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MODELLO STOICO O SATIRICO?
Ulisse in Cicerone, Seneca, Orazio e Petronio
La vivace mobilità nella scelta dei valori da perseguire e l'aspirazione ad avere dei modelli, tipici del mondo latino, permettono di capire come a Roma tutte le interpretazioni del mito di Ulisse, che si erano ormai consolidate nella cultura greca, vengano subito accettate ed esaltate in qualsiasi composizione letteraria: la sua duttilità poteva, infatti, soddisfare le esigenze di oratori, scrittori e filosofi che in lui trovavano il più eloquente, il più furbo o il più saggio.
Nonostante questo, gli autori romani che riprendono tale versatile personaggio possono essere distinti in due macrocategorie: quelli che lo celebrano in quanto modello da imitare, come, ad esempio, Cicerone (106-43 a.C.) e Seneca (4-65 d.C.), e quelli che invece stravolgono tale concezione inserendo l'eroe in un contesto satirico o parodico, tra cui spiccano Orazio (65-8 a.C.) e Petronio (?-66 d.C.).
Ulisse compare nel discorrere filosofico moralistico di Cicerone e Seneca come l'esempio del saggio stoico che sa resistere alle tentazioni e che è pronto a dare la vita e a sopportare ogni dolore in nome della conoscenza.
L'episodio maggiormente preso in considerazione per suffragare questa tesi è quello dell'incontro con le Sirene di cui però i due autori mettono in luce aspetti diversi. Nell'analisi dell'Arpinate viene sottolineata la natura di sapiens di Ulisse: non sono infatti la dolcezza della melodia o la soavità della voce ad attrarre l'eroe itacese, perennemente alla ricerca di un piacere intellettuale piuttosto che estetico, ma la promessa di un vasto sapere.
In Seneca invece viene meno la riflessione gnoseologica e passa in primo piano quella sociale: i canori esseri marini sono simbolo delle blandizie e dei piaceri che ogni giorno allontanano l'uomo "dalla patria, dai genitori, dagli amici, dalla virtù" (Ep. 123, 12) e da cui è necessario fuggire, nonostante il fascino che esercitano su di noi. Ulisse essendo riuscito ad ascoltare le loro voci, senza tuttavia venirne sedotto, è pertanto il modello a cui ispirarsi per non cadere nell'errore.
Per il filosofo di Cordova tutta l'Odissea è lo specchio della situazione in cui versa l'uomo romano del tempo ed esplicita questa idea in una lettera (Ep. 88) di forte condanna delle arti liberali e della futilità di alcuni studi: è inutile perdere tempo nel tentativo di risolvere questioni relative alla geografia omerica o alle avventure degli eroi perché la vera Odissea da capire è la vita umana stessa, ricca di tempestates dell'animo, di mostri che vorrebbero la nostra morte e di voci lusinghiere.
Seneca quindi, attraverso il mito, muove una critica all'intera società in cui è inserito, dove "la dissolutezza getta in tutti i guai di Ulisse" (Ep. 88, 10), e offre come unico rimedio lo stoicismo: è necessario essere inmersabilis per riuscire a sopravvivere mantenendo intatto il rigore morale e i valori tradizionali.
Benché la figura di Ulisse abbia interessato anche la produzione lirica giovanile di Orazio, l'analisi più interessante e meno stereotipata di questo personaggio si trova nel V componimento della seconda raccolta di Saturae, in una scenetta mimetica con Tiresia che si articola come se fosse un brano da interpolare al testo omerico tra i versi 149 e 150 dell'undicesimo libro, ossia prima che l'indovino torni nell'Ade, dopo aver profetizzato all'eroe l'esito del viaggio[1].
Se l'episodio odissiaco si svolgeva sulle linee della tristezza e del dolore in relazione alle sofferenze che avrebbe dovuto sopportare l'itacese, qui il riso di Tiresia preannuncia un cambiamento di modalità: nella satira Orazio ha infatti intenzione di abbandonare il tono serio, sostituendolo con uno più faceto, connotato da affermazioni comiche e beffarde.
"(.) La stirpe e la virtù, se manca la ricchezza, non valgono nemmeno quanto un'alga" (Sat. II, 5, 8) esclama l'Ulisse oraziano: egli appare ridicolo rispetto al personaggio della tradizione epica proprio perché mette il denaro davanti alle sue qualità eroiche; addirittura la saggezza, uno dei tratti più distintivi della sua personalità (cfr. vir sapientissimus ciceroniano), non viene neanche nominata. L'uomo celebre per aver conosciuto molti popoli e molte città appare come uno stupido sprovveduto, inesperto delle cose del mondo, incapace di affrontare la sua difficile situazione e bisognoso dei consigli di un altro per riuscire a cavarsela.
La scena si dipana come se fosse un episodio omerico dimenticato per salvaguardare la dignità del personaggio. L'Ulisse capace di risolvere le questioni più spinose, qui ragiona come l'uomo comune, se non peggio: è un poveraccio che, per sopravvivere, acconsente di attuare, senza porre eccessiva resistenza, le soluzioni più vantaggiose e anche più subdole, come ad esempio diventare un cacciatore di eredità ( Te l'ho detto e te lo ripeto: da' con astuzia e dovunque la caccia ai testamenti dei vecchi" (Sat., II, 5, 24-25)).
