liberare, ma anche trattenere, fermare) è indice della contiguità dei due piani d'azione presi in considerazione da Odisseo, e il conflitto così profilatosi non sembra coinvolgere ragione e desiderio, per usare due termini cari alla riflessione filosofica di Platone, bensì due impulsi in competizione. E' infatti un altro pensiero (ἕτερος θυμός) a contenere il primo slancio e, in tal modo, il thymós si configura sia come la fonte di una prima risposta emotiva alla situazione contingente, sia come l'origine di un impulso in grado di contenere il primissimo stimolo. Il processo di deliberazione che ha così luogo risulta contemporaneamente oggettivo (in quanto valuta quale alternativa sia la migliore) ed emotivo (essendo determinato, in ultima istanza, dall'impulso più forte)
Spesso l'esitazione di un eroe viene anche bruscamente interrotta da un evento e- sterno: quando Odisseo esita a gettarsi in mare, è una grossa onda a buttarlo in ac- qua (Od., V, 365 sgg.). Può intromettersi anche un altro personaggio, incitando o trattenendo l'eroe. Ma più spesso è un dio ad intervenire e a decidere. Il che vale anche nel caso in cui si tratti di un'esitazione che, opponendo un impulso irrazio- nale a considerazioni più sagge, dovrebbe venir espressa nei termini di un vero e proprio dibattito interiore. Consideriamo, per esempio, il modo in cui Omero ren- de l'indecisione di Achille all'inizio dell Iliade, quando l'eroe è furente d'ira ver- so Agamennone, e l'intervento di Atena in tale contesto:
[] nel suo petto si divise il cuore (ἐν δέ οἱ ἦτορ/ στήθεσσιν λασίοισι διάνδιχα μερμήριζεν): non sapeva se levare dal fianco la spada affilata, incitare gli altri alla rivolta e uccidere lui stesso l'Atride, o frenare l'impulso e calmare la collera (ἦε χόλον παύσειεν ἐρητύσειέ τε θυμόν). Men- tre era così incerto nel cuore e nell'animo (ἧος ὁ ταῦθ᾽ ὥρμαινε κατὰ φρένα καὶ κατὰ θυμόν) e stava già per estrarre dal fodero la grande spada, Atena scese dal cielo []. Si fermò alle sue spalle e lo afferrò per i capelli biondi - apparve a lui solo, nessuno degli altri la vide -; colto da sa- cro stupore Achille si volse e subito riconobbe Pallade Atena; gli occhi mandavano lampi terribili. (Il., I, 188-200)
Un momento di incertezza, ossia un evento che noi supponiamo debba avvenire nell'interiorità del personaggio, viene risolto da Omero mediante il ricorso ad un intervento esterno, alla manifestazione della dea Atena che, per fermare il primo violento istinto di Achille, lo trattiene con altrettanta veemenza, esercitando su di lui una concreta azione uguale e contraria: lo afferra per i capelli, costui si ferma e la riconosce. Successivamente l'eroe proclama alla dea tutto il suo sdegno nei confronti di Agamennone e le dice esplicitamente di volerlo uccidere. Ma Atena è capace di calmare il furore dell'eroe che, benché abbia ancora l'animo pieno di ira, cede obbedendo al volere degli dei (216-218). La decisione di non estrarre la spada dal fodero, quindi, non sembra sorgere da Achille stesso, bensì provenire da fuori, giacché è l'intervento della dea stessa a contrastare la tentazione dell'eroe. Come ha evidenziato Guidorizzi, si assiste qui ad un meccanismo di grande sug- gestione psicologica, frequentemente utilizzato da Omero, che prevede la proie- zione all'esterno di un fenomeno interno: Atena personifica il dilemma interiore di Achille fornendo il risvolto concreto di un evento che per noi ha valenza pura- mente psicologica, facendo di esso un doppio di natura divina "che opera per con- to suo sulla scena della vita, e non dentro la mente, ma indipendentemente, come una figura a tre dimensioni"
Secondo De Romilly, l'ingerenza divina è il modo in cui Omero rappresenta rea- zioni improvvise o eventi imprevisti una relazione con qualcuno rimpiazza un dibattito interiore ed il sentimento viene dall'esterno, non dall'interno.
