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Nato a Catania nel 1840 da una famiglia di proprietari terrieri, GIOVANNI VERGA trascorse l'infanzia e la giovinezza in Sicilia dedicandosi con scarso successo, agli studi giuridici.
L'insegnamento che gli venne impartito da un professore privato, il sacerdote Abate, liberale e patriota, di tendenze letterarie incline al romanticismo, lo avviò al romanzo storico di ispirazione patriottica.
Nascono così Amore e patria e I carbonari della montagna.
Mortogli il padre, si trasferì nel 1865 a Firenze, dove conobbe la prima notorietà con la pubblicazione di due romanzi, Una peccatrice e Storia di una capinera.
Dal 1872 al 1892 abitò a Milano: fu, questo, un ventennio molto importante e molto fecondo, che lo vide a contatto con gli scapigliati Boito, Praga, frequentare salotti mondani, e soprattutto portare a maturazione, nel suo spirito e nella sua arte, la poetica del verismo
Dopo altri romanzi (Eva, Tigre reale, Eros), apparve Nedda (1874), il primo racconto d'ambiente siciliano che scoprì a lui ed agli altri, come ebbe a dichiarare l'amico Capuana, «un nuovo filone nella miniera quasi intatta del romanzo italiano».
Nel breve giro di pochi anni Verga scrisse i suoi capolavori: Vita dei campi 1880), I Malavoglia (1881), Novelle rustisticane (1883), il dramma Cavalleria rusticana (1884), Mastro don Gesualdo(1889).
Non era soltanto l'angusto quadro d'ambiente ristretto ai brevi confini di una regione, ma l'epopea dei « vinti ».
Contemporaneamente riprese il tema dell'amore mortificato e distrutto dalla realtà quotidiana ne Il Marito di Elena (1882); l'esistenza derelitta della plebe cittadina e le creature traviate della metropoli lombarda diedero origine alle novelle di Per le vie (1883) e di Vagabondaggio (1887); la vita dei guitti, cioè dei comici di infimo ordine, che conducono una vita randagia, ispirò Don Candeloro e C.
Poi subentrò la stanchezza artistica: ancora qualche fioco tentativo, come, Dal tuo al mio, infine il silenzio. Nel 1893 ritornò nella sua Catania, si appartò in solitudine dedicandosi agli affari famigliari, ed a Catania morì nel 1922 dopo essere stato nominato senatore.
Con lui scompariva il più grande narratore dell'Ottocento, dopo Manzoni.
Pur partendo dai postulati teorici del verismo, Verga scrisse opere di grande valore umano e poetico. Infatti il suo verismo non fu una fredda, distaccata e anonima produzione del reale: nonostante l'intenzionale impersonalità, la sua opera rispecchia una personale visione del mondo ed il suo forte sentimento di dolore e di tristezza di fronte alla vita.
Il verismo produsse nell'autore due effetti positivi.
Lo distolse dagli ambienti aristocratici borghesi e dall'ossessione sentimentale dei romanzi giovanili orientandolo verso il mondo più vero e reale degli umili
Inoltre, aiutò Verga a esprimere i propri sentimenti con commozione contenuta ma ugualmente intensa.
Nell'attività letteraria di Verga si distinguono tre periodi;
il periodo romantico patriottico
il periodo romantico passionale
il periodo verista.
Al primo periodo appartengono i romanzi giovanili Amore e patria (incompiuto), I carbonari alla montagna, Sulle lagune, tutti ispirati alla storia del Risorgimento e a motivi patriottici e amorosi.
I protagonisti si muovono su un confuso sfondo storico, e le loro vicende sono costituite da un continuo susseguirsi di eroismi e tradimenti, di insidie e colpi di scena, sul filo conduttore di un retorico patriottismo e di un vago culto foscoliano della donna.
Al secondo periodo romantico passionale appartengono i romanzi scritti durante il soggiorno fiorentino e milanese quando Verga viene a contatto con la cultura positivistica e con gli ambienti della Scapigliatura. Sono romanzi in cui si narrano torbide storie d'amore e di morte in ambienti aristocratici e borghesi.
La donna, tramutatasi in figura d'eccezione, una contessa dell'aristocrazia, soccombe romanticamente all'urto con la fredda realtà, nel primo romanzo fiorentino, Una peccatrice; ricondotta al ruolo borghese, dà vita alla Storia di una capinera, cui toccò un grande successo per il carattere intimo e patetico della vicenda di una giovinetta condannata, contro sua voglia, alla vita monastica. Il passaggio, in entrambi i romanzi, ad argomenti di vita contemporanea, fu determinato dal primo contatto con la nascente cultura positivistica e dalle prime esperienze mondane di Verga nella città toscana.
In seguito si aggiunsero, nel periodo iniziale del soggiorno milanese, gli incontri con la Scapigliatura lombarda, la scoperta dei grandi scrittori del naturalismo francese (da Balzac a Flaubert, a Zola), la « grand'aria » di un mondo dominato dalla potenza del denaro e dell'industria, con la tensione emotiva ed il ritmo di vita che esso comporta: ne scaturirono nuovi romanzi (Eva, Tigre reale, Eros), nei quali le passioni sofisticate, l'amore per il lusso, l'aspirazione borghese all'ascesa sociale sono analizzati con un primo, anche se ancora sommario, tentativo di realismo psicologico.
Eros fu pubblicato nel 1874, nello stesso anno comparve la novella Nedda, che segna la svolta verista dovuta alla scoperta dei naturalisti francesi, all'amicizia con Capuana.
Vi è protagonista una infelice raccoglitrice siciliana di ulive, costretta a lavorare per mantenere la madre ammalata, è vittima della sventura e della miseria, più che di una passione: tra la ragazza e Tanu, altro infelice, fiorisce un idillio, allietato dalla nascita di una creaturina, ma lui, consunto dalla febbre, muore per la caduta di un albero, lei continua la sua vita di stenti e di umiliazioni finché, una sera d'inverno, la povera bimba « tutta fredda, livida, con le manine contratte, fissò gli occhi vitrei in quelli ardenti della madre, diede un guizzo e non si mosse più ».
