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LEZIONI SU SVEVO
La cosa più importante, prima di esaminare dettagliatamente la personalità e l'opera di Svevo, è che la sua opera, insieme a quella di Pirandello, esprime la demolizione più coerente e più definitiva delle certezze positiviste e borghesi con le quali si era chiuso il secolo XIX.
Con Svevo e Pirandello la rappresentazione letteraria dell'uomo finisce col dipingere l'immagine di un essere senza verità, senza unità, senza speranza, scaraventato in un mondo caotico, malato, assurdo.
Parallelamente alla dissoluzione dell'immagine umana, questi due scrittori hanno scompaginato radicalmente le strutture stesse della rappresentazione letteraria, innovando profondamente il romanzo e il teatro nelle loro tecniche espressive.
A buon diritto, quindi, Svevo, con Pirandello, deve essere considerato uno degli autori più 'rivoluzionari' della nostra storia letteraria e uno degli esponenti più alti della letteratura italiana ed europea.
SCALETTA E SINTESI DEL CAPITOLO SU SVEVO da:
Guglielmino - Grosser, Il sistema letterario, Novecento, Principato.
Con integrazioni da Marchese, Storia intertestuale , Il Novecento, SEI
Altre fonti citate al luogo.
(10.1) L'IMPIEGATO SCHIMTZ
Italo Svevo si chiamava in realtà Ettore Schimtz. Il fatto che Ettore Schimtz abbia fatto uso di uno pseudonimo per pubblicare i suoi romanzi è un elemento importante per comprendere la sua opera, infatti la vita di Svevo [e, aggiungo, la sua personalità] sono sintetizzabili in gran parte con il binomio: affari - letteratura.
Svevo passa infatti la sua vita dividendosi fra l'attività letteraria (per molti anni coltivata quasi nella clandestinità, fino al successo, quando ormai aveva più di sessanta anni) e il tranquillo lavoro borghese (impiegato di banca o commerciante).
Le tappe fondamentali della sua biografia si possono ricavare dal manuale.
Qui bisogna invece sottolineare alcuni aspetti della sua vita e della sua personalità:
i primi due romanzi sono due fiaschi autentici e, dopo il secondo, Senilità, del 1898, Svevo fa il proposito (non mantenuto) di abbandonare la letteratura, anzi, come scrive, 'quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura';
il successo, con La coscienza di Zeno, gli arriva nei primi anni Venti, quando il clima letterario italiano ed europeo è cambiato rispetto al positivismo o al dannunzianesimo di fine 800. Infatti chi 'scopre' Svevo è Joyce, oppure, in Italia, Montale. E Joyce e Montale sono tra i maggiori esponenti europei della nuova letteratura del 900;
di idee politiche vere e proprie non se ne ha traccia, se non per un breve periodo, quando scrisse La tribù, un racconto vagamente socialista; a queste idee tentò di convincere la moglie, senza riuscire a scalfirne le solide convinzioni borghesi. Poi Svevo lasciò perdere;
circa la sua formazione culturale Marchese delinea un percorso intellettuale anche più ricco e dettagliato (Cfr. Marchese, Storia intertestuale ecc. )
Il rapporto fra letteratura e affari dunque non è pacifico, anzi è conflittuale. Egli si dedica agli scritti quasi di nascosto, come coltivando un vizio segreto; eppure nonostante gli insuccessi continua a credere nella letteratura. Questo fa pensare proprio al suo personaggio Zeno, che finge di lottare contro il vizio del fumo, dal quale, in verità, non si vuol distaccare; così pure egli 'tradisce' la quieta ostilità della moglie alla letteratura, scrivendo di nascosto: insomma lo scrivere è quasi un'avventura extra coniugale.
Bisogna mettere nel conto anche la diffidenza con cui in un ambiente borghese di affari, banche, commerci ecc. come era Trieste, veniva giudicata la letteratura.
Guglielmino conclude attribuendo ad Ettore e a Italo due diversi giudizi sulla letteratura. La personalità dello scrittore, insomma, sarebbe come scissa e duplice: per Schmitz, l'uomo d'affari, la letteratura vale solo se ha successo; Svevo vede invece in essa una forma di liberazione e di denuncia delle false certezze su cui riposa la vita borghese, la sua stessa esistenza.
Quando finalmente giunse il successo, con Zeno, all'autore sembrò quasi che le due persone che in lui convivevano potessero andare ormai d'accordo.
(10.2) I PRIMI ROMANZI ecc.
Come scrisse Giacomo Debenedetti - uno dei massimi interpreti di Svevo -, Svevo è nato per il romanzo, sembra che non possa e non sappia, come scrittore, fare altro. E il romanzo, per lui, è sempre un inchiesta sull'uomo, attraverso la trama di eventi, sentimenti, pensieri, in cui egli colloca il personaggio (homo fictus).
Eppure Svevo non ha scritto solo romanzi, ma anche racconti, fiabe, saggi, opere teatrali.
Tuttavia noi, in queste lezioni scolastiche, prenderemo in considerazione soltanto lo Svevo romanziere.
Dei racconti ci limitiamo a segnalare il primo, L'assassinio di via Belpoggio, poi Il buon vecchio e la bella fanciulla e Corto viaggio sentimentale.
Delle commedie: Un marito.
Vale aggiungere che i racconti ricalcano temi e forme dei romanzi e che le commedie si inseriscono nel clima di rinnovamento teatrale segnato da Ibsen e, soprattutto, da Pirandello.
UNA VITA
Il primo titolo era stato Un inetto. L'opera è del 1892, quasi contemporanea di Mastro don Gesualdo e vicinissima a L'esclusa.
In verità il romanzo è la storia, appunto, di un inetto, di un uomo incapace cioè di vivere la vita normale, aperta, comune, degli altri uomini. E' un individuo sempre in preda a pensieri e sentimenti che alterano il suo rapporto con la realtà, facendolo sempre essere falso, insincero sia con le persone che incontra sia, soprattutto, con se stesso.
Alfonso Nitti (è il nome del protagonista) è appunto un inetto, che maschera i propri sentimenti più veri fingendo di averne altri e non è capace di vivere un'esistenza 'costruttiva', ispirata da valori, convinzioni, ideali positivi.
Il riassunto del romanzo si può leggere nelle schede indicate a conclusione di queste lezioni su Svevo e qualche pagina si può trovare nell'antologia: ma su due momenti è bene fermarsi un po'.
Alfonso è avvilito per la sua meschina vita di impiegatuccio. Però il suo riscatto non avviene tramite la concretezza del lavoro, ma attraverso l'evasione fantastica. Cioè Alfonso si consola e si esalta col pensiero di essere superiore agli altri, intellettualmente e culturalmente. Egli vive, perciò, più delle sue fantasie che della realtà. Si pensi, per contrasto, alla concretezza dei personaggi manzoniani e di quelli verghiani.