Rievocando una suggestiva immagine platonica potremmo dire che qui gli dèi sembrano muovere i fili delle marionette umane e ciò, se da un lato pare dispen- sare l'uomo da una piena capacità decisionale, dall'altro pare limitare il poeta nel cercare per essa delle spiegazioni di carattere psicologico o, per dirla con le parole di Guidorizzi, "trasferire fuori, verso un operatore esterno (dio o demone) tutto ciò che non è accettabile significa attenuare i conflitti e i sensi di colpa [] e perciò ri- pulire la mente da scorie e lacerazioni"
Su quest'ultima conclusione, però, è interessante prendere in considerazione un'a- nalisi condotta da Williams che pare sovvertire parecchie delle valutazioni fin qui effettuate Ma procediamo con ordine: esaminando le idee etiche dei greci - "in particolare, le idee di azione responsabile, giustizia e le motivazioni che spingono le persone a compiere azioni ammirate e rispettate" - l'indagine del filosofo bri- tannico intende mettere in evidenza alcune somiglianze non riconosciute fra le concezioni greche e le nostre con l'obiettivo di fornire una descrizione filosofica di una realtà storica. Per far questo, Williams critica aspramente la concezione e- volutiva e progressista, sostenuta esplicitamente da alcuni autori moderni se- condo cui i greci avrebbero avuto idee primitive circa l'azione, la responsabilità, la motivazione etica e la giustizia. Alla base delle rappresentazioni fuorvianti dell'antichità derivanti da tale interpretazione, infatti, starebbe la pretesa di misu- rare "le idee e le esperienze degli antichi greci sulla base delle concezioni moder- ne di libertà, autonomia, responsabilità interiore, dovere morale e così via, presu- mendo di avere un adeguato controllo di queste stesse concezioni. Ma se ci inter- roghiamo onestamente, credo che scopriremo di non avere un'idea chiara della so- stanza di tali concezioni e, di conseguenza, di non avere un'idea chiara di ciò che ai greci, secondo i resoconti progressisti, mancava" Su questa via, Williams affronta il problema della nostra relazione con i greci, come già tentò di fare Nietzsche, constatando che il nostro modo di comprenderli è radicalmente connes- so alla questione di come comprendiamo noi stessi. Venendo poi all'opera di O- mero, lo studioso inglese cerca di mostrare come in essa fossero già presenti molti degli elementi essenziali della nostra prospettiva etica e, per far ciò, egli inizia con l'asserire, in netta opposizione con la teoria di Snell, che nei poemi vengono rap- presentati personaggi che decidono, e che agiscono in base alle decisioni prese, in quanto in possesso di un'unità che i greci, noi e tutti gli esseri viventi riconosco- no: quella della persona viva Nella raffigurazione del corpo, così come in quella delle funzioni psichiche dei personaggi omerici, infatti, la persona giocherebbe un ruolo essenziale e insostituibile: "Gli uomini pensano o sentono con o nel loro thumos; essi abitualmente pensano o sentono con o nel kata) loro phren e thumos. Se le persone hanno bisogno di un thumos per pensare o sentire, è egualmente ve- ro che un thumos ha bisogno di una persona, perché ci sia qualche forma di pen- siero o di sensazione" Nella descrizione che Omero fa dell'uomo manca certamente il dualismo tra anima e corpo, ma l'errore commesso da Snell sarebbe stato, secondo Williams, quello di assumere tale distinzione come ciò che descrive real- mente quello che siamo. In altre parole, non avendo ritrovato nel testo omerico una presupposta nozione vera di unità, sia essa del corpo o dell'anima, Snell a- vrebbe dedotto da un'assenza di teoria una teoria dell'assenza, giungendo a soste- nere che gli antichi greci non concepivano né il corpo né l'anima in maniera uni- taria.
Questi sono i presupposti utili per riprendere il nostro discorso dal punto in cui l'abbiamo interrotto, ossia dall'interpretazione del passo tratto dal primo libro dell'Iliade come indice di una mancanza di autonomia decisionale dell'uomo o- merico di fronte all'ingerenza divina. Williams sovverte questa interpretazione in base ad una duplice constatazione: la prima, di carattere terminologico, riguarda l'utilizzo omerico del verbo μερμηρίζω (essere in pena, in ansia; meditare). Al verso 189 il poeta pone tale verbo in un costrutto che rende l'idea di una divisione interiore di Achille che, non sapendo se sfoderare subito la propria arma o calmare la propria ira, viene descritto come "incerto fra due" (διάνδιχα μερμήριζεν). La seconda notazione ha a che fare con la modalità in cui si esplica l'intervento di A- tena: la dea parla all'eroe, gli dice di essere stata mandata da Era, gli chiede di troncare la lite perché un giorno gli verranno offerti doni, tre volte tanti la violen- za subita, esige obbedienza. Achille si arrende dicendo:
"Conviene rispettare il vostro ordine, dea, anche se l'animo è pieno d'ira; è la cosa migliore; se uno obbedisce agli dèi, allora essi lo ascoltano"
(Il., I, 216-218)
Secondo Williams, Achille decide facendo semplicemente ciò che ritiene essere la cosa migliore: certo, la dea gli è venuta in soccorso fornendogli una motivazione nuova e divina, della quale egli era precedentemente sprovvisto, per ritenere che una certa condotta sia la più opportuna, "ma ciò non significa che non si tratti di una circostanza in cui si decide cosa fare in base a ragioni" In altre parole, quando un agente esita ci deve essere qualche considerazione in base alla quale egli è incerto fra le alternative in questione e anche se un dio interviene per aiutar- lo a risolvere la controversia, come nel precedente caso di Achille, resta il fatto che è l'agente stesso a domandarsi quale sia l'azione migliore da compiere e a decidere per delle ragioni, "e quando l'agente decide per quelle ragioni e agisce in base ad esse, egli agisce per delle ragioni che sono le sue" Inoltre, in un con- testo in cui non c'è incoerenza tra intervento divino e materiali ordinari della spie- gazione psicologica, quando una divinità partecipa alle vicende umane, lo fa uti- lizzando uno spazio che spesso rimane vuoto per mancanza di una spiegazione circa il perché una ragione dovrebbe essersi presentata all'agente o perché, una volta presentatasi, essa avrebbe dovuto prevalere. E tali spazi, tali "cause nasco- ste", secondo Williams, esistono anche nel nostro mondo.
