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LO SPAZIO STRANIATO DEL 900
Nel romanzo deI 900, come nota Il Grosser, la narrativa fantastica si sviluppa secondo due modi di rappresentare ambienti e paesaggi che intrattengono differenti rapporti con la realtà da un lato la rappresentazione di paesaggi mentalmente onirici o surreali completamente o quasi completamente estranei a quelli reali (paesaggi d'invenzione caratterizzati dalla presenza dell'abnorme, del fantastico), dall'altro la rappresentazione straniata di ambienti e situazioni normali e quotidiani
Questa seconda modalità, che il critico definisce la più comune, si caratterizza per una rappresentazione enigmatica dello spazio quotidiano, che riflette l'incapacità dell'inetto del novecento di riconoscere come naturali e umani i luoghi e i contesti sociali in cui vive, cosi come non riesce più a compiere in modo naturale i gesti e gli atti più comuni alla vita quotidiana e Hnormaleff ( il motivo dell'inettitudine, dell'incapacità di vivere normalmente). In altre parole l'inetto si sente straniero di fronte alla normalità della vita e degli spazi e la deformazione degli ambienti quotidiani diventa lo specchio di questa sua condizione. Si tratta di una deformazione che assume diverse coloriture più o meno realistiche: dagli
ambienti quotidiani di Kafka più deformati rispetto al reale, agli ambienti più realistici di Svevo Trieste) e Pirandello ( Roma), ma ugualmente emblematici del senso di estraneità dei
personaggi.
Lo spazio de Il deserrto dei Tartari si può ricondurre ad uno spazio quotidiano straniato, in cui la quotidianità delle scene e degli ambienti si deforma caricandosi di una angoscia irreale e fantastica simile a quella che si sovrappone alle vicende realistiche e allo stesso tempo fantastiche del racconto: 1e vicende sono narrate attraverso un susseguirsi di scene che, prese isolatamente, potrebbero sembrare anche realistiche. L'aspetto favoloso non sta nei particolari o nei singoli episodi del racconto ma nell'atmosfera che essi riescono ad evocare, accumulandosi gli uni sugli altri e provocando stratificazioni successive di stati d'animo coerentemente orientati a suscitare una situazione psicologica di sospensione (Luperini)
Quello che in ogni caso emerge dagli spazi del romanzo è la condizione alienata del protagonista e il senso di oppressione che sconta nel mondo. Lo spazio in sostanza riflette i tentativo vano di instaurare un rapporto con il mondo parallelo al tentativo vano di istaurare un rapporto con il tempo.
La negazione del rapporto con lo spazio si sviluppa attraverso l'opposizione città-fortezza che taglia trasversalmente il romanzo segnando il percorso esistenziale di Drogo Prima tappa di questo percorso è l'incapacità di un contatto con lo spazio della fortezza, lo spazio dell'oppressione e della morte, opposto allo spazio della città, lo spazio della vità. Inizialmente, infatti, la fortezza si presenta al protagonista come opprimente con il suo colore giallastro ( Cap. 2. p. 17) con i bui e soffocanti labirinti dei corridoi: I due (il tenente Morel e Drogo) si avviarono per un largo corridoio, di cui non si riusciva a vedere la fine. Il si perdeva nella penombra, ogni tanto una piccola striscia di luce entrava da sottili finestrella..' muri nudi e umidi, il silenzio, lo squallore delle luci: tutti là dentro parevano essersi dimenticati che in qualche parte del mondo esistevano floride donne ridenti case allegre e ospitali. tutto là dentro era una rinuncia. per chi per quale misterioso bene?( cap.3,p.21)