Un altro punto. Alfonso ha 'paura' del matrimonio e, per non affrontarlo, inventa una ragione 'nobile', con la quale non vuole ingannare soltanto la donna, ma anche se stesso: egli vuole convincersi che i motivi dell'abbandono di Annetta non sono abietti (come in realtà sono) ma nobili.
Alfonso è, quindi, fondamentalmente un insincero, un debole, appunto un inetto.
Qualcuno ha usato per lui la parola vinto, come per i personaggi verghiani. Ma non è così, perché i vinti di Verga sono sconfitti dall'ambiente esterno, dalla società in cui vivono; mentre Alfonso (e gli altri protagonisti di Svevo) sono sconfitti dalla loro interiore capacità di aderire alla vita.
Marchese ha scavato ancora di più nel personaggio (Cfr. Storia intertestuale ecc.)
SENILITÀ'
Questo romanzo approfondisce il tema dell'inettitudine a vivere e non ha più le modalità del romanzo tradizionale, anche se ne mantiene certe caratteristiche esterne.
Chiariamo. Il romanzo è fondamentalmente nuovo perché si risolve nell'analisi, insistita, di una psicologia contorta (quella del protagonista), mentre restano secondari sia l'intreccio dei fatti sia il rapporto tra l'individuo e l'ambiente. E' invece tradizionale, perché resta il meccanismo del narratore esterno che 'riferisce' quanto sa dei protagonisti, e, facendolo, in certo senso 'garantisce' la verità di ciò che afferma.
Il riassunto del romanzo si può trovare nella scheda di Guglielmino, integrata da quella di Marchese.
Poiché il centro del romanzo è la coscienza di un protagonista, soffermiamoci sulla psicologia di Emilio Brentani (che almeno in parte è una proiezione autobiografica).
Emilio cerca il riscatto dalla sua vita incolore (segnata da una breve gloria letteraria cioè dalla notorietà raggiunta per un romanzo) con un'avventura amorosa. La donna è Angiolina, di costumi piuttosto disinvolti. Lui lo sa, e vuole convincersi che questa avventura sia una cosa superficiale, dalla quale lui, l'uomo scettico e spregiudicato, non si farà coinvolgere emotivamente. La donna sarà per lui un divertimento o poco più.
In questo Emilio ha come modello un amico pittore, Stefano Balli, temperamento forte, sicuro di sé, incantatore di donne.
Ma Emilio è molto diverso dal suo modello: la sua psicologia è contorta e pensieri, propositi, intenzioni, azioni si accavallano e si contraddicono continuamente. Emilio è in uno stato di perenne dissociazione ('due individui che vivevano tranquilli l'uno accanto all'altro').
Un esempio: Emilio entra in casa di Angiolina, trova le fotografie di tanti uomini, la donna ingenuamente dichiara che ad ognuno ha dato anche sue fotografie; la prova della sua leggerezza e dei suoi molti amori è grande come una casa ed Emilio si rabbuia e si adira. Poi si rabbonisce e tenta di baciarla, ma lei, sfacciata, si nega adducendo la scusa che quel bacio turberebbe la sua coscienza di fronte al confessore. A questo punto Emilio, non credulone, ma capace di fingere proprio con se stesso, capace cioè di autoinganno continuo, sente che la speranza rinasce tanto che 'tutti i documenti raccolti erano inceneriti'. Di conseguenza Emilio si appaga del possesso incompleto della donna, anche se 'tentò di procedere oltre solo per diffidenza, per timore di venir deriso da tutti quegli uomini che lo guardavano.' Quando, però, le sue effusioni amorose oltrepassano un certo limite lei finge di scandalizzarsi e piange, lui allora si arresta. 'Ella non era appartenuta a nessuno ed egli poteva essere certo di non venire deriso.'
Commenta Grosser (pag. 410): ci troviamo di fronte ad un personaggio niente affatto lineare, che anzi vive tutto della propria perenne mutevolezza (insicurezza, instabilità), e della propria contraddittorietà e doppiezza psicologica. Il narratore razionalizza, cioè spiega questa condizione, quando dichiara che in sostanza Emilio è malato perché tenacemente attaccato alla propria tranquilla inettitudine, e perciò cerca compensi nella fantasia più che nella realtà, la quale turberebbe quella inettitudine. Sogna, cioè, ma si spaventa non appena il sogno desiderato diventi realtà.
Cosa è dunque la senilità? E' la malattia di Emilio, che vecchio non è. Emilio vorrebbe la gioventù (forza e pienezza di vita, come l'amico - rivale Balli) ma si sente oscuramente incapace (inetto) a viverla, perciò se ne difende istintivamente, cercando un surrogato, una compensazione nell'avventura. Ma per viverla senza viverla, cioè per vivere questa realtà più nella fantasia che veramente, mette in atto 'tutta una serie di autoinganni, autocensure ed esorcismi, che costituiscono l'aspetto più caratteristico della sua indole.' Con Emilio si dispiega davanti a noi, compiutamente, tutta la fenomenologia della dialettica salute/malattia, attitudine/inettitudine a vivere, gioventù/senilità.
Conclude Grosser: con Alfonso Nitti e soprattutto con Emilio Brentani è ormai iniziato quel processo di dissoluzione del personaggio, psicologicamente unitario, che ci aveva fornito la narrativa ottocentesca. E' uno dei segni più appariscenti di una nuova cultura, novecentesca, 'con tutto il suo carico di lacerazioni e di contraddizioni, ma con la sua capacità di analitica e spregiudicata indagine dei meccanismi profondi [Freud] dell'animo umano.
LA COSCIENZA DI ZENO (10.3)
Per una sintesi critica del romanzo, con riassunto dell'intreccio, vedi la scheda relativa in Guglielmino e in Marchese.
E' inutile ripetere qui le parti puramente informative delle schede, ma è bene insistere su alcuni punti:
il romanzo mette in scena una terapia psicanalitica, ma il paziente, Zeno, non presta fede alla nuova scienza e la tradisce, dichiarandosi, alla fine, 'guarito', ma in modo ambiguo: da un lato, cioè, egli ha trovato quello che cercava non nella cura ma nella 'vita' (guerra, affari fortunati), dall'altro si è convinto che la malattia (mancanza di decisione, di forza, di verità, di vitalità cioè inettitudine ) sia non soltanto sua, ma di tutti gli uomini, di tutto il mondo;
la struttura della narrazione prevede, come nel Mattia Pascal, un narratore interno che, però, si sdoppia perché racconta in due fasi distinte, e tra l'una e l'altra è piuttosto cambiato, e poi racconta se stesso e le sue vicende: esiste perciò uno Zeno che racconta (verso il 1913 prima e verso il 1916 dopo), un altro che è 'raccontato' dal 1857 al 1916 appunto: questo complesso sistema porta alla conseguenza della frantumazione dell'unità psicologica del protagonista. Non per caso il romanzo non si intitola: Zeno Cosini, ma la coscienza di Zeno.