Ad avvalorare il fatto che dal ruolo degli dèi non si possa dedurre una mancanza del concetto di decisione autonoma in Omero, il filosofo inglese fa notare anche come siano le stesse divinità a decidere e giungere a delle conclusioni: oltre ad es- sere del tutto antropomorfe, esse si esprimono nelle medesime espressioni degli uomini per esporre un dubbio e nelle stesse formule per esprimere una decisione. E come avrebbe potuto Omero applicare agli dèi un concetto di decisione qualora non ne fosse stato in possesso?
Ma vediamo ora se e come questa lettura, nella quale i personaggi omerici non ri- sultano più mere marionette nella mani degli dèi bensì uomini in grado di decidere e di agire, possa applicarsi anche al famoso episodio, al centro del libro XX dell'Odissea, divenuto memorabile come il più bell'esempio di tormento psicolo- gico dell'antichità e di cui lo stesso Platone cita per tre volte il celebre verso "Cuore, sopporta!" Prima di considerare l'opinione di Williams al riguardo, pe- rò, tracceremo la vicenda nelle sue linee generali e la interpreteremo seguendo dei criteri più convenzionali.
Odisseo è alla vigilia del suo riscatto e, sotto le mentite spoglie di un mendicante, cerca invano di riposare nell'atrio del palazzo di Itaca "meditando nell'animo (φρονέων ἐνὶ θυμῷ) la strage dei Proci" (5). Egli si trova quindi in una situazio- ne di attesa e ipotizziamo che la sua veglia sia dovuta a un misto di impazienza e di timore Questa situazione muta radicalmente quando l'eroe vede uscire dalla sala le ancelle infedeli che ormai sono solite unirsi in amore con i Pretendenti:
E a lui il cuore si gonfiava nel petto (τοῦ δ᾽ ὠρίνετο θυμὸς ἐνὶ στήθεσσι φίλιοσι), a lungo fu in- certo nell'animo (πολλὰ δὲ μερμήριζε κατὰ φρένα καὶ κατὰ θυμόν) se assalirle e dar loro la morte o lasciare che ai Pretendenti superbi si unissero per l'ultima volta. Il cuore gli urlava nel pet- to (κραδίη δέ οἱ ἔνδον ὑλάκτει).
(Od., XX, 9-13)
Al dissidio di Odisseo, Omero dedica un rilievo senza eguali e per esprimerlo uti- lizza due immagini successive separate dal famoso incoraggiamento dell'eroe al proprio cuore. La prima di esse, quella della cagna che abbaia agli sconosciuti e si prepara a combattere per difendere i piccoli che le vacillano intorno, sembra tra- durre il desiderio di agire di Odisseo:
Come una cagna difende i suoi cuccioli, abbaia a chi non conosce e si prepara a combattere, così urlava il cuore dentro di lui, sdegnato per le ignobili azioni.
(Od., XX, 14-16)
Dopo questa digressione dal tono più familiare che epico, l'eroe, battendosi il pet- to, si rivolge al proprio cuore dicendo: "Cuore, sopporta!" (τέτλαθι δή, κραδίη;
18) e ricordando le sofferenze che ha dovuto subire il passato (18-21).
Secondo De Romilly, il fatto che Odisseo parli al proprio cuore non è di per sé sorprendente dal momento che il dialogo, che non ammette distinzioni fra interio- re e pubblico, "è il modo in cui Omero evoca la vita interiore" Il che sarebbe confermato dalla stessa mancanza di un vocativo "oh cuore" e di un colloquio ve- ro e proprio fra due distinte tendenze dell'animo. Padel, prendendo spunto dalla constatazione della frammentarietà e della molteplicità interna con cui Omero rap- presenta il corpo, e, similmente, della disgiunzione con cui egli rende gli eventi e- mozionali o intellettuali, vede nel frequente ricorso al dialogo con il proprio cuore o thymós una riprova della frammentazione interna dell'uomo dell'epica, e rin- traccia proprio in tale disunione e molteplicità un tratto distintivo della coerenza con cui, in entrambi i poemi, viene presentato l'essere umano Su una linea in- terpretativa simile si muove anche Guidorizzi, il quale sostiene che Omero descri- va in forma dialogica i passaggi psicologici che noi riteniamo agitarsi e avvenire nella mente dell'individuo e che tale modalità espressiva sia qualcosa di connaturato alla stessa cultura greca antica: utilizzando la modalità di un dialogo con una parte di sé, così come quella del colloquio fitto fra gli eroi e le divinità, si trasferi- sce in forma poetica un sistema di credenze, avente un fondamento reale, profon- damente radicato nel patrimonio collettivo della civiltà greca arcaica. Ovvero, essendo l'epica omerica una poesia tradizionale che funziona nella misura in cui la sua materia fa parte dell'esperienza comune del pubblico a cui si riferisce, "si può supporre che fenomeni quali l'apparizione allucinatoria di una figura divina, la voce interiore o lo sdoppiamento della persona, per cui un individuo dialoga con una parte di se stesso - un sintomo che noi riterremmo tipico di una personali- tà schizofrenica - fossero forme abbastanza correnti nella vita psicologica" e tali da non essere considerate sinonimo di un disturbo mentale bensì "una forma pos- sibile di comunicazione col soprannaturale - o forse con una parte di sé proiettata in una dimensione soprannaturale"
E' interessante ricordare qui che proprio l'ampio uso del discordo diretto e la rap- presentazione di intere scene in forma dialogica, sono alcuni degli elementi che secondo Burkert accomunano l'epica occidentale e quella orientale: anche i perso- naggi del Gilgamesh, per esempio, usano versi formulari in cui si rivolgono al proprio cuore come introduzione al discorso diretto ("consultandosi con il proprio cuore parlò, si consigliò con se stessa"; Gilgamesh, X 1, 1 s.)