La desolazione insita nelle passioni tempestose di anime privilegiate dei precedenti romanzi si tramuta così nella desolazione e nella fatalità di esseri comuni ed oscuri, che non si rivoltano polemicamente contro il destino, nell'indifferenza degli uomini (tema che rimarrà costante nelle opere successive), che accettano la pena di vivere come « retaggio inevitabile di tutti », che nella inconsapevole ignoranza della loro triste esistenza ottemperano soltanto ad una logica e ad una etica primordiali.
Con Nedda siamo già di fronte ad un «documento » umano e sociale attinto dalla realtà, ma Verga non può ancora essere definito "verista" in quanto la narrazione della vicenda di Nedda tradisce ancora la commossa presenza dello scrittore, ed i moduli espressivi conservano più di una affinità con quelli e a tradizione letteraria: dalla posizione di compromesso, quale è quella di questo « bozzetto siciliano », come volle definirlo egli stesso, Verga passa ad una convinta adesione ai canoni del Verismo.
Le novelle composte successivamente e raccolte nel volume Vita dei campi (1880) segnano il passaggio consapevole, dell'autore, al Verismo, di cui accetta a quel punto tutti i punti programmatici.
Protagonisti i tutte sono esseri primitivi legati alla terra ed esclusi dalle strutture sociali, colti impersonalmente nel fatto nudo e schietto della vita quotidiana e nella elementarietà violenta dei loro sentimenti, in particolare della passione intesa come ardore dei sensi o come gelosia o come vendetta, forza oscura de tragico destino che incombe su Turiddu, su Jeli il pastore, sull'amante di Gramigna o su un marito cieco, colpito da improvvisa alienazione. Ma vi è anche il tema della solitudine disperata ed ossessiva la solitudine di Rosso Malpelo, chiuso nei suoi rancori e nei suoi affetti, che vive la vita dura e pericolosa del minatore come il padre inghiottito dalla rena, e che un giorno prende gli arnesi del padre, se ne va ad una esplorazione pericolosa che gli è stata imposta, « né più si seppe nulla di lui ».
Alla essenzialità del racconto, corrisponde un linguaggio al tutto nuovo, scarno e lineare, caratterizzato dalle parole semplici, dai costrutti sintattici antiletterari tipici della narrazione popolare.
In una di queste novelle, Fantasticheria (1879), che ci presenta una elegante signora in sosta fra i pescatori di Aci Trezza, era manifestata l'intenzione di raccontare un giorno, scriveva Verga, « un dramma di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli, altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch'egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui » (vi si possono intravedere le linee essenziali della cosiddetta "morale dell'ostrica").
Era il preannuncio dei Malavoglia, il romanzo che apre la serie de I Vinti la quale, oltre a questo, sarebbe dovuta constare di altri quattro romanzi: - Mastro don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L'Onorevole Scipioni, L'uomo di lusso, sulla scorta delle grandi costruzioni cicliche come la Commedia Umana di Balzac e della storia dei Rougon-Macquart di Zola, e sulla scia tematica dei principi darwiniani della «evoluzione », dal momento che tale serie di racconti avrebbe dovuto rappresentare « una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro ed all'artista, ed assume tutte le forme, dall'ambizione all'avidità di guadagno » (lettera del 21 aprile 1899 all'amico Salvatore Paola): di essi, però fu composto soltanto il Mastro don Gesualdo (della Duchessa di Leyra sono rimasti soltanto il primo capitolo e rammenti del secondo).
I Malavoglia sono la storia di una famiglia composta da un patriarca, padron 'Ntoni, da marito e moglie, Bastianazzo e Maruzza detta la Longa, e da cinque figli, 'Ntoni, Luca, Mena, Alessi, Lia: hanno una casa, la casa del Nespolo, ed una barca in mare, la Provvidenza.
Le burrasche che si erano abbattute sugli altri Malavoglia, disperdendoli qua e là, erano rimaste fino allora impotenti di fronte alla casa del Nespolo, guidata da padron 'Ntoni con « un pugno che sembrava fatto di legno di noce ».
Il dramma del racconto, meglio, il « nodo » del dramma della casa del Nespolo è riposto nella lenta disgregazione di questo nucleo familiare per il violento contrasto fra due diversi modi di intendere la vita
L'uno, convinto che «il riso con i guai vanno a vicenda», non si smarrisce nella inesorabile successione degli eventi, non dimentica che le sue sono già state le sofferenze dei padri, difende disperatamente, con « il tenace attaccamento della povera gente allo scoglio» o, l'amore della casa, perché sa di difendere con esso il suo mondo umano; l'altro, suggestionato dall'idea dell'avventura, dapprima sogna l'ignoto, poi comincia a sentire indifferenza per il mondo che lo circonda, poi l'indifferenza si trasforma in ribellione a quella vita che è sempre la stessa, infine subentra l'odio, alimentato dall'anelito alla ricchezza: si dà al contrabbando, finisce in carcere, e quando, alla fine del romanzo, viene dimesso, ritorna al paese, ma sente una invincibile ripulsa a fermarsi in quel mondo che non è più suo, perché egli stesso l'ha tradito.
La macchina esterna del romanzo è imperniata su un disgraziato commercio di lupini: 'Ntoni è stato chiamato a prestare servizio militare, e la famiglia, priva di quelle due robuste braccia, per sopperire all'annata scarsa, compra a credito una partita di lupini con l'intenzione di andarla a vendere altrove, ma nella notte una tempesta divora la Provvidenza, i lupini, e Bastianazzo, sostegno della casa dopo padron 'Ntoni; nell'abisso incolmabile del debito scompaiono le scarse economie e la casa del Nespolo, si dissolve l'integrità familiare. La Longa non regge al peso della tragedia del marito e del figlio Luca, perito in servizio di leva nella battaglia di Lissa, e muore di colera; 'Ntoni è condannato al carcere; Lia abbandona i suoi e va in città, dove si perde; Mena, dopo l'onta gettata sulla sua casa dalla sorella, rinunzia all'amore e pone fine all'idillio con Alfio; padron 'Ntoni, supremo dolore per un popolano di Sicilia, muore in ospedale. Unico dei Malavoglia a sopravvivere alla bufera è Alessi, che sposa una vicina e riacquista la casa avita.