La struttura del romanzo e l'oggetto del racconto (una coscienza non una persona immersa in un ambiente) ci dicono che siamo pienamente nel Novecento e che la narrativa ottocentesca è ormai archiviata.
Oltre alla dissoluzione del personaggio, e, anzi, intrecciata con questo processo, si dispiega anche la frantumazione del tempo lineare del racconto: da un capitolo all'altro non si procede avanti nel tempo, anzi si torna indietro, per poi riandare avanti in un continuo oscillare tra passato e presente, fino a rendere difficile ricostruire, durante la lettura 'semplice' del lettore comune, il vero filo conduttore di tutte le vicende raccontate; in altri termini è difficile ricostruire la fabula.
Altamente significativo, poi, è che il narratore - uomo tormentato da dubbi, reticenze, incertezze ecc. - scrive spesso senza molta convinzione, convinto anzi che l'atto dello scrivere non sia veritiero interamente (Zeno dice che l'uomo facilmente adatta la verità alle parole che ha a disposizione e, ironicamente, aggiunge: come sarebbe diversa la vita se la raccontassimo in dialetto.) Questo significa che chi racconta non è, per il lettore, garanzia di verità, anzi, tutto al contrario, ciò che è dato per vero, per attendibile, può non esserlo, come possono essere fuorvianti le spiegazioni fornite per gli eventi e le azioni dei personaggi.
Commenta Grosser : quel sovvertimento che tutta la narrativa novecentesca ha come obiettivo implicito, trova nella Coscienza di Zeno una realizzazione strutturale perfettamente conseguente, che è la prima in Italia e fra le prime in Europa.
A questo clima di ambiguità si aggiunge la complessità dei rapporti fra Svevo e Zeno.
Zeno è un personaggio autobiografico? Per capirlo dobbiamo indagare sulla persona del suo autore?
La verità è che Zeno non si risolve nel suo autore, anzi spesso si è indotti a pensare che Svevo si rivela sì, ma si nasconde anche dietro la sua creatura.
Un altro tema fondamentale del romanzo è quello del rapporto tra salute e malattia, nel quale gioca un ruolo decisivo la figura della moglie di Zeno, Augusta.
Se Zeno è la malattia, cioè il dubbio, l'insincerità, la volontà debole, la mancanza di convinzioni assolute, la donna ne è il rovescio: la tranquilla certezza, la solidità di alcuni principi tradizionali, il buon senso, la diffidenza verso tutto ciò che non è normale, consueto, convenzionale, come, per esempio, verso l'arte.
Eppure, non dimentichiamolo, questa è Augusta vista da suo marito, che come narratore veritiero e attendibile non ci soddisfa davvero. E poi: il romanzo non si chiude con l'affermazione che la malattia è dovunque nel mondo? Chi sarà la vera Augusta?
Per questa dialettica salute / malattia si possono leggere le pagine seguenti dedicate ad una lettura del romanzo fatta seguendo appunto questa e altre idee - guida.
Un aspetto importante de La coscienza di Zeno è la mancanza di tragicità come conclusione della vicenda del protagonista: mentre Alfonso si suicida, ed Emilia muore comunque drammaticamente lasciando un Emilio svuotato e 'morto' completamente dentro, Zeno, al contrario, vive una vita coronata dal successo economico e riscaldata da una famiglia impeccabile (moglie, figli). Egli insomma è un arrivato. Tutto gli riesce bene, nonostante tutto faccia sembrare, all'inizio, che finirà male: il fumo non lo danneggia seriamente, 'sbaglia' fidanzata ma fa un eccellente matrimonio, è pasticcione ma riesce bene negli affari quasi per caso.
Grosser non sviluppa questa osservazione cercandone il significato.
Io credo che si potrebbe tentare di trovarne uno riflettendo sul fatto che i personaggi pieni di 'salute' (bellezza, fascino, sicurezza) periscono e sono travolti (Ada, Guido) - laddove erano gli inetti, non i Balli, a perire prima - e utilizzando una incisiva e rivelatrice definizione della vita fatta da Svevo: la vita non è né bella né brutta, è originale.
Insomma il vecchio Zeno, ormai saggio e disincantato, crede che la vita sia quello che è, malata e inguaribile, ed è tanto bizzarra che riesce a restare a galla proprio chi ad essa sembra più inetto. Sconfitta, questa, di ogni certezza e di ogni valore che sembra il passaporto di ogni vita riuscita e vincente.
A questo proposito è profondo, sebbene qualche volta poco perspicuo il commento di S. Maxia alla dialettica salute / malattia in Augusta, fino al rovesciamento ironico: dovevo forse guarire Augusta dalla sua malattia.
Malati dunque quelli come lui, malata la salute della moglie, da lui diversissima, il cui sistema di certezze è in realtà un castello di carta, un nido in cui rifugiarsi nascondendosi dai problemi.
Eppure lui e lei, alla fine, non hanno vissuto una vita tragica.
APPENDICE
1. Alcuni contributi alla comprensione di Svevo;
2. Lettura critica di pagine da La coscienza di Zeno.
3. Schede di opere.
ALCUNI CONTRIBUTI ALLA COMPRENSIONE DI SVEVO
Dopo un periodo di adesione al socialismo, Svevo fu sostanzialmente un conservatore, non polemico e acquiescente al fascismo. Ma questa 'conservazione' ci dice assai poco di Svevo, la cui meditazione non si esercitò sui problemi politici e sociali, ma piuttosto sull'Uomo, sul suo posto nell'universo, sulla sua immedicabile 'malattia'.
In Svevo perciò ha luogo, presto, uno slittamento dall'interesse per l'uomo sociale a quello per l'uomo in assoluto. Egli svolse liberamente gli spunti fornitigli da Darwin cui congiunse Schopenhauer. Da Darwin e da Schopenhauer derivò la spinta ad un approfondimento personale di quel tema dei 'vinti' che era già nel verismo e ad un'analisi del carattere effimero - egli scrive - e inconsistente della nostra volontà e dei nostri desideri e quindi dei mille inganni che l'uomo fa a se stesso, nel tentativo illusorio e vano di credersi arbitro del proprio destino.
E si capisce allora quale impressione dovesse fargli la dottrina di Freud, con la sua insistenza sull'inconscio, una zona della nostra psiche ignota e pure decisiva per le nostre scelte, e con le sue tesi sulle fantasie e le nevrosi come compensazioni inconsce alle nostre sconfitte sociali. (Petronio).
E' il romanzo di esordio. Fu pubblicato nel 1892, a spese dell'autore, dopo che l'editore Treves lo aveva rifiutato, anche perché il titolo originario era Un inetto.
Il protagonista è Alfonso Nitti, un giovane che si trasferisce dalla provincia a Trieste per lavorare nella banca Maller.