Tornando al testo omerico, la bizzarra immagine che segue, quella della salsiccia che gira e rigira sul fuoco per essere cotta, esprime ancora una volta i sintomi e- steriori del tormento di Odisseo che, coricatosi, non riesce a dormire:
Come quando un uomo volta e rivolta sulla fiamma ardente una salsiccia piena di grasso e sangue, impaziente che presto sia arrostita, così da una parte e dall'altra si volgeva Odisseo e meditava co- me aggredire i Proci superbi.
(Od., XX, 25-29)
Egli ha sì parlato al proprio cuore ed ha anche messo a tacere la propria impa- zienza, ma continua a essere inquieto, esita ancora e questa esitazione si interrom- pe per un intervento esterno: Atena, nelle sembianze di una donna mortale, scende dal cielo, si avvicina all'eroe e gli domanda perché sia ancora sveglio (30-35).
Odisseo riconosce la dea e le parla come se l'avesse davvero innanzi, confidan- dole i suoi timori e le sue ansie (37-43) Atena risponde rassicurandolo circa l'e- sito finale della vicenda e facendolo dormire (45-53): "sonno gli versò sulle pal- pebre, poi sull'Olimpo tornò, la dea luminosa. E allora lo vinse il sonno, che scio- glie le membra e gli affanni del cuore" (54-57). Il sentimento pare quindi essere esteriorizzato per risolversi in un dialogo e in una concreta azione svolta da un es- sere divino nei confronti di un eroe: solo l'intervento di Atena pone fine all'in- quietudine di Odisseo "versandogli sulle palpebre" un sonno sinonimo di ritrovata serenità. Ma, in tal modo, quest'ultimo stato d'animo sembra sopraggiungere sull'eroe dal di fuori, per volere della dea che protegge e presiede a ogni sua im- presa. Non sembra, quindi, venir rappresentata un'evoluzione interiore del perso- naggio, frutto del confronto silenzioso fra diverse istanze dell'anima. Ritroviamo bensì alcune caratteristiche peculiari del modo omerico di esprimere esperienze psichiche: la descrizione dei sintomi fisici del malessere, l'uso di immagini sor- prendenti, il ricorso al dialogo, l'intervento divino. Ma in tal modo, la descrizione psicologica dell'esitazione di Odisseo, pur avendo un rilievo senza pari in entram- bi i poemi, sembra essere ridotta al minimo, restando, nel complesso, piuttosto semplice.
Facendo riferimento al medesimo passo dell Odissea e in base alla quantità impo- nente di testimonianze, anche al di fuori della tradizione poetica, riguardanti la comparsa di "immagini" éidola, phásmata) in varie circostanze della vita quoti- diana, Guidorizzi ipotizza che la scena tipica di un dio che appare a un uomo dia forma poetica a esperienze allucinatorie reali. Tali apparizioni, infatti, come pure
le visioni autoprovocate nel corso di rituali antichi, non sembrano essere esperienze ristrette a speciali categorie di visionari, bensì molto più diffuse e comuni di quanto si possa credere. "In questo senso, la civiltà greca del periodo arcaico sem-bra presupporre una tendenza verso i fenomeni dell'immaginario assai più svilup-pata di quanto non sia familiare ai tempi moderni" Una spiegazione a tale di-sposizione può essere avanzata con la suggestiva ipotesi, sostenuta dallo psicolo-go statunitense Jaynes e ripresa da Guidorizzi, che allucinazioni e fenomeni ex-trasensoriali, rintracciabili in diverse letterature antiche (sumera, egizia, greca), non fossero mere idee poetiche ma la descrizione di fenomeni reali: "i poeti hanno descritto esperienze di cui essi e il loro pubblico erano consapevoli, esperienze or-ganizzate su basi culturali che consistono nel proiettare su una figura divina feno-meni allucinatori della psiche. Questi avrebbero origine in un'area specifica del cervello e l'ipotesi di Jaynes è che quest'area avesse un particolare sviluppo nell'organizzazione della coscienza di società arcaiche" Questo tipo di forma mentale avrebbe determinato, nei personaggi omerici, la costituzione di un'auto-coscienza fondamentalmente diversa dalla nostra e tale che la volizione, i progetti e l'iniziativa umana non facessero capo a una mente cosciente soggettiva bensì venissero organizzati in altre aree della coscienza trasferite però a una forza divina esterna. Si sarebbe così costituita una forma di linguaggio non verbale ma imma-ginifico che interagiva fortemente con la parte cosciente e volontaria della mente e che avrebbe fatto in modo che un eroe non percepisse le sue emozioni e i suoi conflitti in termini puramente psicologici, indistinti astratti, ma sensoriali
Quindi, la stessa descrizione della stato d'animo d'Odisseo alla vigilia del suo ri- scatto, in cui si combinano lo schema del dialogo col proprio cuore e quello della comparsa di una divinità a risolvere un momento di crisi dell'eroe, sarebbe il ri- sultato di una forma mentis sostanzialmente diversa dalla nostra e costituzional- mente portata un linguaggio di tipo immaginifico.
