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L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Così definì Kant l'illuminismo.
L'illuminismo è il più grande movimento politico ed intellettuale del Settecento, caratterizzato dalla fede nel progresso della civiltà e dall'emancipazione dell'uomo sotto la guida dei "lumi" della ragione. È per mezzo della ragione che l'uomo può arrivare alla verità. Il movimento rappresenta la realizzazione del processo di laicizzazione della cultura.
Perché l'uomo possa avvalersi della ragione, è necessario che si liberi dai pregiudizi, massime responsabili dei quali sono le religioni positive, le cui verità assolute avviliscono lo spirito critico. Respinte le religioni positive e il fascino della metafisica, la ragione trova il suo fondamentale campo d'azione nell'analisi e nella critica della realtà sociale. L'illuminismo è pervaso da un profondo interesse per l'uomo, che emerge nella diffusa attenzione per i fenomeni di costume e sfocia nella fondazione di scienze umane come l'antropologia fisica e culturale, la psichiatria e l'economia. Dal trionfo dei lumi la società si attende un ulteriore progresso della civiltà. Ciò implica una battaglia contro la censura, contro l'arretratezza degli ordinamenti giuridici, quindi contro l'antico regime. La natura costituisce un valore ideale per gli illuministi. Si ha uno spiccato interesse per le civiltà primitive e lontane, in particolare per quella cinese sviluppatasi in modo totalmente indipendente dalla rivelazione cristiana. L'illuminismo non è caratterizzato da diversificazioni tra le diverse aree europee: il continente parve unirsi in un'unica comunità intellettuale; ma fu soprattutto la Francia ad irradiare l'Europa della sua intensa vita culturale, alimentando una primavera che sarebbe durata fino agli anni Ottanta.
In Italia la cultura illuministica si diffuse in ritardo rispetto agli altri paesi europei. Solo con la pace d'Aquisgrana del 1748, che assicurò al paese un periodo di pace, in Italia si cominciarono a vedere segni dell'illuminismo. A Milano grazie alla nuova dinastia riformatrice degli Asburgo che s'ispirò al "dispotismo illuminato", si avviano una serie di riforme anti-feudali e anti-clericali. Per quanto riguarda la cultura si ha lo studio e la divulgazione d'opere d'oltralpe e, sempre a Milano, centro dell'illuminismo italiano, una schiera di scrittori si riunì attorno ad un periodico, Il Caffè, che ebbe vita breve ma intensa. Fu diretto dai fratelli Verri e vi collaborò Cesare Beccaria. La caratteristica dell'illuminismo italiano è che si occupò soprattutto di problemi morali, giuridici ed economici. L'importanza dell'illuminismo deve perciò essere rintracciata prevalentemente sul piano politico-giuridico. In questo contesto s'inserisce la comparsa di un libro di valore europeo "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria.
Cesare Beccaria nacque a Milano nel 1738. Dopo aver compiuto i primi studi nel collegio dei nobili di Parma, conseguì la laurea in giurisprudenza all'università di Pavia nel 1758, anno in cui, inoltre, si convertì alla filosofia. Tale conversione, si maturò e consolidò attraverso la lettura delle opere degli illuministi francesi (Montesquieu, Rousseau). Nel 1761 realizzò con un gruppo d'amici all'Accademia
dei Pugni, il sodalizio da cui sarebbe nato Il caffè la battagliera rivista animata da
Pietro Verri. E fu proprio Pietro Verri che propose a Beccarla di trattare il tema dell'amministrazione della giustizia, ispirandogli l'opuscoletto Dei delitti e delle pene. Da Pietro, Beccaria ricevette molti consigli, e dal fratello di Pietro, Alessandro, nella sua qualità di protettore dei carcerati, ebbe numerose notizie in merito all'ambiente carcerario. L'opera, discussa in comune tra i tre amici, venne ancora definitivamente rivista in bozze da Pietro Verri. Il libro fu commentato da Voltaire e dal Diderot e celebrato come opera immortale nei circoli dotti e mondani di Parigi. L'opera segnalava i difetti e le asperità del sistema criminale allora vigente, levava la voce contro la pena di morte, la tortura, la graduazione delle pene secondo lo stato sociale del reo, le prigioni anguste e malsane, il sistema stesso della procedura congegnata in maniera da offrire ad un imputato non colpevole poche possibilità di mostrare la sua innocenza.
L'Europa, che in quegli anni disputava dei clamorosi casi giudiziari sollevati da Voltaire, tributò all'opera uno straordinario successo, accompagnato da violenti polemiche. I filosofi lo lodarono: quel libretto apparve loro uno strumento efficace nella lotta che avevano intrapreso contro la giurisdizione. Nel 1766, comparve la traduzione francese con un commento scritto da Voltaire e, in quello stesso anno il testo fu messo all'Indice dalla Chiesa Cattolica. Ciò non impedì la rapida diffusione in Europa e in America. Prova della fama di cui godeva fu l'invito di Caterina II di Russia di recarsi a Pietroburgo per presiedere una commissione di riforma del codice penale; fu chiamato dal governo austriaco per coprire una cattedra, creata appositamente, d'economia politica all'università di Pavia; ma decise di lasciare questi incarichi per passare ad attività di governo. Fu membro dal 1777 del supremo consiglio d'economia, poi consigliere del magistrato camerale, dal 1785 presidente di dipartimento del consiglio governativo, fece parte nel 1790 della giunta per la correzione del sistema giudiziario, e nel 1791 della commissione per la riforma del sistema criminale. Sono legate a quest'attività varie opere, che non ebbero il grande successo che riscosse l'opuscolo Dei delitti e delle pene.