AI senso di oppressione si alterna però una misteriosa attrazione che si manifesta in modo oscuro fin dal primo colloquio con il maggiore Matti , una attrazione sempre connessa al motivo della finestra ossessivamente ricorrente in tutto il romanzo: . . .Drogo, girando un poco la testa a sinistra, portò gli sguardi alla finestra, aperta sul cortile interno. Si vedeva il muro di fronte, come gli altri gialiccio e battuto dal sole, con i rettangoli neri delle rare finestreMa sopra il ciglione dell'edificio, lontana, spuntava una cima rocciosa. Se ne vedeva solo l'estrema punta e in sé non aveva niente di speciale. Pure c'era lì, in mezzo a quella rupe Giovanni Drogo, il primo visibile richiamo della terra del Nord. Ma Drogo ascoltava appena le spiegazioni di Matti, attratto stranamente dal riquadro della finestra, con quel pezzettino di rupe che spuntava sopra il muro di faccia. Il vago sentimento che non riusciva a decifrare gli si insinuava nell'animo; forse una cosa stupida e assurda, una suggestione senza costrutto ( Cap. 3, p. 23 e 25)
A dominare è però ancora lo spazio dell'angoscia sottolineato nel capitolo 4 dall'odioso rumore della cisterna ( "Ploc!" eccolo ancora l'odioso suono cap. 4 p. 33) e dallo spazio buio e sotterraneo del laboratorio del sarto Prosdocimo ( Drogo giunse così ai sotterraneo il laboratorio del sarto Prosdocimo era appunto allogato in una cantina - Uno spiraglio di luce scendeva, nelle giornate buone, da una piccola finestretta al livello del suolo, ma quella sera "avevano già acceso i lumi (cap.7, p. 51).
Il rapporto fortezza-città cambia al capitolo 9, quando Drogo dopo il colloquio con il medico Ferdinando Rovina decide di restare. L'attrazione prima oscura si fa evidente e la fortezza subisce una metamorfosi agli occhi di Drago, da luogo del buio e della morte diventa luogo della luce e della vita. A rilevare la positiva percezione è di nuovo Io sguardo attraverso la finestra, motivo, come abbiamo già visto, collegato alla misteriosa attrazione della fortezza e del Nord: Drago ascoltava senza interesse, intento com'era a guardare dalla finestra. E allora g i parve di vedere le mura giallastre del cortile levarsi altissime verso il cielo di cristallo e sopra di esse al di là, ancora più alte solitarie torri, muraglioni a sghembo coronati di neve, aerei spalti e fortini che non aveva mai prima notato. Una luce chiara dall'occidente ancora li illuminava ed essi misteriosamente casi splendevano di una impenetrabile vita Vide, fra lanterne e fiaccole, sul fondo livido del cortile, soldati grandissimi e fieri sguainare le baionette. Sul chiaro della neve formavano file nere e immobili come di ferro. Essi erano bellissimi e stavano impietriti mentre una tromba cominciava a suonare. Gli squilli si allargavano per l'aria vivi e lucenti penetravano diritti nel cuore( cap. 9, pp. 66-67). Parallelamente la città perde la sua solarità e nel ricordo di Drogo è avvolta da un alone di disfacimento e di morte: Passò nella mente di Drogo il ricordo della sua città, un'immagine pallida, vie fragorose sotto la piova, statue di gesso, umidità di caserme, squallide campane, facce stanche e disfatte, pomeriggi senza fine, soffitti sporchi di polvere. (cap. 9, p. 68) Le parti però si invertono ancora quando Droga con la primavera sente rinascere la vita. La fortezza ridiventa luogo della morte e la città spazio solare e vitale :Ecco il tempo in cui gli uomini della fortezza cominciano ad avere curiosi pensieri che non hanno niente di militare. Le mura non sono più un riparo ospitale ma danno l'impressione di carcere. Il loro aspetto nudo, le strisce nerastre degli scoli gli spigoli obliqui dei bastion4 il loro colore giallo, non rispondono in alcun modo alle nuove disposizioni di spirito Nuvole uguali navigano in questo momento sopra la città lontana ; gente che passeggia placida ogni tanto le guarda, lieta che l'inverno sia finito, quasi tutti hanno vestiti nuovi o rimessi in ordine, le giovani donne portano cappelli con fiori e abiti a colori. Tutti hanno l'aria contenta, come se aspettassero da un momento all'altro cose buone. (cap. 17, p. 14; p. 145)