Ma se anche per Williams è vero che ogni forma espressiva è figlia del proprio tempo e della temperie culturale nella quale è sorta, e come tale va valutata, è pur
vero che il famoso episodio del libro XX dell Odissea può esser preso a dimostrazione della capacità dei personaggi omerici di compiere degli sforzi di volontà che, nel caso specifico di qualcuno che si rivolge al proprio thymós o cuore, si rea- lizzerebbero nella mente. Per far questo lo studioso non prende in considerazione l'intervento di Atena soffermandosi invece sull'esortazione alla sopportazione che Odisseo fa al proprio cuore:
E comprimendosi il petto egli parlava al suo cuore: "Cuore, sopporta; pena più atroce hai tollerato il giorno in cui il Ciclope furente divorò i tuoi valorosi compagni: e tu hai tollerato fino a che la mente accorta ti ha fatto uscire dall'antro dove pensavi già di morire (ὄφρα σε μῆτις/ ἐξάγαγ᾽ ἐξ ἄντροιο ὀϊόμενον θανέεσθαι)". Così diceva, rivolto al suo cuore, ed esso si placava sopportando paziente. (Od., XX, 17-24)
Intimando al proprio cuore di sopportare, Odisseo si astiene dalla tentazione di uc- cidere le serve complici dei Proci, dimostrando così, secondo Williams, di esser capace di autocontrollo. Il fulcro dell'argomentazione dello studioso verte sulla μῆτις dell'eroe: la sofferenza del cuore di Odisseo deriva dall'impossibilità di fare ciò che vorrebbe, e che avrebbe buoni motivi di fare, per ragioni di prudenza; egli deve aspettare, pazientare fino a quando potrà fare ciò che richiede l'intelligenza. "Il bisogno di aspettare e la durata dell'attesa sono ciò che richiede la pazienza, e derivano dalla sua métis, dal suo piano razionale" Su questo punto, l'analisi dello studioso britannico converge significativamente con il sopraccitato lavoro di Barnouw che, dopo aver preso in esame la deliberazione dell'eroe innanzi al Ci- clope e alle serve infedeli Od., IX, 299 sgg.; XX, 5 sgg.), sostiene che Odisseo sia in possesso di un'intelligenza pratica in grado di fargli gestire ciò che si agita nel proprio θυμός, sia esso un conflitto fra impulsi in competizione o una contesa fra piani d'azione alternativi, in vista del suo principale intento. Intelligenza e pru- denza sembrano perciò andare di pari passo nella valutazione anticipata delle con- seguenze di un determinato agire e nel controllo, in base a ciò, delle proprie azio- ni
Williams, però, compie un passo ulteriore: egli mette in evidenza come l'idea omerica di autocontrollo, e la nozione ad essa associata di sopportazione, differiscano in maniera interessante dai concetti che di esse abbiamo attualmente. Per far ciò, lo studioso chiama in causa un passo del finale dell Iliade in cui Priamo si re- ca da Achille per chiedere la restituzione del corpo di Ettore e il Pelide gli dice: "Hai un cuore di ferro" (XXIV, 521). Il vecchio padre, infatti, non solo va di per- sona alle navi greche, ma vuol guardare in faccia l'uomo che ha massacrato molti dei suoi figli (518-521). Ma una frase pressoché identica era stata rivolta in prece- denza da Ettore morente allo stesso Achille (XXII, 357), indifferente di fronte all'accorato appello che il primo gli rivolge perché, una volta deceduto, la sua sal- ma venga restituita alla patria. Due situazioni diverse, due atteggiamenti difformi, eppur legati dalla sorprendente indifferenza che entrambi i personaggi manifesta- no nei confronti di usuali oggetti del sentimento, indifferenza che chiama in causa lo stesso Odisseo che, per volontà d'agire, sopporta la pena del proprio cuore. C'è quindi qualcosa che accomuna volontà d'agire coinvolte in sentimenti molto di- stanti tra loro, e quel qualcosa sta nel fatto che "i greci tendevano a ritenere che la capacità di trattenersi di fronte a sentimenti o desideri fosse la stessa, qualunque fosse il sentimento o il desiderio e comunque si fosse originato: sia che si trattasse di un desiderio sessuale o del desiderio di procurare dolore, o di fuggire o di ven- dicarsi. Per questa ragione, essi erano inclini a mettere insieme forze e debolezze in modi differenti da quelli consueti, almeno fino a tempi recenti, per l'opinione comune moderna []. Si tratta sempre della stessa disposizione, almeno in Omero e in altri autori prima di Socrate, qualunque fossero i motivi che spingevano qual- cuno a sopportare la sofferenza e a resistere al desiderio"
Il richiamo alla vicenda del Ciclope nel corso del dialogo col proprio cuore, non pare quindi essere casuale, giacché in entrambi i casi Odisseo sopporta una terri- bile pena (quella di assistere alla morte dei propri compagni dentro l'antro di Poli- femo, quella di vedere gli schiamazzi d'amore delle donne con i Pretendenti nella reggia di Itaca) per prudenza, per l'impossibilità di agire sul momento e in vista di un proposito che egli cercherà di realizzare successivamente (quello di uscire dal- la caverna e salvarsi, nel primo caso, quello di sconfiggere i Proci riprendendo possesso della propria dimora, nel secondo) e tali considerazioni sono dettate dalla sua μῆτις.