La prima parte del romanzo è una lunga e dettagliata descrizione dell'ambiente piccolo - borghese in cui vive Alfonso: è una sezione dell'opera legata al gusto naturalistico, perché in essa prevale la descrizione accurata dei luoghi, degli oggetti e delle persone.
Alfonso va a pensione presso la famiglia Lanucci. Sia l'ambiente di lavoro, sia quello della pensione è soffocanti, poco interessanti, grigi, monotoni.
Il protagonista rivela subito il suo carattere, che si presenta come quello di un giovane sognatore, molto sensibile, umbratile, desideroso di affermare la propria personalità, convinto di avere grandi doti, ma debole nel mettere in pratica i propositi.
[qui brano significativo]
Alfonso comincia a frequentare casa Maller (cosa comune a diversi impiegati della banca), e lì conosce Annetta, la figlia del padrone della banca.
Annetta è una donna simile a tante altre create da Svevo: è volubile, fatua, un po' crudele, intrigante Alfonso se ne innamora e tenta, goffamente, di destreggiarsi fra i vari pretendenti, in mezzo ai quali spicca Macario, brillante e ricco avvocato, cugino di Annetta.
Ma Alfonso ha gusti letterari e Annetta ne è attratta per questo: lei decide di scrivere, con lui, un romanzo a quattro mani; per questo i due giovani cominciano a incontrarsi ogni sera.
A questo punto s'innesta nel racconto la governante di casa Maller, Francesca, che è l'amante del vecchio padrone di casa e che opera in modo da lasciare soli i due giovani sperando che ne nasca un amore e poi il matrimonio, che le consentirebbe di sposare l'anziano amante.
Una sera accade proprio quanto Francesca spera: Alfonso seduce Annetta e la fa sua.
Però già la scena che segue svela quanto tortuoso sia il labirinto mentale di Alfonso di fronte ad un evento che dovrebbe solo riempirlo di soddisfazione e quanto poco egli sia capace di abbandonarsi ai sentimenti.
Alfonso, insomma comincia a rivelare le sue più profonde caratteristiche di inetto, cioè di incapace alla vita (come Svevo stesso lo definisce, alla fine del romanzo).
[qui brano del saluto al mattino]
Dopo l'avventura la giovane lo prega di allontanarsi per un po': lui accetta, nonostante i consigli contrari di Francesca, che vede il rischio di fallimento del suo intrigo.
Il brano che segue fotografa bene l'irresolutezza di Alfonso, i suoi autoinganni, la sua inettitudine, il suo rifiuto di "lottare".
[qui il brano del colloquio con Francesca]
In paese trova un ambiente soffocante e pettegolo e la madre ammalata. La madre muore e Alfonso, venduta la casa, torna a Trieste.
Ma in banca non è più come prima: Maller ormai lo detesta, Annetta lo ignora e, fidanzatasi con Macario, sta per sposarlo.
Alfonso spera solo di essere dimenticato e di vivere calmo e felice, ma viene trasferito in un incarico secondario. Allora si ribella, affronta Maller e, senza averne l'intenzione, allude alla sua intimità con Annetta. Il padrone, cambiato subito tono, sembra spaventato e gli promette benevolenza.
[qui brano del colloquio]
Ma ad Alfonso appare chiaro che adesso lui è diventato, agli occhi degli altri, una sorta di ricattatore: vuole chiarire tutto almeno con Annetta e le scrive per un incontro. All'appuntamento si presenta il fratello di lei, che lo sfida a duello.
Alfonso accetta, ma la sera prima dello scontro dopo un ennesimo monologo interiore, si toglie la vita, perché non può accettare una vita che sia soltanto lotta e che lo strappi continuamente dalla beata condizione di sognatore.
Questa è la pagina finale:
Il romanzo, quindi, affianca l'eredità del naturalismo, cioè il vecchio realismo, con il nuovo realismo, tipico del romanzo del Novecento, che si differenzia sensibilmente dal realismo classico ottocentesco.
Il primo, è il realismo dell'oggettività: il narratore è al di fuori del racconto e lo svolge con distacco, sapendo tutto di tutti. Il racconto è costruito sull'intreccio dei fatti, la descrizione dei luoghi, il disegno dei caratteri, dal punto di vista del narratore.
L'altro, è il realismo del personaggio - soggetto che racconta e giudica dal suo punto di vista. In questo realismo contano meno i fatti e le descrizioni degli ambienti e protagonista diventa la coscienza del narrante, che impegnata nelle riflessioni, nei giudizi, rallenta il ritmo dell'azione e dilata lo spazio assegnato ai monologhi interiori, ai soliloqui.
La differenza di Una vita rispetto al naturalismo (o al verismo) è anche un'altra: Petronio afferma infatti che la causa della sconfitta di Alfonso è ricondotta da Svevo non a ragioni esterne, sociali, ma interiori.
'Ntoni Malavoglia, ad esempio, avrebbe afferrato al volo l'occasione di un matrimonio vantaggioso. Mastro-don Gesualdo si sposa proprio per calcolo, e col matrimonio vuole "combattere" meglio la sua battaglia per l'egemonia economica sul paese e sui nobili. Alfonso, invece, quando la vita gli offre l'occasione di conquistare una posizione migliore per "combattere", scappa. In verità è un vinto perché non "vuole" vincere. Vincere, infatti, significa uscire dal sogno, accettare la lotta, perdere la calma e l'equilibrio che gli regalano le sue fantasticherie. La vita, lui, la consuma pensandoci: viverla davvero è troppo faticoso e rischioso, perché nel labirinto del pensiero - e solo lì - accade precisamente quello che lui vuole.
Il romanzo del Novecento, quindi, in Italia (anche se è il 1893) si inaugura con questo personaggio tipico della condizione umana contemporanea[1]: la perplessità, la debolezza della volontà, la prevalenza del sogno sull'azione, il velleitarismo.
Accanto a questa dimensione psicologica del protagonista, così importante, nel romanzo c'è l'altro tema sveviano fondamentale: lo smascheramento delle ipocrisie, dei compromessi, delle menzogne con i quali inganniamo noi stessi e gli altri; la rivelazione dell'autocompiacimento, dell'autocommiserazione, della commedia recitata con noi e con gli altri.
Questo tema ci introduce alla straordinaria capacità che ha Svevo, di denunciare la doppiezza della psiche umana, ben prima che Freud glielo confermasse.
Dunque Alfonso Nitti è l'inetto. Questa è la figura letteraria, il tipo di personaggio che Svevo consegna alla nostra letteratura del Novecento.
L'inetto è incapace di "vivere come gli altri" e di "fare come gli altri" e reagisce alla sua incapacità rifugiandosi alternativamente nell'alibi della propria superiorità intellettuale (per la quale egli non si mescola alla vita degli altri) o nei sogni di una vita immaginosamente densa di azioni clamorose e di gesti eccezionali.