Ma questo è solo il motivo meccanico del romanzo: a costituirne il motivo unitario sono le « tenaci affezioni dei deboli », l'istinto dei piccoli a «stringersi fra loro per resistere alla tempesta della vita», l'innata inclinazione delle classi più umili a conservare il loro patrimonio morale anche nelle sventure, e ancor più la religiosa fedeltà ad alcuni valori essenziali, quali la casa e la famiglia, il tutto inquadrato nella visione pessimistica di un mondo chiuso ed arcaico, staticamente ancorato alle vecchie strutture sociali tramandate per generazioni.
A questo mondo il Verga si accosta con l'animo dello scrittore verista intenzionato a ritrarre impersonalmente vicende e sofferenze individuali e collettive di umili personaggi, senonché inconsciamente l'impersonalità si trasforma in partecipazione a tali vicende ed a tali sofferenze, e da tale partecipazione, che non altera la verità del quadro rappresentato, scaturisce la liricità del racconto.
A dominare la scena del quale non sono solo i personaggi maggiori: anche quelli minori hanno la loro parte, siano essi lo zio Crocifisso o il segretario comunale don Silvestro o lo speziale repubblicano don Franco o il parroco don Giammaria o l'ostessa Santuzza o la Vespa, da molti desiderata per quel suo poderetto; oppure siano le anonime comari ed i non meno anonimi compari che fanno da coro nel giudicare e nel commentare gli avvenimenti; oppure sia ancora il mare, quel «mare amaro» che è un personaggio sempre presente, che nelle giornate più nere russa e sbuffa « come uno che si volti e rivolti nel letto », che unisce sempre la sua, alle, voci di compassione, d'ira, di stanchezza, di malignità che sommessamente da uscio ad uscio, od apertamente, quasi a sottrarre i Malavoglia dalla loro solitudine, si alzano da tutto il paese per valutare, ognuna a modo suo, i piccoli e grandi fatti della vita quotidiana.
Lo stesso narratore sembra essere uno del posto che racconta e commenta col distacco impassibile del cronista, vale a dire di un anonimo narratore orale; da ciò nasce l'impressione di un Verga narratore camaleontico, che assume di volta in volta la maschera e l'opinione di tutti coloro che entrano in scena.
Anche il paesaggio partecipa alla coralità della narrazione, ora quasi compiangendo, ora restando indifferente alla sorte degli uomini.
Per
quanto riguarda la lingua, il Verga accettò, per sua stessa confessione,
l'ideale manzoniano di una lingua semplice, chiara, antiletteraria. Egli riuscì
a creare una prosa parlata, fresca, viva, popolare, che riproduce, nella
sintassi e nel lessico, il dialetto siciliano.
Nei Malavoglia è rigorosamente applicato il canone dell'imparzialità e
dell'obiettività.
Nella prefazione al romanzo, Verga sottolinea
come lo scrittore di fronte alla propria storia non abbia il diritto di
giudicare, ma solo di tirarsi fuori dal campo della lotta per 'studiarla
senza passione'.Nella pratica poetica quest'idea si traduce in una tecnica
di grandissima originalità.
Abbondano i discorsi indiretti liberi, cioè gli interventi dei
personaggi non mediati attraverso la elaborazione del narratore. Anche le parti
connettive del romanzo non lasciano mai trasparire la sovrapposizione
dell'autore e sembrano uscire dalla bocca di un anonimo paesano, che sia come
un portavoce dell'intera comunità di Acitrezza. Per rafforzare questo effetto
Verga si avvale di un discorso indiretto tutte le volte che ne ha bisogno, nel
descrivere fatti e luoghi, di far risuonare i modi tipici del linguaggio
popolare e di identificarsi con il pensiero della gente del posto.
Inoltre utilizza più di 150 proverbi che esprimono in modo pittoresco la
mentalità dell'ambiente sociale rappresentato.
Ne risulta una prosa che dalla spontaneità dialettale acquista l'andamento ritmico, quasi di nenia.
Seguirono a I Malavoglia le Novelle rusticane, ma prima di esse il Verga scrisse Il Marito di Elena, apparentemente rappresenta un ritorno ai vecchi schemi romantici, ma nella realtà costituisce un approfondimento del tema d'amore sulla scorta dell'amaro pessimismo dei Malavoglia, Cesare, il protagonista, è a sua volta un "Vinto", uccide la moglie, non perché ne ha scoperto il tradimento, non per vendicare il proprio onore, ma perché nella perdita di lei scorge la perdita della propria felicità, e non sa lottare, non sa resistere alla vita.
La tematica delle Novelle rusticane presenta una tonalità più marcatamente realistica e drammatica nei confronti di quella dei Malavoglia: la vita si configura, ora, come una lotta titanica, anche se disperata, contro quelle ferree leggi economiche e del sangue che, in opposizione al destino anonimo e metafisico dei romantici, impongono all'uomo la rassegnazione, e rendono inutile la sua eroica ribellione tendente a sovvertire l'ordine sociale.
Sono poveri sventurati ai quali, nella lotta per l'esistenza, viene meno la tradizionale fede nella famiglia e nell'onestà (Pane nero, Licciu Papa, Gli orfani); oppure è il demone della «roba» che, dopo averli allettati e sopraffatti per tutta la vita, li delude amaramente e li abbandona nel momento del trapasso (vedi Mazzarò); subentra quindi il motivo materialistico ed economico, che grandeggerà in Mastro don Gesualdo: il pessimismo verghiano si accentua, se nei Malavoglia la fede nella famiglia, la casa, rappresentavano uno spiraglio, ora anche questo viene meno.