Lo spazio positivo della città si rivela però illusorio e invivibile durante la licenza di Droga ed anzi, nell'episodio della festa da ballo, la città assume su di sè il negativo della fortezza ( gli spazi labirintici e oscuri, e la percezione ingannevole del tempo): Ci fu in quel tempo una grande festa da ballo e Drago, entrando nel palazzo in compagnia dell'amico Vescovt lùnico che avesse ritrovato, si sentiva nelle migliori condizioni di spirito. Benché fosse già primavera. la notte sarebbe stata lunga, uno spazio di tempo pressoché illimitato: prima dell'alba potevano succedere tante cose, esattamente Drago non era in grado di specificarle, ma certo lo attendevano parecchie ore di incondizionato piacere. Aveva infatti cominciato a scherzare con una ragazza vestita di viola e non era ancora suonata mezzanotte, forse prima del giorno sarebbe nato I amore quand'ecco il padrone di casa lo chiamò per mostrargli dettagliatamente il palazzo. lo trasse per certi labirinti e cunicoli. lo tenne relegato nella biblioteca. lo obbligò a considerare vezzo per vezzo una collezione d'armi. (cap. 17, pp. 150-151)
Alla delusione della città segue il dentro in fortezza. Drago è di nuovo vittima delle stesse speranze e della solita attrazione per gli spazi del Nord: Eppure un residuo di incanto vagava lungo i profili delle gialle ridotte, un mistero si ostinava lassù, negli angoli dei fossati all'ombra delle casematte, sensazione inesprimibile di cose future. (cap. 21, p. 170) Nonostante le delusioni la fortezza ridiventa allora lo spazio positivo da cui Drogo si attendell'eroico destino, fino alla malattia e alla morte, in cui il protagonista, in un nuovo spazio (la povera locanda) prende coscienza della vanità delle sue illusioni e rifiuta gli spazi che hanno fatto da comica a tutta la sua esistenza (la città e la fortezza): l'idea di entrare nella sua città, di girare a passi strascicanti per la vecchia casa deserta o di giacere in un letto per lunghi mesi di noia e di solitudine gli faceva paura. Non aveva nessuna fretta di arrivare. Decise di passare la notte nella locanda .Lui solo al mondo e malato, respinto dalla fortezza come peso importuno, lui che era rimasto indietro a tutti lui timido e debole, osava immaginare che tutto non fosse finito; perché era davvero giunta la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva pagare l'intera vitaPovera cosa gli risultò allora quell'affannarsi sugli spalti della fortezza, quel perlustrare la desolata pianura del Nord, le sue pene per la carriera, quegli anni lunghi di attesa( cap. 29, p. 228; cap. 30, p. 231; cap. 30, p. 233)
Nello spazio si iscrive cosi la storia dell'inettitudine di Drogo. La costante tensione che sempre delude le attese e il costante rovesciamento di valori (dal negativo al positivo e viceversa) fra i due poli entro cui si situano le vicende (la città e la montagna) sembrano, infatti, confermare la nostra ipotesi di partenza: l'incapacità di Drogo di istituire un rapporto reale con lo spazio e il mondo colti come definitivamente straniati e enigmatici.