Getto (citando B. Maier) mette bene a fuoco Alfonso quando annota che egli prima si sente vivo perché seduce Annetta, poi ha paura di tuffarsi nella vita e si autoinganna e inganna gli altri con l'ipocrisia del sacrificio. Alfonso cioè maschera la sua decisione di scappare lontano dalle responsabilità e dalla lotta con la scusa di sacrificarsi per il bene di Annetta (è Annetta che gli chiede di allontanarsi; lui non vuole avere l'aria dell'arrampicatore sociale ecc.). Poi, saputo che Annetta sposerà un altro, Alfonso spera di passare dal ruolo scomodo di traditore a quello, gradito, di abbandonato (è il ruolo che più soddisfa il suo desiderio di autocommiserazione e di pietà altrui). Questo ruolo lo mette al riparo dai rischi dell'esistenza, giustifica la sua rinuncia e lo colloca in uno stato in cui egli si sente "felice, equilibrato, come un vecchio."
Ma questo groviglio di pensieri non si può spiegare facilmente. Davanti al vecchio Maller la sua allusione (vedi prima) diventa una minaccia, che lo fa apparire ricattatore.
E' subito evidente uno scarto, di concezione del mondo, dal romanzo naturalista, poiché le cause della sconfitta di Alfonso sono ricondotte da Svevo non a ragioni esterne, sociali, ma interiori, a un suo modo di essere. I personaggi verghiani sono espulsi dal mondo cui aspirano, Alfonso è sconfitto da qualcosa che ha dentro, anteriore ad ogni suo incontro con gli altri. (Si veda la fine)
Spesso ritorna, nei momenti chiave, una parola chiave darwiniana: 'lotta'. Alfonso non sa lottare, è un inetto, prima di essere sconfitto sul campo.
Ma nel romanzo c'è altro: c'è già il grande tema sveviano: lo smascheramento delle ipocrisie, dei compromessi, degli auto inganni con i quali inganniamo noi stessi, prima che gli altri. Autocompiacimenti e autocommiserazioni, situazioni sentimentali equivoche, menzogna e insincerità con se stessi, e quindi una meschina commedia con gli altri. (Petronio)
Nitti è l'inetto, incapace di vivere e di 'fare come gli altri', che reagisce alla sua incapacità rifugiandosi alternativamente nell'alibi della propria superiorità intellettuale e nei sogni di una vita immaginosamente densa di azioni clamorose e di gesti eccezionali.
Le pagine di Getto (derivate dal saggio di Bruno Maier) mettono bene a fuoco il personaggio di Alfonso Nitti, che prima si sente vivo perché seduce Annetta Maller, poi ha paura di tuffarsi nella vita, e si auto inganna e inganna gli altri con l'ipocrisia del 'sacrificio' di rinuncia. Poi Annetta sposa un altro. Allora Alfonso non è più il traditore, è l'abbandonato (ruolo che più gli piace) ed è ruolo che lo mette meglio al riparo dai rischi dell'esistenza ('un sentirsi felice, equilibrato, come un vecchio negli anni suoi più tardi, in quella vecchiaia che egli desiderava, avrebbe potuto raccontare di aver vissuto nel senso usato dagli altri'). Ma questo groviglio di stati d'animo, tradotto in parole davanti ai Maller, lo fa scambiare per un ricattatore: coperto di disprezzo si suicida, non per ribellione, ma per rinuncia a combattere. (Getto)
'In Svevo si respira, se vogliamo, un'aria ancora più triste, poiché la mediocrità della vita v'è sofferta in mediocri passioni fino al più intimo spasimo; tuttavia non n'è più la serietà tragica, quella che fa il tono al romanzo, bensì la coscienza, ora accorata, ora implicitamente ironica di narrare l'immensa devastazione compiuta da mali che non valevano la pena di essere patiti.' (S. Benco, Introduzione a La coscienza di Zeno, Dall'Oglio).
Il libro è costruito non sui 'fatti' ma sulle loro risonanze in Emilio, e determinato non da eventi esterni, ma dai moti interni, sicché esso ci informa non su una società, ma su un tipo di uomo, tipico appunto della umana natura secondo Svevo.
E la conclusione riporta a Una vita. Perché Balli, a suo modo, vince? Perché Emilio è sconfitto? Darwin e Taine avrebbero risposto: eredità genetica, ambiente, momento storico. Svevo invece risponde: la natura dell'uomo.
E perciò Svevo può seguire i suoi personaggi con implacabile lucidità di analisi, ma senza condannare o assolvere: ognuno è quello che è e niente potrebbe modificarlo. Ciascuno vive in mezzo ad altri e ci diamo gioie e dolori, ma senza capirci.
Il romanzo potrebbe intitolarsi, per comprenderne l'impianto, La coscienza di Emilio, perché Emilio è presente in ogni scena del romanzo e tutto il mondo, il paesaggio come i personaggi, sono visti con i suoi occhi, scrutati dalla sua analisi.
Nel romanzo naturalista l'occhio che vede è l'occhio esterno al romanzo stesso (vedi Debenedetti), qui il mondo è da una parte un'appendice di Emilio, dall'altra un teatro per le sue sconfitte.
I personaggi sono o vinti, ma vinti da se stessi ( e i tozziani Pietro, Remigio, Giulio sono vicinissimi a Emilio), o sani e vittoriosi. Ma i vincitori sembrano scivolare sulla lastra della vita senza incidere, o capirla. Sono i malati, che campeggiano, a tentare di dare un senso alla vita, non riuscendovi e chiudendosi infine nel loro grigiore senile. Il terreno che lo scrittore ara è il sottosuolo di Dostoevskij.
Per Emilio le parole che più s'incontrano sono: crede che, illusione, sogno. E poi situazioni di menzogna verso di sé, frattura tra pensiero e comportamento, debolezza unita a rancore per il forte (Balli), dilagare dell'autonalisi che gela il calore dell'azione spontanea tessendo una tale trama di ipotesi, giustificazioni, spiegazioni che alla fine il senso morale ne esce ottuso e confuso. Emilio è velleitario, talvolta ripugnante nell'attaccamento alla falsa Ange anche di fronte ad Amalia morente. Meno ripugnante se vediamo in lui il malato e riconosciamo in lui la squallida tragedia di chi vuol sentirsi vivo pensando e non vivendo e intessendo con la vita un complicato gioco di tradimenti reciproci (E tradisce la vita perché vi sovrappone il sogno e la vita contraccambia smentendolo e denudando la sua debolezza.)
Una pagina di Senilità ritrae Brentani che rivela la sua incapacità di 'agire'. In Brentani la 'volontà' non è netta e pulita (dice una cosa e un'altra pensa, ma non per pura menzogna, piuttosto per mancanza di intima chiarezza), e il proposito, prima di tradursi in azione, deve girovagare tra mille pensamenti e dubbi. Tipico di Brentani è immaginare quali parole dirà, con che tono: egli ha paura della realtà e non vuole essere sorpreso impreparato, per dominarla vuole prima prevederla nella mente: ma è solo segno di debolezza, perché egli non è il superuomo che antivede lo svolgersi degli eventi per trionfare di essi. Brentani in realtà non ha un sentimento chiaro verso Angiolina, perché quello profondamente vero (la sottomissione a lei) egli lo scaccia dalla coscienza e gli restano in superficie solo frammenti di propositi, incoerenti e contraddittori.