Ancora, il paesaggio siciliano, che pare soffrire come una persona vivente per il gran piovere o per l'ardente calura, e che assurge al ruolo di unico protagonista quando, come in Malaria, diffonde drammaticamente dolore e morte tra gli esseri viventi.
In tutte, anche in quelle che si presentano come un'arida cronaca per via del canone dell'impersonalità, si avverte un impegno razionale, una volontà di conoscenza e di interpretazione che tradisce un «distacco-partecipe » dello scrittore ai personaggi ed agli eventi fatti oggetto della narrazione, e che ingenera in lui, reso consapevole della inutilità di ogni sforzo teso al mutamento delle cose, un accorato senso di pietà (La libertà
Motivo centrale dei racconti di Vagabondaggio è il senso di delusione, di inevitabile sconfitta che attende chi vive obbedendo disinteressatamente alle leggi del sentimentalismo: non resta che la stoica rassegnazione, l'accettazione tenace e disincantata, ma assolutamente passiva, della vita: l'uomo è come un oggetto, è costretto ad una vita puramente fisiologica, senza più sentimenti e passioni.
Ormai un freddo e sarcastico sorriso si sostituisce alla pietà. Giunto a disperare degli uomini in generale, quella superstite ansia romantica di ribellione che resisteva in Verga lo spinge a sperare in un eroe che sappia operare nel suo mondo e aderire ad esso: nasce così don Gesualdo.
Mastro don Gesualdo uscì a puntate sulla Nuova Antologia nel 1888, e fu ristampato nel 1889 in una redazione rinnovata.
Ne è protagonista un contadino arricchitosi con il lavoro tenace ed una volontà incrollabile, che sposa l'ultima discendente dei Trao, una famiglia aristocratica decaduta. Non gli basta infatti la potenza economica, egli mira ad elevarsi socialmente. Ma la nobiltà di sangue è un ostacolo insormontabile per lui, anche se circonda la moglie di deferente ossequio. Il matrimonio con Bianca non porta a Mastro-don Gesualdo la sperata soddisfazione, perché, ora che è diventato 'don', si sente escluso non solo dalla plebe dalla quale proviene, ma anche dal mondo aristocratico, che lo considera un intruso e lo tratta con distacco. Egli porta nei due titoli che precedono il nome 'Mastro-don Gesualdo' il suo dramma: per la plebe è diventato un 'don', un signore quindi, e perciò appartiene a un altro mondo; per gli aristocratici rimane il 'mastro' di sempre, e quindi è un estraneo al loro mondo. Ma il dolore maggiore gli deriva dal non sentirsi amato né dalla moglie né dalla figlia Isabella, che, d'altra parte, non è propriamente sua figlia, ma è nata dalla relazione di Bianca con Ninì Rubiera.
Egli, che ignorava tutto ciò, fa educare la figlia in un collegio di nobili e la vizia accontentandola in tutti i desideri. Ma poi si scontra con lei quando Isabella si innamora del cugino Corrado La Gurna, e la fa sposare ad un nobile palermitano. Mastro-don Gesualdo, che nel frattempo ha perduto la moglie, è costretto a lasciare il paese in rivolta per i moti del '48; poi, essendosi ammalato di cancro, va ad abitare a Palermo nel palazzo della figlia dove assiste allo scempio delle proprie ricchezze e muore solo e abbandonato da tutti.
Sul piano sociale il romanzo rappresenta la borghesia in ascesa di nuova formazione, avida e ambiziosa simboleggiata da Mastro-don Gesualdo, e le vecchie aristocrazie in declino, simboleggiate dai Trao.
Il mito del progresso e dell'innalzamento delle nuove classi, tanto spesso sbandierato dalla cultura del positivismo, è sottoposto ad una critica assai più radicale che nei Malavoglia, e tutto ciò mentre anche i privilegi e le tradizioni dell'ordine antico sono osservati con occhio lucido, senza alcuna indulgenza
Vero protagonista del romanzo è, con quello della solitudine, il motivo della roba un motivo che, sotto forma di demone ossessivo investe tutti (per i Trao la roba è la dignità del nome; per Bianca è la figlia Isabella; per la baronessa Rubiera, per Nunzio Motta, per il figlio Gesualdo, è il patrimonio), ma che, alla resa dei conti, divora ed uccide tutti.
La conquista della roba non conosce, per don Gesualdo, pause od abbandoni, fin da quando, ragazzo, "coi sassi in spalla e le spalle lacere" mirava a superare gli altri; a quando, adulto, si aggirava sulle colline arse, incurante delle ventate di scirocco e del sole «che gli picchiava sulla testa come fosse il martellare dei suoi uomini che lavoravano alla strada del Camemi »; a quando, ormai ricco, sorvegliava, implacabile custode, quel mondo che si era costruito pietra su pietra.
Alla Diodata, l'umile serva che sola può comprenderlo, rammenta, in una notte di pace, breve parentesi di una giornata faticosa nelle sue terre della Canziria, le amarezze e le infinite sofferenze che quella roba gli ha procurato, e nelle parole affettuose che le rivolge è racchiuso il poema del lavoro, ma anche il tragico destino di un uomo che, in nome della roba, sacrifica l'amore per sposare Bianca Trao, tradisce le sue origini alienandosi l'affetto del padre e di tutti i suoi, per stolta ambizione allontana la figlia perché sia educata come le fanciulle nobili, ed è lieto di legarla ad un marito nobile, anche se questi la sposa solo per la dote.