Riepiloghiamo le considerazioni tratte da Williams riguardo il celebre episodio dell'Odissea: nella descrizione dell'incertezza di Odisseo di fronte alle serve, O-
mero utilizza il verbo greco μερμηρίζειν (XX, 10), già incontrato nella rappresentazione dell'ira di Achille in un costrutto che induceva l'idea di una divisione interiore dell'eroe Il., I, 189) quando Odisseo si trattiene dal seguire il suo pri- migenio istinto, egli viene ritratto nell'atto di parlare al proprio cuore, sinonimo di uno sforzo di volontà che l'eroe compie nella mente e la cui formula coglie il sen- so di un dialogo interiore; grazie alla propria μῆτις, Odisseo si dimostra capace di autocontrollo e di sopportazione, doti che lo mettono in condizione di scegliere una determinata condotta in vista del suo principale intento. In conclusione, in una tale rappresentazione non mancherebbe nessuno degli elementi essenziali dell'a- zione umana, essendoci capacità di decidere, di agire, di fare sforzi, di sopportare. Certo, in Omero non troviamo molte delle nostre categorie psicologiche, né tanto meno una definizione delle funzioni della mente in termini etici, può inoltre risul- tare troppo arduo tracciare i confini tra ciò che è stilistico e ciò che è psicologico, eppure, stando all'analisi dello studioso inglese, la psicologia implicita dei poemi dipende da quell'unità che egli rintraccia nei personaggi omerici: "l'unità della persona che pensa, agisce ed è presente con il corpo; l'unità del vivo e del mor- to"
Ma c'è di più, agli eroi omerici non sarebbe estranea neppure una concezione ba- silare di responsabilità, e Williams lo dimostra prendendo in esame un passo tratto dall'Iliade in cui Agamennone fa atto d'ammenda spiegando ad Achille in che stato mentale si trovava quando la loro lite era iniziata:
Spesso gli Achei mi biasimarono per questo fatto; tuttavia io non sono colpevole (ἐγὼ δ᾽οὐκ αἴτιός εἰμι): Zeus, e la Moira, e l'Erinni che vaga nell'ombra, essi, in quell'assemblea, mi ispira- rono l'errore funesto (ἄργιον ἄτην) il giorno in cui tolsi ad Achille il suo dono d'onore. Che cosa potevo fare? Sono gli dèi che compiono tutte le cose. Figlia maggiore di Zeus è Ate - funesta - che tutti trascina in errore; ha i piedi leggeri e non sfiora la terra, ma cammina sulla testa degli uomini per la loro rovina: e cattura ora l'uno, ora l'altro. [] Ma poiché ho errato e Zeus mi ha tolto il sen- no (ἀλλ᾽ ἐπεὶ ἀασάμην καί μευ φρένας ἐξέλετο Ζεύς), voglio offrire una ricompensa, voglio offrire doni infiniti.