1. Malattia e sanità
Svevo si sente più forte del padre perché sa leggersi dentro. Ma il leggersi dentro gli fa sapere la sua debolezza, l'inettitudine (che gli altri non capiscono: il suocero scambia la sua debolezza per umanitarismo)
Importante la descrizione del suocero e dei suoi rapporti con Zeno. Suocero = forza, sanità / Zeno = debolezza, malattia.
Centrale, nel nodo di rapporti fra malattia e salute, la moglie.
'Essa [Augusta = la salute] ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve che non s'intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai più per un altro infinito tempo. Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregare e stare caldi. Cercai di esservi ammesso seppi per qualche tempo muovermi come un uomo sano.' [v. anche il resto p.141]
Zeno, all'opposto di Augusta, ritiene che la vita sia un incidente, un episodio irrilevante fra il tempo infinito che la precede e l'altro, infinito sempre, che la segue.
Zeno avrebbe da ridire, e molto, sulle certezze di Augusta, convinto dal canto suo, forse per malattia, che il presente non sia che un tramite labilissimo fra il passato e il futuro, che di per sé non esista
Zeno trova 'insopportabili' anzi 'che fanno disperare' [v. rigo 46 di p.141] le cose immobili, fisse, che regolamentano dall'esterno, insopportabilmente, il flusso sempre vario, cangiante, della vita.
Poi Zeno prosegue:
'Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco, perché m'accorgo che, analizzandola, la converto in una malattia.
Quindi o salute è qualcosa che non ammette analisi, descrizione o la salute, in assoluto non esiste.'
2. Ambiguità del reale. L'opera del tempo.
Zeno comprende, mentre rivede la sua vita, quello che, vivendola, non aveva capito. Infatti ricorda quando entrò la prima volta in casa del futuro suocero: 'tanta cecità che allora mi pareva chiaroveggenza' (ed. Principato, p.70)
'Io, che come aprivo la bocca svisavo cose o persone perché altrimenti mi sarebbe sembrato inutile di parlare. Senz'essere un oratore, avevo la malattia della parola. La parola doveva essere un avvenimento a sé per me perciò non poteva essere imprigionata da nessun altro avvenimento.' Commenta Benvenuti: la parola come fatto in sé tale da evadere ogni obbligo preciso nei confronti della realtà.
Credo sia molto importante, questo passo, per verificare l'appartenenza di Svevo alla civiltà mentale, antipositivista, del decadentismo. Un'altra verifica di quanto detto può essere (p.81):
Zeno racconta le sue storie goliardiche alle tre sorelle. Erano storie vere? 'Erano vere dal momento che io non avrei più saputo raccontarle altrimenti.' Criterio di verità fantastico e soggettivo, non positivista né realista.
4. Zeno simulatore
Zeno è considerato un umanitario, buono, comprensivo. Invece sa solo fingere. Prendiamo questo esempio minimo: Zeno incontra un amico d'infanzia zoppo: 'm'affrettai di suggerirgli molte cure. E' il vero modo di poter simulare senza grande sforzo una viva partecipazione.'
Il narratore non ci dice esplicitamente che a Zeno dell'amico non importava nulla, ma nel verbo 'simulare' c'è l'identità morale di Zeno.
Il colloquio con l'amico è poi importante anche per altro.
Zeno è infelice per Ada, ma all'amico non vuol dirlo. S'inventa malattie e lavoro stressante per essere commiserato, perché ne ha bisogno.
Zeno si guarda dentro e si costruisce tutt'intorno una rete di simulazioni: egli non sa vivere d'istinto, con semplicità, con sincerità verso se stesso e gli altri.
Qui invece Zeno simula con se stesso:
Ha deciso di non rivedere più Ada. Ma poi s'inventa un'eccezione. La incontra e non ricorda quale dei tanti propositi messi in atto debba applicare in quel momento.
Ecco allora Zeno personaggio che mente a se stesso, che, fissata una legge, se ne inventa prontamente le eccezioni. (p.98) [vedi anche nota p.104, p.108]
Significativa anche la storia con Carla, quando Zeno si fa dare dalla moglie una contorta, implicita autorizzazione ad andare da Carla.
5. Il vino
Contrariamente al detto: in vino veritas, Zeno, che non crede a 'una' verità, afferma:
'Il vino è un grande pericolo specie perché non porta a galla la verità anzi: rivela dell'individuo specialmente la storia passata e dimenticata e non la sua attuale volontà; getta capricciosamente alla luce anche tutte le ideucce con le quali in epoca più o meno recente ci si baloccò e che si è dimenticate; trascura le cancellature e legge tutto quello che è ancora percettibile nel nostro cuore Tutta la nostra storia vi è sempre leggibile e il vino la grida, trascurando quello che poi la vita vi aggiunse.'
Il vino, insomma, porta a galla i recessi della psiche, quello che sfugge alla coscienza, alla volontà, alla memoria stessa. Ciò che l'uomo vorrebbe ignorare, o si illude d'aver dimenticato, superato, cancellato; ciò che non è possibile identificare con la verità in cui ognuno, a mente 'serena' crede e si specchia.
7. Realtà / finzione
Zeno (p.206) vuole allontanarsi dall'amante. Trova la scusa di una chiave, che deve consegnare alla moglie.
'Io, assolutamente, non potevo sopportarla più oltre, e corsi via tenendo sempre quella chiave in mano nella cui autenticità cominciavo a credere anch'io.'
E' Zeno che crede in ciò che non è vero, sapendo che non è vero, e lo crede con tanta intensità da farlo quasi diventare vero.
Carla come ultima sigaretta
Zeno passa momenti deliziosi quando decide di stare con Carla l'ultima volta. Si sente innocente. Poi, però, vuol rivederla.
'Il mio desiderio sarebbe stato di trovarla pronta per un altro proponimento. La vita sarebbe corsa via, ricca bensì di godimenti, ma anche più di sforzi di migliorarsi'(p.218).
Autoinganno di Zeno
Esempio di stravolgimento -consapevole- delle parole a proprio vantaggio(p.221):
Augusta riconosce che più facilmente di Ada (che non ha figli) lei potrebbe perdonare al marito, essendoci dei figli a unirli. Perciò, quando ad Ada nascono due gemelli, Zeno si congratula con Guido: ' secondo il giudizio di Augusta, le serve di casa potevano essere sue senza pericolo per lui.'