Per Verga don Gesualdo è l'eroe di questo poema, un eroe che, senza misurare tempo e fatica, sa realizzare la roba, non per ingordigia, ma per un senso nobile del lavoro e dei diritti della fatica (vedi l'episodio dell'appalto delle terre comunali), mentre attorno a lui si muove un mondo di meschini che mirano soltanto al guadagno senza badare ai mezzi che impiegano; ma, ancora per Verga, quello di don Gesualdo è un modello di vita sbagliato, perché, se nella società moderna chi persegue ideali ne esce sconfitto, anche chi accetta la logica e le regole del fatto economico finisce per diventare un vinto, in quanto per il nostro, il cui pessimismo è giunto all'acme,
un uomo non può mutare il suo stato e modificare la realtà.
Don Gesualdo, pertanto, lotta da solo contro tutto e contro tutti, senza mai avere il conforto della vicinanza e delle solidarietà degli altri, egli che pur conserva ancora il sogno romantico degli affetti (per i suoi familiari, per la moglie, per la figlia): da qui il senso di solitudine e di tristezza che emana dalla sua figura e l'adesione di Verga nei suoi confronti, perché vede in lui l'individuo che lotta imperterrito, pur sapendo che dovrà soccombere, e perché, meglio di ogni altro personaggio, realizza la sua sconsolata concezione della vita.
Questa concezione si riflette anche sui personaggi minori (vecchi, malati, sconfitti), con una sensibilità che ha fatto insorgere in qualche critico l'idea di un preannunzio decadentistico (vedi il disfacimento fisico e morale dei Trao, la paralisi della duchessa di Rubiera, la malattia di Don Gesulado).
Il racconto si svolge per quadri staccati: l'incendio nella casa Trao, la processione di Vizzini, il matrimonio il parto, la giornata di don Gesualdo, e tutti nell'ambito di un paesaggio cupo e desolato.
Il nuovo romanzo non ha quindi la corale compattezza dei Malavoglia.
Solenni, per efficacia descrittiva, le ultime pagine dell'opera, nelle quali è presentata la fine del protagonista tra l'indifferenza generale: detta fine suscita in Verga un istintivo senso di rivolta, ma in realtà è conforme al suo pensiero sulla inevitabilità, per gli uomini, di assoggettarsi alle leggi del destino.
Nel Mastro lo scrittore, pur mantenendo la sua fedeltà al metodo impersonale e obiettivo, è indotto dalla maggiore complessità dei temi e dal maggiore approfondimento psicologici dei personaggi a usare soluzioni di linguaggio meno audacemente innovative rispetto ai Malavoglia.
La lingua è quella d'uso comune, ma non propriamente popolare.
Da quanto visto nelle opere fin qui trattate, Verga ebbe una concezione dolorosa e tragica della vita. Pensava che tutti gli uomini fossero sottoposti a un destino crudele che li condanna non solo all'infelicità e al dolore, ma ad una condizione sociale ed economica in cui sono venuti a trovarsi nascendo.
Chi cerca di uscire dalla condizione in cui il destino lo ha posto, non trova la felicità sognata, ma va incontro a sofferenze maggiori ( es. Malavoglia e Mastro Don Gesualdo).
Con questa visione della società Verga rinnova il mito del fato ( cioè la credenza in una potenza oscura e misteriosa che regola le vicende degli uomini), ma senza il sentimento della ribellione in quanto non crede nella possibilità di un qualsiasi cambiamento.
Per Verga non rimane che la rassegnazione al proprio destino.
Questa concezione fatalistica dell'uomo sembra contraddire la fede nel progresso propria delle dottrine positivistiche ed evoluzionistiche.
La visione verghiana del mondo sarebbe la più squallida e desolata di tutta la letteratura italiana se non fosse confortata da tre elementi positivi.
Il primo è quel sentimento della grandezza e dell'eroismo che porta il Verga ad assumere verso i 'vinti' un atteggiamento misto di pietà e di ammirazione.
Secondo elemento positivo è la fede in alcuni valori e nella società: la religione, la famiglia, la casa, la dedizione al lavoro, lo spirito del sacrificio e l'amore nutrito di sentimenti profondi ma fatto di silenzi, sguardi furtivi e di pudore.
Il terzo elemento è la saggezza che ci viene dalla coscienza dei nostri limiti e ci porta a sopportare le delusioni
Verga, a differenza di altri scrittori, non espose le proprie idee sulla letteratura e sull'arte in opere compiute; preferì invece immergersi nel suo scrupoloso e concreto lavoro di scrittore. Il canone fondamentale a cui si ispira è quello dell'impersonalità (per altro comune ai veristi), che egli intende innanzi tutto come 'schietta ed evidente manifestazione dell'osservazione coscienziosa'.
Verga vuole indagare nel misterioso processo dei sentimenti umani presentando il fatto nudo e schietto come è stato 'raccolto per viottoli dei campi, press'a poco con le medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare', sacrificando 'l'effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno imprevedibile ma non meno fatale'; l'obiettivo è quello di giungere a un romanzo in cui l'affinità di ogni sua parte sarà completa, in cui il processo della creazione rimarrà un mistero, la mano dell'artista rimarrà invisibile e 'l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé'.
Verga vuole rappresentare la lotta per la vita ripercorrendo la scala sociale, dai livelli più bassi a quelli più elevati e questo sia per la sua esigenza personale di rimeditare la propria esperienza umana e artistica e anche per estendere l'indagine che si era in genere limitata ai ceti popolari, alle classi più alte.
Le tecniche narrative riguardano il rapporto tra autore e materia rappresentata, le tecniche espressive, la sintassi e il lessico.
La novità di Verga sta nella distinzione tra autore e narratore e nella definizione e invenzione del narratore regredito.
L'autore per essere impersonale deve rinunciare ai suoi pensieri e giudizi, alla sua morale e cultura perché non deve esprimere se stesso ma si deve nascondere impedendo così al lettore di percepire la sua presenza.