Il segno più concreto della popolarità di tale opuscolo, fu l'influenza che esercitò sulla revisione dei codici penali di vari paesi europei. Un esempio c'è dato dalla riforma della legislazione criminale in Toscana emanata da Pietro Leopoldo nel 1786. Il granducato di Toscana fu il primo paese ad abolire la pena di morte, che fu sostituita dai lavori pubblici a vita i quali, " servono d'esempio continuato e non di un momentaneo terrore che spesso degenera in compassione". Il decreto vietava anche la persecuzione e l'uccisione di cittadini che fossero solo sospettati colpevoli; e l'uso della tortura.
Il libricino Dei delitti e delle pene è composto di quarantasette paragrafi e si apre con un avviso A chi legge, dove così si esprime: "Spetta ai teologi lo stabilire i confini del giusto e dell'ingiusto, per ciò che riguarda l'intrinseca malizia o bontà dell'atto; lo stabilire i rapporti del giusto e dell'ingiusto politico, cioè dell'utile o del danno della società, spetta al pubblicista"; segue poi un'Introduzione.
L'opuscolo è fondato sulla concezione contrattualistico-liberale del Locke, che è premessa al principio di legalità e quindi al diritto di punire; di quel diritto, tuttavia, che può essere espletato soltanto in presenza di leggi; leggi che, per essere legittime, debbono essere necessarie e quindi utili. Affrontando una polemica che sarà molto avvertita nel corso del secolo il Beccaria nel paragrafo Interpretazioni delle leggi si scaglia contro la discrezionalità che può essere concessa al giudice nell'applicare la legge; la sua tesi è d'origine baconiana (De dignitate et augmentis scientiarum). Con questo pretesto l'autore vuole divulgare l'esigenza di leggi chiare, precise, a tutti comprensibili, non più scritte in una lingua estranea al popolo (il latino). Beccaria voleva inoltre vincere i pericoli insiti nell'interpretazione di leggi confuse e contraddittorie accumulatesi e sovrappostesi nel corso dei decenni. In questi capitoli non si vuole soltanto descrivere un nuovo diritto penale, ma si difende la libertà d'ogni cittadino. La pena inoltre non deve essere troppo crudele perché altrimenti metterebbe in gioco la sua validità.
Molto importante è il capitolo Proporzione fra i delitti e le pene: il principio che ospita contiene l'applicazione della pena minima necessaria. Tale principio della proporzionalità tra delitto e pena è connesso allo stato della nazione, intendendo per ciò il grado della comune sensibilità. Questa parte di libro è forse quella che riceverà più favore da parte dei contemporanei.
L'ottavo capitolo, Divisione dei delitti, sarebbe stato lunghissimo se fossero state descritte e classificate le varie sorti di delitto ma, il Beccaria ne presenta solo tre grandi specie: "alcuni delitti distruggono immediatamente la società, o chi la rappresenta; alcuni offendono la privata sicurezza di un cittadino nella vita, nei beni, o nell'onore; altri sono azioni contrarie a ciò che ciascuno è obbligato dalle leggi di fare, o non fare, in vista del bene pubblico".
Nel ventunesimo capitolo l'autore parla di quali debbano essere le pene per i nobili arrivando alla conclusione secondo la quale tutti i sudditi sono uguali di fronte alle leggi "ogni distinzione sia negli onori che nelle ricchezze perché sia legittima suppone un'anteriore uguaglianza fondata sulle leggi, che considerano tutti i sudditi come egualmente dipendenti da esse".
Per quanto riguarda i furti essi se non hanno unito violenza dovrebbero essere puniti con pena pecuniaria.
Il sedicesimo capitolo è dedicato alla tortura. Il capitolo ci introduce subito i cinque casi in cui si applica più frequentemente la tortura. Beccaria si scaglia contro di essa: "Una crudeltà consacrata dall'uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, .". Beccaria sostiene che un uomo non può chiamarsi colpevole finchè la sua colpevolezza non è stata pronunciata in sentenza dal giudice e in ogni modo anche se colpevole gli spetta protezione. L'autore afferma che il tormento del corpo spezza ed annulla la persona dell'imputato e procura la non credibilità di ogni confessione strappata col dolore quindi, questo, è il mezzo sicuro per assolvere gli uomini robusti e più resistenti al dolore e per condannare i deboli innocenti.