(Il., XIX, 85-138)
Prima di giungere alle idee espresse da Williams sulla responsabilità di Agamen- none, però, può risultare utile citare lo studio fatto da Guidorizzi sul medesimo passaggio dell'Iliade, volto a delineare le caratteristiche assunte dalla pazzia chia- mata in causa dall'eroe. Lo studioso sottolinea come, nel sistema di idee dei poe- mi omerici, non esista alcun caso conclamato di follia per lasciare invece spazio a forme temporanee di pazzia costituite, nei pochi casi riscontrabili, da fenomeni transitori e improvvisi determinati da un incremento ménos) o da un depaupera- mento (áte) delle energie emotive. In particolare áte, che significa propriamente "accecamento" (dal verbo ἀάω, acceco), viene evocata per spiegare i casi in cui un personaggio compie delle azioni scellerate e sta ad indicare sia la condizione di chi è vittima di tale situazione, sia il demone che la incarna e che si manifesta quando è "gettato" da un dio nel corpo di un uomo. Nel brano in questione, Ome- ro ricorre ad essa e, nello specifico, al racconto eziologico che narra la comparsa di áte fra gli uomini, per spiegare le ragioni del comportamento sconsiderato di A- gamennone (vv. 91-136): ci fu un tempo in cui, riferisce l'eroe, questo demone maligno fece la sua apparizione fra gli esseri umani e da allora tutto cambiò. Zeus, infatti, indignato per essere stato ingannato da lei, la scagliò giù dall'Olimpo e da quel momento Ate iniziò ad aggirarsi fra gli uomini.
Nel quadro della cultura evocata dai poemi omerici, il ricorso a tale accecamento mentale fungerebbe, secondo Guidorizzi, come una sorta di strumento di autoas- soluzione in quanto "riduce i sensi di colpa, e serve cioè a ridurre la vergogna pro- iettando un'azione al di fuori dell'individuo. E' la vergogna aidós) a inibire com- portamenti aggressivi, in una società di tipo tradizionale dove tutto è sotto gli oc- chi di tutti e il valore di una persona dipende dalla pubblica fama e dall'onore san- cito dalla 'voce del popolo'" Inoltre, evidenziando che accecamento e follia so- no forme di devianza spesso apparentate e sentite come affini nella cultura greca, (in quanto lo sguardo della follia è quello di chi non ha innanzi agli occhi un pa- norama reale bensì dettato dai propri fantasmi interiori), lo studioso sostiene an- che che, in definitiva, áte si avvicini a una vera e propria patologia della mente che comporta una sorta di scissione tra la coscienza e le pulsioni istintive. "E' una forma nascosta di pazzia, o meglio una follia che viene ipercodificata, sino ad as- sumere l'aspetto di una categoria nello stesso tempo mentale, religiosa ed etica"
Riepilogando la vicenda in questione per venire all'analisi che ne fa Williams, Agamennone sostiene di non essere colpevole in quanto, pur avendo strappato Briseide dalle mani di Achille intenzionalmente, ha agito in uno stato mentale altera- to cui lo indusse Ate, figlia maggiore di Zeus "che tutti trascina in errore". In virtù di ciò che ha fatto e delle immediate conseguenze del suo gesto, egli intende risar- cire il Pelide, accettando così la responsabilità di ciò che ha compiuto quando Zeus gli portò via la mente. Nella sua autodifesa, quindi, Agamennone non si dis- socia dall'azione che ha compiuto, bensì "dissocia l'azione da se stesso" spiegan- do di aver tolto il dono ad Achille in uno stato mentale alterato. Queste conclu- sioni, unite ad una serie di notazioni tratte dall'analisi di un passo dell Odissea in cui Telemaco si definisce colpevole (XXII, 154-156), inducono Williams a ritene- re che nei poemi omerici siano presenti i quattro elementi essenziali di ogni con- cezione della responsabilità (definibili rispettivamente come causa, intenzione, stato mentale, reazione) e che lo siano in quanto derivanti da alcune ovvietà che accomunano l'intero genere umano
Alla luce di tutto quanto è emerso finora riguardo la rappresentazione degli stati psichici in Omero, sembra che una qualsivoglia valutazione al riguardo debba ne- cessariamente rimanere vincolata da un lato all'impostazione interpretativa di Snell, dall'altro a quella di Williams. Ma è possibile rintracciare nell'una e nell'al- tra visione alcuni elementi non necessariamente contraddittori? A me pare che sul- lo sfondo di entrambe si possano individuare, se non altro, alcuni dati di fatto:
a) una tendenza di Omero a non stabilire alcuna distinzione radicale fra ciò che noi valutiamo essere psichico e ciò che riteniamo essere corporeo. Questo per- ché se per un verso la psyché non svolge alcuna funzione specifica all'interno del corpo ed è chiamata in causa solo in punto di morte dell'individuo (ossia nel momento in cui questi viene privato di quel soffio che lo tiene in vita), per l'altro la psicologia omerica non pare avere nulla a che fare con l'anima, per coinvolgere invece le interiora dell'uomo, l'insieme degli organi, e dei relativi recipienti sanguigni, collocati nella zona toracica, nei quali si muove e si agita il thymós durante il pensiero, la sensazione, il desiderio, la decisione, e così via.
b) una disposizione omerica a non individuare una separazione netta fra naturale e soprannaturale. Prendendo in prestito le parole di Padel relative alla tragedia, e
applicandole anche alla rappresentazione tratta dai poemi, "l'immaginazione greca deificava ogni sorta di cose, attività, relazioni fra persone. In diverse si- tuazioni relazionali, in varie fasi della vita, in differenti condizioni fisiche ed e- motive c'era divinità. I Greci lo ritenevano un modo naturale, quanto utile, di stare al mondo. [] c'erano sempre degli dèi al lavoro, nei loro corpi, nelle loro menti, nelle loro case e città" Ma se la divinità permeava a tal punto il mondo di un greco dell'epoca arcaica da comprendere e influenzare i più disparati a- spetti della sua vita, non c'è da stupirsi che Omero chiami in causa gli dèi in situazioni che noi valutiamo in termini di mera psicologia individuale.
c) un interesse preminente di Omero nei confronti della descrizione dell'azione, vista quale degna espressione delle vicende di personaggi che misurano i propri onori e le proprie miserie in relazione alla piena o alla mancata realizzazione dei propri intenti, senza prevedere alcun contraltare ultraterreno di tali vicissi- tudini a carico dell'anima.