Verga cerca di realizzare l'eclissi dell'autore delegando la funzione narrante a un narratore che è perfettamente inserito nell'ambiente rappresentato, regredito al livello sociale e culturale dei personaggi rappresentati che assume la loro mentalità e non fa trapelare l'idea dell'autore. Il narratore assume così, un aspetto camaleontico evidente soprattutto nei Malavoglia.
Verga vuole essere impersonale fino in fondo e, oltre a rinunciare alla sua mentalità ai suoi ideali e principi rinuncia anche alla sua lingua e cerca di adottare un tipo di espressione più vicina possibile agli umili rappresentati; l'autore cerca, infatti, di studiare la sintassi del dialetto siciliano e tenta di riprodurre tale struttura della frase nella lingua italiana, citando spesso proverbi che appartengono alla cultura locale.
L'autore utilizza anche la tecnica del discorso indiretto libero, nel descrivere fatti e luoghi, di far risuonare i modi tipici del linguaggio popolano e di identificarsi col pensiero della gente del posto.
E' utilizzato anche l'artificio dello straniamento realizzato attraverso un modo di raccontare i fatti secondo cui quello che è normale appare strano e viceversa; questo avviene in quanto il narratore è reso a tratti inattendibile agli occhi del lettore, in quanto distante dalle posizioni dell'autore implicito (= l'immagine che il lettore ricostruisce a proposito dello scrittore, derivandola dalla lettura di un testo e dal sistema di valori, ideologico, psicologico, morale ecc.. che sottende al testo stesso, sistema che, va precisato, può coincidere con la reale personalità dell'artista o non coincidere affatto).
Teorico e divulgatore del verismo fu Luigi CAPUANA siciliano al pari del Verga, cui si deve il manzo verista, Giacinta: il racconto, dominato dalla preoccupazione di serbar fede a canone dell'impersonalità, si muove su una tematica di tipo flaubertiano, vale a dire nell'ambito i una analisi minuziosa, e quasi clinica, della vita dei singoli personaggi, così che ben poco è concesso alla rielaborazione artistica dei molti particolari di vita reale presi in esame.
L'opera sua più importante, ed una delle più significative nel campo della narrativa del secondo Ottocento, è Il marchese di Roccaverdina la storia di un atroce delitto, consumato dal protagonista per acuta gelosia ed imputato ad un innocente, che muore in carcere: roso dal rimorso, che non riesce ad allontanare in alcun modo da sé, neppure svelando il suo misfatto ad un santo prete del luogo, neppure sposando una patrizia decaduta che aveva amato da giovane, neppure tentando di stordirsi negli affari di campagna, il marchese giunge alla follia; in una delle continue allucinazioni rivela il delitto alla moglie, che l'abbandona, ma ricompare allora Agrippina, l'amante-schiava per la quale ha ucciso, che lo assiste e si distacca da lui soltanto quando ne avverte imminente la fine. Anche se la psicologia dei personaggi è analizzata, più che rappresentata, l'opera presenta alcune pagine artisticamente valide, come le ultime, dalle quali emerge la mesta e silenziosa devozione di Agrippina al suo antico padrone, o quelle che fanno da sfondo alla drammatica vicenda, ritraendo costumi, tradizioni millenarie, immobilismo sociale della primitiva gente isolana.
Completa la triade dei romanzieri veristi siciliani FEDERICO DE ROBERTO scrittore fecondissimo che ci ha asciato una trentina di volumi, fra romanzi, raccolta di novelle, «studi ». Prevale su tutti I Viceré un vasto romanzo che costituisce, con il precedente L'illusione ed il seguente L'imperio, una specie di ciclo della potente famiglia catanese Uzeda, d'origine spagnola, la quale annovera, tra i suoi antenati, due viceré della Sicilia: da qui il titolo dell'opera.. Motivo conduttore della narrazione è l'istinto di dominio che ossessiona tutti gli Uzeda e che, trasmesso di generazione in generazione, fa loro superare, attraverso ogni forma di intrighi, qualsiasi capovolgimento politico e qualsiasi rivolgimento sociale.
Per la sua sfiducia di attingere alla verità, per il suo impegno di analizzare i motivi che guidano l'uomo nelle sue azioni, per il suo convincimento che nella vita tutto è illusione, De Roberto preannuncia Pirandello.
I piccoli ceti e la media borghesia napoletana ebbero una consapevole interprete in MATILDE SERAO (1856-1921), nata a Patrasso da genitori giornalisti e giornalista essa stessa: questa sua attività la mise in grado di porre in luce nelle novelle (Terno secco, Telegrafi di Stato, Scuola normale femminile), oscuri dolori e povere ambizioni di umili personaggi realisticamente colti nella loro semplice e talvolta tragica, umanità, e di rappresentare nei romanzi, soprattutto in quelli divenuti più popolari (Il paese di Cuccagna Fantasia Ballerina) il pittoresco mondo che le stava innanzi.
Ricordiamo infine che, parallelamente alla corrente verista si svolge una corrente informata al realismo, ma che mira a continuare la tradizione manzoniana.
In particolare essa assume talvolta coloriture moralistiche o pedagogiche. Ricordiamo tra gli altri Edmondo de Amicis, con Cuore (1886) e Il romanzo di un maestro (1890) e Carlo Lorenzini Collodi) che con Pinocchio rientra nel novero di quelle opere volte a descrivere il processo di formazione ed evoluzione dei giovani, sulle orme dell'Èmile di Rousseau.
Tutte le novelle e i romanzi possono essere scaricati alla pagina che segue:
https://www.liberliber.it/biblioteca/v/verga/index.htm
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c'era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c'ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Caverna, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano "la cava di Malpelo", e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava.
Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell'ingrottato, e dacché non serviva più, s'era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre -.
Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l'avvocato.
Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli "ah! ah!" dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava:
- Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante!
Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch'esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino.
Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! - oppure: - Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt'a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch'era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L'ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell'e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell'affare di mastro Bestia!
Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero.
- To'! - disse infine uno. - È Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso?
- Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia -
Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. Ma l'asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava:
- Così creperai più presto! -
Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l'avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: - Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così! - E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva: - È stato lui! per trentacinque tarì! - E un'altra volta, dietro allo Sciancato: - E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! -
Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio com'era, il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: - To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! -
O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n'era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva dire a Ranocchio: - L'asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi -.
Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso -.
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo' di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. - La rena è traditora, - diceva a Ranocchio sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui -.
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: - Taci, pulcino! - e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te -. Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo -.
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliel'aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d'ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l'intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all'infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n'erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall'altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l'aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt'ora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte.
- Proprio come suo figlio Malpelo! - ripeteva lo sciancato - ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.
Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno, e di carne battezzata. La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara.
- Così si fa, - brontolava Malpelo; - gli arnesi che non servono più, si buttano lontano -.
Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più -. L'asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po' di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch'esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: "Non più! non più!". Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -.
La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c'era entrato da giovane, e n'era uscito coi capelli bianchi, e un altro, cui s'era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni.
- Egli solo ode le sue stesse grida! - diceva, e a quell'idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.
- Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d'andare. Ma io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà -.
Pure, durante le belle notti d'estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch'essa, come la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell'alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente - perché allora la sciara sembra più bella e desolata.
- Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava Malpelo, - dovrebbe essere buio sempre e da per tutto -.
La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava:
- Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli -.
Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l'asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.
- Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti, - gli diceva, - e allora era tutt'altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti -.
Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c'era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te l'ha detto? - domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma.
Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. - Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella -.
E dopo averci pensato un po':
- Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io -.
Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull'asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell'aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue; allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l'aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l'operaio se ne fu andato, aggiunse:
- Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! -
Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non c'era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l'occhio spento, preciso come quello dell'asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava:
- È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! -
E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti travicelli c'erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l'aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così. Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s'era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla figliuola maritata, e avevano chiusa la porta di casa. D'ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.
Verso quell'epoca venne a lavorare nella cava uno che non s'era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni. Malpelo seppe in quell'occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.
Da quel momento provò una malsana curiosità per quell'uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi.
- Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? - domandò Malpelo.
- Perché non sono malpelo come te! - rispose lo Sciancato. - Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa! -
Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d'opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c'era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l'oro del mondo.
Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.
Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: - Vorrei starci un mese laggiù! -
Noi vi ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott'ore; i terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d'anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell'azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai. In quelle quarantott'ore facemmo tutto ciò che si può fare ad Aci-Trezza: passeggiammo nella polvere della strada, e ci arrampicammo sugli scogli; col pretesto di imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima, gettando le reti tanto per far qualche cosa che a' barcaiuoli potesse parer meritevole di buscarsi dei reumatismi, e l'alba ci sorprese in cima al fariglione - un'alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli occhi, striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde cupo, raccolta come una carezza su quel gruppetto di casucce che dormivano quasi raggomitolate sulla riva, mentre in cima allo scoglio, sul cielo trasparente e limpido, si stampava netta la vostra figurina, colle linee sapienti che vi metteva la vostra sarta, e il profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. - Avevate un vestitino grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell'alba. - Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapeste anche voi, dal modo in cui vi modellaste nel vostro scialletto, e sorrideste coi grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell'altra stranezza di trovarvici anche voi presente. Che cosa avveniva nella vostra testolina allora, di faccia al sole nascente? Gli domandaste forse in qual altro emisfero vi avrebbe ritrovata fra un mese? Diceste soltanto ingenuamente: - Non capisco come si possa vivere qui tutta la vita -.
Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po' di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell'azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta, perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch'esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli.
È una cosa singolare; ma forse non è male che sia così - per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, "gente di mare", dicono essi, come altri direbbe "gente di toga", i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano - quando ne mangiano - giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato. In quei giorni c'è folla sull'uscio dell'osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo.
Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che davvero si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.
Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. - Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; - ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall'altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà.
Noi siamo stati amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qualche pagina. Perché? à quoi bon? come dite voi. Che cosa potrà valere quel che scrivo per chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant'è, mi son rammentato del vostro capriccio, un giorno che ho rivisto quella povera donna cui solevate far l'elemosina col pretesto di comperar le sue arance messe in fila sul panchettino dinanzi all'uscio.
Ora il panchettino non c'è più; hanno tagliato il nespolo del cortile, e la casa ha una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po' più in là a stender la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che barricano il vecchio Posto della guardia nazionale; ed io, girellando, col sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, così povera com'è, vi aveva vista passare, bianca e superba.
Non andate in collera se mi son rammentato di voi in tal modo, e a questo proposito. Oltre i lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so più dove - forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti - e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste, e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino dell'adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso in capo alla cronaca elegante - sazia così, da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine di un libro.
Quando scriverò il libro, forse non ci penserete più; intanto i ricordi che vi mando, così lontani da voi, in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi faranno l'effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale. Il giorno in cui ritornerete laggiù, se pur vi ritornerete, e siederemo accanto un'altra volta, a spinger sassi col piede, e fantasie col pensiero, parleremo forse di quelle altre ebbrezze che ha la vita altrove. Potete anche immaginare che il mio pensiero siasi raccolto in quel cantuccio ignorato del mondo, perché il vostro piede vi si è posato, - o per distogliere i miei occhi dal luccichìo che vi segue dappertutto, sia di gemme o di febbri - oppure perché vi ho cercata inutilmente per tutti i luoghi che la moda fa lieti. Vedete quindi che siete sempre al primo posto, qui come al teatro!
Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza, perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù, all'ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.
Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa, egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero, vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia "sotto le sue tegole", tanto che quando lo portarono via piangeva, guaiolando come fanno i vecchi.
Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore, col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua "occhiata di sole" accoccolato sulla pedagna della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in quelli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere s'inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche.
La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro.