Il diciannovesimo capitolo è dedicato alla carcerazione. Il carcere è visto come una custodia del cittadino per preventivare una sua probabile fuga o per non occultare le prove di un delitto. La carcerazione deve durare il minor tempo possibile, stessa cosa dicasi per il processo. Anche nel trentesimo capitolo, intitolato Processi e prescrizioni, riappare il dramma del tempo, ovverosia della deprecabile lunghezza dei processi soprattutto quando il codice impone la detenzione che, appunto, in attesa della sentenza, che potrebbe essere assolutoria, è già una pena.
Il ventottesimo capitolo è dedicato alla pena di morte: "Qual può essere il diritto che si attribuiscono agli uomini di trucidare i loro simili? Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo?. Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è la guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la pena di morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità."
Questo è il paragrafo centrale e fondamentale di tutta l'opera, quello più carico di conseguenze etiche nella storia della nostra civiltà. Il Beccaria tende a coniugare l'utilitarismo con il contrattualismo: se la pena di morte è subito presentata come un atto illegittimo, perché sovente considerato utile alla comunità, è chiaro che, al di la del principio utilitaristico, l'autore sia ricorso anche ad argomenti giusnaturalistici. Per Beccaria finchè c'è società civile, non vi è necessità alcuna di metter a morte un cittadino; quando una tale necessità si ravvisa, ciò accade perché la società civile non c'è più. Da ciò discende il secondo caso, in cui può credersi necessaria la pena di morte, potrebbe verificarsi qualora in uno stato tranquillo, funzionante, la pena capitale si dimostrasse utile come il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti. Ma l'esperienza di tutti i secoli ci dice che la pena di morte non ha mai distolto gli uomini determinati dall'offendere la società, al contrario l'abolizione di questa pena ha dimostrato che i delitti non aumentano là dove il provvedimento è stato adottato, infatti, lo spettacolo della morte accresce la violenza non la fa diminuire in uno stato: "Non è utile la pena di morte per l'esempio che da agli uomini".
Gli ultimi capitoli non presentano l'importanza filosofica del ventottesimo ma, non vanno sottovalutati perché in ognuno si trovano riflessioni e giudizi che sfociano verso il rinnovamento del diritto inteso come struttura fondamentale della civiltà.
Si osservano dunque il capitolo Il suicidio (XXXII), un delitto che sembra non ammettere una pena propriamente detta ma che, tuttavia, si presta a complesse e sofferte considerazioni sulla natura psicologica e sulle cupe conseguenze. Ma i casi che possono interessare più direttamente le leggi penali sono i capitoli: trentatreesimo sui Contrabbandi e il trentaquattresimo sui Debitori, piaga sociale eppure passibile d'indulgenza là dove si verifichi il caso di "falliti innocenti", che non dovrebbero patire la prigione. Si toccano poi, come ultime, altre due questioni: gli Asili (capitolo trentacinquesimo) e la Taglia (capitolo trentaseiesimo), sulle quali il giudizio di Beccaria è decisamente contrario. Il capitolo trentottesimo è dedicato alle Interrogazioni suggestive ovvero di quelle interrogazioni che mirano con passaggi sempre più avvolgenti e stringenti a condurre l'inquisito a dire quello che l'inquirente desidera. Non manca il dissenso sull'argomento delle condanne al rogo ai tempi dell'intolleranza religiosa (capitolo trentanovesimo: Di un genere particolare di delitti).
L'ultimo capitolo il quarantaseiesimo, parla della concessione della grazia e del condono.
La conclusione è brevissima e racchiude una sentenza che raccoglie e stringe con veloce solennità le appassionate ragioni dell'opera; è stampata in corsivo, è, quindi, messa in rilievo, è scandita e ferma affinché si scolpisca meglio nella memoria e nella conoscenza del lettore.
Il Beccaria fu, nel campo della legislazione penale, essenzialmente un moralista e un rivoluzionario: un uomo d'azione che da solo, armato soltanto di quel piccolo libro, abbatté i patiboli e scardinò le porte delle prigioni per farvi penetrare un raggio di umana pietà. Qualcuno, anche ai giorni nostri, ha cercato di diminuire la sua figura, rappresentando il suo libricino come "espressione della comune mentalità dominante" in quel periodo, e lui "uno strumento che come tale avrebbe potuto essere sostituito più o meno bene da qualche altro pensatore illuminista dell'epoca"; ma ha dimenticato di spiegare perché proprio da lui, e non da altri, quel libretto fu scritto, e per quale miracolo solo in quelle pagine la "comune mentalità dominante" seppe trovare quella calda immediatezza trascinante, senza la quale non si fanno le rivoluzioni.
Qui sta, a ben guardare, la vera novità del Beccaria: in questa rivendicazione, di fronte agli spietati rigori della giustizia punitiva, della inviolabilità morale dell'uomo, il quale, anche sul patibolo, rimane persona, non cosa. Solo con l'illuminismo, nonostante la sua apparenza di razionalismo irreligioso, doveva affermarsi come una religione laica questo senso di uguaglianza umana e di solidarietà sociale, che è l'immenso dono fatto dal Cristianesimo alla civiltà.
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