Risulta quindi evidente una diversità fra la nostra modalità di organizzazione dell'esperienza corporea e psichica, e quella emersa nell'ambito della narrazione omerica. Ma rintracciare delle disomogeneità, seppur conclamate, non dovrebbe voler dire esprimersi in termini di merito, né tanto meno in termini di assenza o presenza, possesso o privazione di nozioni che noi diamo per assodate. Dovrebbe invece significare accostarsi alla materia in questione con un atteggiamento il più possibile scevro di pregiudizi, che tenga anche conto di come le diverse forme di organizzazione dell'esperienza in questione siano figlie di un proprio tempo e del- la funzione intellettuale e sociale che esse rivestivano in contesti lontanissimi e dissimili fra loro.
Quindi, se per un verso è innegabile che i personaggi di Omero rappresentino de- gli eroi alle prese con esperienze riguardanti il proprio io e la propria persona, così come il proprio corpo, è altrettanto innegabile che tali esperienze fossero organiz- zate diversamente dalle nostre e che, pertanto, esse non siano valutabili secondo i nostri parametri. Al riguardo, mi sembrano particolarmente appropriate alcune pa- role di Vernant: "Soprattutto, questa esperienza è orientata verso l'esterno, non verso l'interno di sé; l'individuo si cerca e si trova negli altri, in quegli specchi ri- flettenti la sua immagine che sono per lui tutti i suoi alter ego. [] Pertanto l'indi- viduo si proietta e si oggettiva in ciò che compie effettivamente, in ciò che realizza: attività o opere che gli permettono di cogliersi, non in potenza, ma in atto, enérgeia, e che non sono mai nella sua coscienza. Non c'è introspezione; il sog- getto non costituisce un mondo interiore chiuso, in cui deve penetrare per ritrovar- si, o meglio scoprirsi. Il soggetto è estroverso; così come l'occhio non si vede da sé, l'individuo, per concepirsi, guarda all'altrove, al di fuori. La sua coscienza di sé non è riflessiva, ripiegamento su se stessa, chiusura all'interno, faccia a faccia con la propria persona: è esistenziale. L'esistenza viene prima rispetto alla co- scienza di esistere" Da qui il frequente ricorso a una terminologia concreta, a forme di esteriorizzazione, a valutazioni di tipo pratico in ambiti decisionali, e agli dèi, anch'essi facenti parte di quell'alterità nella quale l'eroe omerico pare spec- chiarsi.
In conclusione, se per un verso mi sembrano innegabili gli elementi essenziali dell'azione e della responsabilità umana rintracciati da Williams nel testo omerico in relazione a quella che egli definisce "l'unità della persona che pensa, agisce ed è presente con il corpo", per l'altro mi sembra che tali fattori siano da ritenere uni- versali in quanto abbiano a che fare con una percezione di sé di carattere istintivo. Se ammettiamo che l'ambito della riflessività si dischiuda nel momento in cui la rappresentazione della vita interiore si fa più esplicita e consapevole, allora la no- zione omerica dell'anima in termini di soffio, ombra, pare essere troppo debole per potervi in qualche modo contribuire. Ma tale giudizio, non intendendo essere di valore, deve essere valutato come punto di partenza per seguire l'evoluzione se- mantica di un termine, psyché, che è spia di un problema che lentamente si com- pone nella cultura (quello della valutazione di avvenimenti e processi psicologici secondo parametri storici e antropologici molti diversi dai nostri e interni alla stes- sa civiltà greca antica); d'altronde, tale giudizio va inserito nell'ottica del tema specifico che intende affrontare questa ricerca, quello del dialogo interiore. Ancor prima di discutere se e come esso possa instaurarsi, infatti, è stato necessario risa- lire alle radici della nozione di anima, nonché andare alla ricerca dei diversi modi in cui l'esperienza del discorso interiore veniva resa prima di Platone. E ciò non ha potuto prescindere dall'antefatto omerico: in cui la psyché, nell'originario si- gnificato di soffio vitale, è comparsa solo in punto di morte dell'individuo e non è risultata avere a che fare con eventi che, per noi, appartengono alla sfera psichica; in cui il dialogo interiore in situazioni di dissidio del personaggio è stato reso nella forma di un discorso che l'eroe rivolge a una parte concreta, corporea di sé (thymós o cuore) o a una figura divina sopraggiunta a indirizzare i suoi comportamenti e emozioni.
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