L'uomo che si prendeva gioco degli dei e dei mostri, che riusciva a sovvertire la legge di natura, ora si trova alla "mercè di un dio minore"[2]: l'eroe in grado di convincere chiunque, si fa qui persuadere anche a compiere le azioni più turpi, come quella di offrire la fedele Penelope ad un vecchio libidinoso, venendo incontro così alla logica dell'utile. Nel testo oraziano il personaggio omerico è ormai lontano: Ulisse non è solo privo di soldi, ma anche di qualsiasi principio morale. Nell'Odissea ingannava sì, ma per un nobile fine, qui mente per ottenere soldi e successo sociale: egli raggiunge addirittura il livello degli heredipetae contemporanei all'autore che dovrebbero essere i veri bersagli della satira, ma che in realtà passano in secondo piano rispetto alla dissacrazione dell'Ulisse letterario, da cui il lettore trae il maggior divertimento.
Il ribaltamento dei topoi letterari odiassiaci avviene anche nel Satyricon di Petronio dove, sebbene il Laerziade non compaia in prima persona, le sue avventure costituiscono la base su cui vengono modellate quelle di Encolpio in modo così evidente da far ritenere questo romanzo un'"Odissea capovolta".
Nel corso dell'opera è riscontrabile una gara dei protagonisti ad operare un ricongiungimento con la figura di Odisseo, tentativo che però si conclude sempre in un comico fallimento. I personaggi del Satyricon vogliono nobilitarsi ed essere ritenuti all'altezza del personaggio omerico, acquisendo una dimensione eroica apparente che però non riescono a raggiungere: alla fine non sono loro ad innalzarsi, ma l'eroe omerico a venire abbassato.
I protagonisti del romanzo vengono sì in contatto con tante genti e situazioni, ma non acquisiscono nulla in saggezza o in capacità di affrontare imprevisti: Encolpio è un dimidiatus Ulixes[3] che non sa affrontare la vita e non è mai capace di metter in pratica stratagemmi che lo salvino nei momenti critici; è un personaggio passivo, a cui gli eventi capitano addosso senza quasi che lui se ne renda conto, e le cui armi non sono più l'astuzia e l'intelligenza, ma il fascino e l'attrazione.
Così come l'Odissea è incentrata sulla navigazione di Ulisse da Troia fino ad Itaca che lo porta a incontrare esseri misteriosi e magici, anche il Satyricon narra di un viaggio in cui gli eroi sono in continuo movimento e vivono avventure, attraversando però non luoghi nuovi ed inesplorati, ma tipici e fondamentali del mondo romano. La scuola di retorica, la pinacoteca, i banchetti, il mercato sono gli ambienti che fanno da sfondo all'intera vicenda e che rispecchiano i valori di una società folle e degradata in cui ciò che più importa sono i divertimenti e lo sfarzo.
Il viaggio di Encolpio è privo di epica ed è guidato dal caso, non c'è una meta ultima verso cui tendere e nemmeno un processo di formazione del protagonista: Ulisse durante le sue peregrinazioni ha imparato, Encolpio invece no, lui non è un eroe. Egli è prigioniero in una storia- labirinto in cui spesso si trova in trappole da cui riesce ad uscire in extremis per precipitare subito dopo in guai simili. Le sue peripezie suscitano divertimento nel lettore non solo per la trama, ma soprattutto per la dissacrazione che Petronio fa di tutti i temi dell'epica, anche di quelli più nobili: la nave su cui viaggiano i protagonisti porta il nome di "Antro del Ciclope"; Encolpio a Crotone, quando incontra la matrona Circe, usa l'appellativo Polieno, lo stesso con cui le Sirene avevano invocato Ulisse; l'itacese subiva la vendetta di Poseidone, il potente dio del mare, Encolpio invece quelle di Priapo, il figlio di Dioniso. Petronio quindi annienta e demolisce l'eroe "archetipico"[4] del romanzo inserendo continuamente paragoni espliciti e impliciti che costituiscono uno dei massimi fattori di comicità della sua opera: egli non vuole fornire dei modelli di comportamento, ma vuole solo rappresentare in modo disincantato e dall'interno una società che tende verso il basso e che è ormai lontana dagli eroi epici.
Alla luce dell'analisi fatta risulta evidente che Ulisse costituisca un punto di riferimento per tutti gli autori affrontati; quello che cambia è il modo in cui essi guardano a tale personaggio. Per Cicerone e Seneca è ancora possibile proporlo ai cittadini come modello da imitare; per Orazio e Petronio invece le sue avventure forniscono solo lo spunto per effettuare una dissacrante parodia che punta a divertire e non a educare il lettore. In entrambi i casi Ulisse viene comunque usato come strumento per aprire uno spiraglio di riflessione sulla situazione sociale di Roma che sta iniziando a peggiorare, nel momento in cui scrivono Cicerone e Orazio, ossia nella tarda repubblica e in età augustea, e che ormai versa in condizioni di enorme degrado durante la dinastia giulio-claudia, sotto cui operano Seneca e Petronio. Cicerone e Seneca offrono uno sguardo più partecipe e anche più severo su ciò che sta accadendo intorno a loro, auspicano un ripristino dei mores tradizionali e proprio per questo mettono in luce le caratteristiche più positive di Ulisse. Orazio e soprattutto Petronio offrono invece uno sguardo più disinteressato e quasi divertito sulla loro contemporaneità, senza tentativi di correggerla o di condannarla, ma con l'obiettivo di dipingere uno quadro il più realistico possibile del mondo romano.
Tiresia: "(.) chiunque impedisci, dovrà andarsene indietro"(Odissea, XI, 149).
Inserto oraziano: Ulisse: "Anche questo, o Tiresia, dopo quanto ti ho chiesto e tu mi hai detto, ora rispondi: con quali arti potrò, con quali mezzi ricostituire i miei beni, che ho perduto? Cosa c'è da ridere? (.)" (Sat. 2, 5, 1 ss.).
Ulisse: "E così detto l'ombra rientrò nella casa dell'Ade (.)" (Odissea, XI, 150).
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