Originalità della vita
La definizione di Zeno coglie intera l'assurdità, l'imprevedibilità, la 'stranezza' della vita, e contemporaneamente l'impossibilità, per l'uomo, di affrontarla e valutarla secondo criteri precostituiti, di sceverare limpidamente in essa il bene dal male, il bello dal brutto, il falso dal vero. (p.276)
'Bastava ricordare tutto quello che noi uomini dalla vita si è aspettato, per vederla tanto strana da arrivare alla conclusione che forse l'uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene.' (p.277)[v. anche commento ll.1751-52]
Svevo riflette la malattia dell'anima moderna, che deriva dal crollo della concezione classica e cristiana dell'uomo come essere dotato di ragione e di libertà e capace, perciò, di dominare gli eventi esterni e le oscure profondità dell'inconscio.(da Pazzaglia)
Inafferrabilità della vita
Zeno ammette di aver mentito al dottore:
'Una confessione in iscritto è sempre menzognera! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto.'
La vita di Zeno non è più da nessuna parte: non nel testo, che l'ha contraffatta, e neppure al di fuori perché il testo non ha edificato una menzogna sistematica.
Una conclusione (proposta dal Petronio) dell'esperienza umana di Zeno tragica nella sostanza eppure, nello stile di serena armonia. Zeno è ormai convinto dei suoi assunti (la malattia, la commedia degli auto inganni ecc. ecc.). Con queste convinzioni, la vita può apparire o un'enorme tragedia o un'allegra commedia. Zeno è ormai tanto saggio, allegramente distaccato da tutto, da poter vedere questa vita anche come commedia divertente. In fondo, per essere sani non c'è che un mezzo: persuadersi di esserlo.
Il romanzo, nel senso tradizionale, salta. E' l'autobiografia di un uomo, che narra di sé quello che - allora - la coscienza ritiene. Il titolo è già significativo: una 'coscienza' non un personaggio a tutto tondo.
Svevo scrisse: 'Il passato è sempre nuovo: come la vita procede esso si muta perché risalgono a galla delle parti che parevano sprofondate nell'oblio mentre altre scompaiono Il presente dirige il passato come un suonatore d'orchestra i suoi suonatori.
Petronio fa il nome di Proust.
Non è un caso che la scoperta di Svevo coincida con quella di Pirandello e avvenga dopo la guerra, quando un modo di sentire, da loro anticipato, si era fatto comune. Il successo si ebbe negli anni cinquanta in concomitanza con altre crisi.
Nel romanzo di Zeno - dice Bertacchini (Letteratura italiana, ed. Calderini) il contrasto non è più individuo / società. Il protagonista non sta 'sotto' nella società, non è uno che vuole salire. E' ricco, sta in alto. Ma non ci sono pertanto svolte in senso ottimistico. Anzi, quella che prima era la sua inettitudine a vivere una vita degna di essere vissuta è divenuta condizione comune, solitudine e crisi universale.
Al dualismo individuo / società si sostituisce il contrasto vita / coscienza, da cui deriva l'umorismo che accompagna la riflessione sulla vita: 'il rapporto sbagliato tra l'assurdità della vita e l'impegno con cui gli uomini l'affrontano, mettendo in luce le ambizioni, l'egoismo, le lotte della società borghese, nascosti sotto un manto di rispettabilità. Umorismo che diventa satira di costume.'
Da un parte Zeno vive e dall'altra si vede vivere in un giudizio continuo ed assillante, cui nulla può sfuggire.'
La salvezza di Zeno è l'azione (il salvataggio della ditta, il commercio durante la guerra). Questo il messaggio del romanzo: la salvezza della vita è l'azione. Ma per i problemi dell'uomo, che riguardano il suo cuore, la risposta è definitivamente muta. (Getto, Storia p.640)
Pagina di rilievo è: l'ultima sigaretta, in cui più si sprigiona l'umorismo, ma che ha un chiaro significato emblematico come testimonianza della 'malattia della volontà' (la stessa in cui si dibatteva Brentani): qui ritratta, però, con l'olimpico distacco di chi accetta ormai il gioco della vita (e può sorriderne).
Altra pagina di rilievo è l'adulterio, eloquentissima per rappresentare la trama di auto inganni e di alibi che Zeno intesse intorno a sé per apparire ai propri occhi 'vittima' di circostanze e per conciliare l'adulterio con l'affetto (pure sincero) verso la moglie. Anche qui: non v'è netta e pulita coscienza, ma complicato vagare della coscienza tra realtà e finzione, con la consapevolezza (onde l'umorismo) del 'gioco' che si sta intessendo.
Per la tecnica simile al monologo interiore e per il compenetrarsi di diversi piani temporali, la pagina è molto 'europea'.
La conclusione del romanzo: 'Io sono guarito. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione. Fu il mio commercio che mi guarì Come tutte le persone forti [egli fino ad allora è stato un debole] io ebbi nella testa una sola idea e di quella vissi Ora, dice Zeno, il dottore dovrebbe restituirmi il manoscritto, ora che vedo chiaro dovrei rifarlo; infatti: 'come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest'ultimo periodo?'
È molto importante: la vita non ha un significato, ne assume, caleidoscopio mutevole, tanti, o comunque più d'uno, secondo i punti di vista maturati con le diverse esperienze]
Ma la vita resta, comunque, non bella: 'La vita somiglia un poco alla malattia La vita attuale è inquinata alle radici Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni, ritorneremo alla salute.
Zeno è, come Alfonso e come Emilio, un inetto, però - dice Getto - non fantastica di gesti sovrumani. E' l'esatto contrario del superuomo dannunziano, l'antieroe per eccellenza, che si crogiola nella sua mediocrità. Se mai è attraverso l'ironia (che nasce dalla consapevolezza) che egli esercita un dominio sulla vita, perché sa accettarla grigia com'è, senza scorribande mentali nei miti e negli ideali.
Qual è il messaggio del romanzo?: la salvezza nella vita è l'azione, e attraverso essa si supera il contrasto tra uomo e realtà.
'Un approdo senza fiducia, senza speranza, perché 'per i problemi dell'uomo, per quelli che riguardano il suo essere, la risposta è muta, senza speranza.
'Le angosce dell'esperienza quotidiana, infatti, non sono affrontate (e risolte); no, Zeno accetta tutta la banalità della vita quotidiana, niente mai gli appare serio o grave, ma tutto degno di curiosità.'
Convinzioni, passioni, affetti niente. Zeno è, in qualche modo, anche lui, un uomo senza qualità. (Getto)
Menzogne di Zeno al dottore
Zeno ammette di aver mentito al dottore. 'Una confessione in iscritto è sempre menzognera! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto.'
La vita di Zeno non è più da nessuna parte: non nel testo, che l'ha contraffatta ma neppure al di fuori perché il testo non ha edificato una menzogna sistematica.
Il dramma - poiché v'è un dramma - è lentissimo .. è intrigato dall'umorismo. Il ritmo del racconto è così piano che il lettore quasi non si accorge degli elementi di drammaticità dissimulati.