Quella ragazza, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscìo della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anch'essa. Chi sa quali povere gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell'altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi occhi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande, lontana dai sassi che l'avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all'ospedale, e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi aveva soffiato sopra - un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria - "nei guai!" come dicono laggiù.
Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa l'uno, il più grande, quello che vi sembrava un David di rame, ritto colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell'ellera. Grande e grosso com'era, si faceva di brace anch'esso quando gli fissaste in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon marinaio, sulla verga di trinchetto, fermo al sartiame, levando in alto il berretto, e salutando un'ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d'isolano; l'altro, quell'uomo che sull'isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli, nel quale v'eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d'inverno, solo, fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il lido, dove stavano ad aspettarlo i suoi, andando di qua e di là come pazzi, c'erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto immaginare di qual disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell'uomo che lasciavasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio.
Meglio per loro che son morti, e non "mangiano il pane del re", come quel poveretto che è rimasto a Pantelleria, o quell'altro pane che mangia la sorella, e non vanno attorno come la donna delle arance, a viver della grazia di Dio - una grazia assai magra ad Aci-Trezza.
Quelli almeno non hanno più bisogno di nulla! lo disse anche il ragazzo dell'ostessa, l'ultima volta che andò all'ospedale per chieder del vecchio e portargli di nascosto di quelle chiocciole stufate che son così buone a succiare per chi non ha più denti, e trovò il letto vuoto, colle coperte belle e distese, sicché sgattaiolando nella corte, andò a piantarsi dinanzi a una porta tutta brandelli di cartacce, sbirciando dal buco della chiave una gran sala vuota, sonora e fredda anche di estate, e l'estremità di una lunga tavola di marmo, su cui era buttato un lenzuolo, greve e rigido. E pensando che quelli là almeno non avevano più bisogno di nulla, si mise a succiare ad una ad una le chiocciole che non servivano più, per passare il tempo.
Voi, stringendovi al petto il manicotto di volpe azzurra, vi rammenterete con piacere che gli avete dato cento lire, al povero vecchio.
Ora rimangono quei monellucci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arance; rimangono a ronzare attorno alla mendica, e brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, bucce d'arance e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via, ma che pure devono avere ancora qualche valore, poiché c'è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene, che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci-Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro, solo pregando Iddio di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull'asinello, come Gesù, ad aiutare la buona gente che se ne va.
- Insomma l'ideale dell'ostrica! - direte voi. - Proprio l'ideale dell'ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -.
Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano - forse pel quarto d'ora - cose serissime e rispettabilissime anch'esse.
Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo s'addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. - Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente.
Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: - che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch'egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. - E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d'interesse. Per le ostriche l'argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.
Il viandante che andava lungo il Biviere di
Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana
di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di
Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per
ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo,
nell'ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell'immensa
campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere
canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della
malaria: - Qui di chi è? - sentiva rispondersi: - Di Mazzarò -. E passando
vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano
chiese, e le galline a stormi accoccolate all'ombra del pozzo, e le donne che
si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: - E qui? - Di Mazzarò
-. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva
all'improvviso l'abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva
più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso
la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone,
levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: - Di
Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l'erba non spuntava
mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso
sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava
di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che
tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado
lentamente, col muso nell'acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della
Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di
Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il
campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella
valle. - Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che
tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a
rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell'assiolo nel
bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la
terra, e che gli si camminasse sulla pancia. - Invece egli era un omiciattolo,
diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di
grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla,
perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch'era ricco come un
maiale; ma aveva la testa ch'era un brillante, quell'uomo.
Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta
quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a
mietere; col sole, coll'acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno
straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel
di dietro, quelli che ora gli davano dell'eccellenza, e gli parlavano
col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che
tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol
dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto,
soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era
anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del
berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli
aveva la vista lunga - dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro,
nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli
del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza
contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due
soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia,
all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo
alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i
sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna
gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde
giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì
che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe
ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il
vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle
spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva
dovuto farla portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la
roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed
aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di
luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro,
che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva
lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare
della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi
che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più,
portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a
marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si
possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia
accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare,
nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di
Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella
gente, col biscotto alla mattina e il pane e l'arancia amara a colazione, e la
merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne
si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a
cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva
d'occhio uno solo, e badava a ripetere: - Curviamoci, ragazzi! - Egli era tutto
l'anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si
pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d'argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l'era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll'affaticarsi dall'alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch'era tutto quello ch'ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse
la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come
quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l'aveva raccolto per
carità nudo e crudo ne' suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei
prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti,
che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re,
e gli preparavano anche l'alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno
sapeva l'ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere
colle mani nel sacco. - Costui vuol essere rubato per forza! - diceva Mazzarò,
e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si
fregava la schiena colle mani, borbottando: - Chi è minchione se ne stia a
casa, - la roba non è di chi l'ha, ma di chi la sa fare -. Invece egli, dopo
che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la
messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all'improvviso, a piedi o
a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva
accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la
roba del barone; e costui uscì prima dall'uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai
pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava
giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua
brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch'era
prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a
Mazzarò: - Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te -. Ed era vero;
Mazzarò non sapeva che farsene, e non l'avrebbe pagato due baiocchi. Il barone
gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro.
- Questa è una bella cosa, d'avere la fortuna che ha Mazzarò! - diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l'acchiappava - per un pezzo di pane. - E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! - I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l'asinello, che non avevano da mangiare.
- Lo vedete quel che mangio io? - rispondeva lui, - pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba -. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: - Che, vi pare che l'abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? - E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l'aveva.
E non l'aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai
12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro
entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene
importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una
certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere
della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne
venderla, né dire ch'è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la
terra doveva lasciarla là dov'era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di
essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla,
che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul
corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano
sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli
oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli
passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo
bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni
lunghi! costui che non ha niente! -
Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba,
per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava
ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: -
Roba mia, vientene con me! -
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