LA MORTE DEL SIMBOLISMO
Lo spazio del romanzo non assume un semplice valore esistenziale ( l'inettitudine e lo spazio dell'alienazione ) ma anche un valore più squisitamente letterario riproponendo gli itinerari spaziali della letteratura del Novecento: dal Simbolismo alla morte del Simbolismo. In questo senso si potrebbe dire che ne Il deserto dei Tartari il rapporto del protagonista con la fortezza narrati la fine dell'illusione simbolista di un rapporto con l'assoluto e con l'oltre. Ai rapporto degradato con la realtà ( spesso rappresentata dalla città borghese corrotta dalla seconda rivoluzione industriale) i simbolisti contrappongono il rapporto con lo spazio più vero dell'assoluto, l'oltre atemporale in cui trovano la loro profonda unità tutte le cose e in cui l'io dei poeti riesce a cogliere misteriose consonanze. Si tratta di quell'unione io mondo espressa nelle poesie di Baudelaire (Correspondances), nel simbolismo dannunziano e successivamente in poeti come Ungaretti che scoprono una compensazione alla loro angoscia esistenziale nel rapporto armonico con la natura. Diversamente per altri autori del Novecento tale unione risulta irraggiungibile e all'armonico rapporto con l'assoluto si sostituisce in essi il rapporto con un mondo estraneo ed ostile: ad esempio, nel romanzo, il mondo e lo spazio de Gli indifferenti di Moravia e, nella poesia, l'aridità degli spazi montaliani.
Buzzati fa parte del secondo gruppo e il deserto dei Tartari, anche in questo, rivela una scoperta tendenza antidannunziana.
Dunque la storia del protagonista potrebbe essere analizzata come il tentativo fallimentare della ricerca ( di tipo simbolista) dell'oltre. Droga all'inizio delle vicende si trova, infatti, nella tipica condizione dell'intellettuale decandente (e simbolista), la condizione di attrito con la società borghese rappresentata dalla degradazione della città : Tutta quella vita facile ed elegante oramai non gli apparteneva più, cose gravi e sconosciute lo attendevano ( cap. 1, p.
5). Contro questo mondo inautentico, la fortezza si presenta con le caratteristiche dell'assoluto simbolista sottolineate anche da rimandi alla celebre Correspondances di Baudelaire: Tacquero. Dove mai Droga aveva già visto quel mondo? C'era forse vissuto in sogno o l'aveva costruito leggendo qualche antica fiaba? Gli pareva di riconoscerle, le basse rupi in rovina, la valle tortuosa senza piante nè verde, quei precipizi e infine quel triangolo di desolata pianura che le rocce davanti non riuscivano a nascondere. E questi profondissimi dell'animo suo si erano ridestati e lui non li sapeva capire. ( cap. 3, p. 29)
Quegli Echi profondissimi sembrano infatti alludere agli echi di Baudelaire e conseguentemente alla possibilità di un'unione con l'assoluto: La natura è un tempo dove pilastri vivi!
mormorano a tratti indistinte parole l'uomo passa, li. tra foreste di simboli! che l'osservano con sguardi familiari. / Come echi che a luna e da lontano/tendono a una vera fonda unità. / grande come le tenebre o la luce, li profumi, i colori, e i suoni si rispondono ( Correspondances vv. 1-8)
Tuttavia in Buzzati il dialogo con l'assoluto è impossibile e "la familiarità" con esso illusoria. Lo dimostrano due episodi funzionali a smentire l'illusione simbolista del passo riportato. Il primo ha luogo nel capitolo 10, quando Drago, abituatosi al formalismo militare della fortezza e ormai sicuro dell'eroico destino che lo attende, crede di udire il canto di una sentinella e decide di intervenire per punirla. Si rende, però, conto che non sì tratta di un canto ma dell'ingannevole rumore dell'acqua: Finalmente Droga capì e un lento brivido gli camminò nella schiena. Era acqua, era; una lontana cascata- scrosciante giù per gli appicchi delle rupi vicine. Il vento che faceva oscillare il lunghissimo getto, il misterioso gioco degli echi il diverso suono delle pietre percosse ne facevano una voce umana, la quale parla va: parole della nostra vita . che si era sempre a un filo dal capire e invece mai. Non era dunque il soldato che cantarella va, non era un uomo sensibile al freddo, alle punizioni e all'amore, ma la montagna ostile. Che triste sbaglio, pensò Droga, forse tutto è così, crediamo che attorno ci siano creature simili a noi e invece non c'è che pelo, pietre che padano una lingua straniera, stiamo per salutare l'amico ma il braccio ricade inerte, il sorriso si spegne. perchè ci accorgiamo di essere completamente soli. (cap. 10, p. 76)
La solitudine, l'alienazione, l'incomunicabilità dell'uomo moderno è ormai definitiva. Conseguentemente le parole della natura sono solo ingannevoli e stranieri rumori, che sanciscono l'illusorietà dei profondissimi e fraterni echi simbolisti.