(Silvio Benco, in Introduzione a La coscienza ecc., ed. Dall'Oglio. Benco è uno scrittore triestino, morto nel 1949, esponente dell'irredentismo.)
Zeno è, come Alfonso e come Emilio, un inetto; però non fantastica di gesti sovrumani. E' l'esatto contrario del superuomo dannunziano, l'antieroe per eccellenza, che si crogiola nella sua mediocrità. Se mai è attraverso l'ironia (che nasce dalla consapevolezza) che egli esercita un dominio sulla vita, perché sa accettarla grigia com'è, senza scorribande mentali nei miti e negli ideali. La salvezza di Zeno è l'azione (il salvataggio della ditta, il commercio durante la guerra). 'Questo è il messaggio del romanzo: la salvezza della vita è l'azione. Ma per i problemi dell'uomo, che riguardano il suo essere, la risposta è definitivamente muta. Le angosce dell'esistenza quotidiana, infatti, non sono affrontate (e risolte); no, Zeno accetta tutta la banalità della vita quotidiana, niente mai gli appare serio o grave, ma tutto degno di curiosità.'
Svevo riflette la malattia dell'anima moderna, che deriva dal crollo della concezione classica e cristiana dell'uomo come essere dotato di ragione e di libertà e capace, perciò, di dominare gli eventi esterni e le oscure profondità dell'inconscio. (Pazzaglia).
GIUDIZIO DI MONTALE
'E' un libro vastissimo, senza trame raccontabili, che tende a darci, simile ad altri libri stranieri, l'epica della grigia casualità della nostra vita di tutti i giorni, rotta dal balenare improvviso di una contingenza non meno cieca e misteriosa e dal gioco crudele dei 'bovarismi' che dividono l'anima solitaria e la disperdono Qui tutto quanto possa ricordare gli agréments (allettamenti) del libri d'arte, è nettamente bandito: l'attenzione deve portarsi sul piano nascosto, le voci non rendono eco che in un livello invisibile le voci salgono qui 'dal sottosuolo' né questa regione buia è data, almeno visibilmente, come zona di tragedia.'
CONSIDERAZIONI
Zeno Cosini è in fondo un uomo non proprio arido, ma inaridito dalla riflessione, dal rovello della consapevolezza. Egli non ha una volontà netta, non sa cosa vuole e lascia che siano le circostanze a decidere per lui, o meglio inganna se stesso cercando nei fatti che accadono degli alibi per la sua condotta, cosciente che sono alibi costruiti dalla sua morbosa riflessione.
Così esce dalla clinica ove si è ricoverato per stroncare il vizio del fumo, dopo essersi convinto che la moglie lo tradisca; così vuole che tacitamente la moglie gli accordi il permesso di visitare Carla, così aspetta che sia Carla a farlo entrare in casa sua; così inventa giustificazioni per il gesto tremendo che il padre gli rivolge in punto di morte e annega il rammarico in una falsa pietà.
Zeno Cosini in realtà è un personaggio senza personalità, il quale ha capito che la vita non è autentica, che egli non può essere ciò che vuole, perché le norme sociali e morali gli sono contro. E' questa la sua 'malattia', l'incapacità di vivere autonomamente e autenticamente
CORTO VIAGGIO SENTIMENTALE
Il viaggio in treno da Milano a Trieste del sig. Anghios.
Il romanzo non è concluso, come altri racconti, secondo quello che G. Contini chiama 'il tocco magistrale del non concluso'. Poiché questa scelta di non concludere si ripete per almeno dodici racconti, si deve pensare ad un altro tipo di conclusione, che consiste proprio nel significato della mancata conclusione allora soccorre la definizione di Montale: Svevo è 'largo e inconclusivo come la vita'.
C'è naturalmente qualcosa di Zeno in questo Anghios, un modo leggero di stare dentro e fuori la vita, dentro e fuori la realtà.
Il viaggio è per lui l'evasione, più nei pensieri che negli atti, dalle strettoie dell'esistenza quotidiana, della moglie - troppo 'sana', come quella di Cosini. Però quella evasione positiva, cominciata sotto il segno della gentilezza e della benevolenza che Anghios vorrebbe intorno a sé e che lui stesso profonde agli altri, si chiude con una disavventura: il più gentile dei compagni di viaggio deruba Anghios, dando così ragione alla moglie, che temeva per la sventatezza del marito.
Altro che 'viaggio' come felice evasione! Altro che 'poeta' il nostro Anghios! Anzi, poeta sì, nel senso di malaccorto. Poeta, ma, appunto, sconfitto dalla vita, che urge con i suoi drammi.
'Egli credeva di essere un uomo che desiderava tante cose non permesse e che - visto che non erano permesse - le proibiva a se stesso, lasciandone però vivere intatto il desiderio.'
'Se si divideva la vita nella parte dedicata alle azioni e alle parole obbligate e in quella riservata ai movimenti di libera iniziativa e ch'era quella che solo meritava il nome di vita, come questa era meschina in confronto di quella. Il signor Anghios era partito anelante alla libertà, ma sapeva che, di lì a qualche giorno, della libertà ne avrebbe avuto abbastanza e avrebbe ambito di riavere il suo giogo. Era così! La schiavitù non era solo un destino, ma anche un'abitudine. '
'Assidua lavoratrice, economa, bella [la moglie] aveva vissuto alla lettera per lui essa lo accettava e amava com'era fatto, ma troppo spesso lo incitava di essere meno distratto e più accorto. Insomma veniva costantemente esercitata una pressione su di lui ed egli ora, in viaggio, libero, tentava di ritrovarsi intero. Certo doveva riconoscere che la pressione non era tanto grave quanto quella che su di lui tentava di esercitare quel signor ispettore viaggiante'
Quell'espressione 'alla lettera' può significare che la moglie lo ha amato senza capirlo, seguendo cioè 'la lettera' dell'amore. Inoltre mi pare che in questo brano c'è molto del significato del racconto: la libertà lo porta a contatto con un mondo esterno, in fondo più opprimente e più malandrino. Però in questo viaggio ci sono anche le figure della contadina e della bambina.
'Libero veramente il pensiero non può essere che quando si muove tra fantasmi.' - è il momento in cui Anghios progetta un furto, che non vuole però nemmeno lontanamente attuare. Piuttosto lui ne resterà vittima.
Le schede delle opere si possono trovare in questi manuali o repertori:
a. Guglielmino - Grosser (ottima la scheda di lettura su Zeno)
b. Marchese (buone tutte e tre, specialmente quella su Zeno)
c. Dizionario Vallecchi della Letteratura moderna
d. Dizionario della Letteratura italiana CDE
e. F. Gavino Oliveri, Un secolo di narrativa (1880 - 1980), Laterza (con ampi estratti antologici dall'opera, che è ricostruita in sintesi nelle parti non antologizzate - sostituisce egregiamente la lettura del romanzo per esigenze scolastiche ).
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