L'altro episodio a cui facevamo riferimento si svolge durante il periodo di licenza in città. Droga rincasa a tarda notte dopo una festa e crede di parlare con la madre, ma in realtà scambia il rumore di una carrozza con la voce della madre: Nello stesso istante capi di avere scambiato il rotolo di una carrozza lontana con la cara voce. In verità la mamma non aveva risposto, i passi notturni del figlio più non la potevano destare come una volta, si erano fatti come estranei, quasi il loro suono fosse col tempo cambiato.. .Adesso lui aveva salutato la mamma-corno una volta, con la medesima in flessione di voce, certo che al familiare rumore dei suoi passi si fosse destata. Invece nessuno gli aveva risposto fuori che il rotolo della lontana carrozza ( cap. 18, p. 152) Di nuovo solitudine, irrecuperabilità del tempo, ma anche incomunicabilità di una natura dalle voci ingannevoli e incomprensibili.
In questo racconto della morte del simbolismo un posto rilevante spetta alla conclusione del romanzo. Qui, come abbiamo visto, Droga prende coscienza delle illusioni delle sue eroiche speranze e alla morte nobile e disumana di Angustina contrappone la morte misera e umana da lui affrontata nella locanda. Nella nostra interpretazione si tratterebbe di un eroico rifiuto (che richiama l'eroismo leopardiano) delle illusioni decadenti e simboliste dell'oltre ( rappresentate dal dannunziano Angustina), nell'accettazione dell'unica verità possibile per l'uomo: la miseria della propria condizione. In sostanza Droga accetta la realtà decaduta dell'uomo e con essa l'incomunicabilità con lo spazio, nel rifiuto di ogni falso conforto simbolista. E forse questo è il senso della conclusione del racconto: Droga ha scoperto il valore eroico della sua misera morte ,ma ha paura di essere di nuovo vittima dell'autoinganno ( se il suo coraggio non fosse che una ubriacatura?). In suo soccorso interviene però il narratore che così lo conforta: No non pensarci. Drogo, adesso basta tormentarsi il più ormai è stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori anche se non ci saranno più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso. Il più è stato fatto, non ti possono più defraudare.
Droga non può più essere defraudato perchè ormai ha raggiunto la consapevolezza della miseria umana. Non c'è più spazio per l'autoìnganno simbolista. La vita è solo buio come è buia la camera dove muore senza il conforto della luna, che dovrebbe venire ma non giunge. Il protagonista ormai lo sa e per questo può sorridere nel buio, dopo un ultimo sguardo alla finestra, questa volta però brevissimo, a rilevare la vanità di quella fuga illusoria nell'oltre sempre associata, nel corso delle vicende, allo sguardo teso, dalle innumerevoli finestre disseminate nel romanzo:
La camera si è riempita di buio, solo con gran fatica si può distinguere il biancore del/etto, e tutto il resto è nero.
Fra poco dovrebbe levarsi la luna.
farà in tempo, Drogo, a vederla? o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d'aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po' il busto, si asesta con una mano il colletto dell'uniforme, dà ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l'ultima sua porzione di stelle. Poi, nel buio, benché nessuno lo veda, sorride (cap. 30 p. 234).
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