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Teorie filosofiche sul linguaggio
La disciplina filosofica che studia il linguaggio umano è la Filosofia del linguaggio. Essa confina con una pluralità di discipline, quali la linguistica, la semiotica[1], la logica, l'epistemologia. In un certo senso tutta la filosofia implica una riflessione sul linguaggio come mezzo della comunicazione umana e dell'argomentazione razionale. Quest'interesse per il linguaggio, infatti, affonda le radici in tempi molto antichi, per la curiosità che i suoi aspetti e i suoi fenomeni hanno da sempre suscitato nell'uomo, e giunge fino ai giorni nostri, dove continua ad essere frutto di animati dibattiti. Pare opportuno fare un breve excursus di idee partendo da Aristotele per arrivare, infine, a colui che più incarna l'immagine di linguista contemporaneo, Noam Chomsky.
1 ARISTOTELE (384 a.C. 322 a.C.)
"Or dunque, i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell'anima e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poiché le lettere non sono medesime per tutti, così neppure i suoni sono medesimi; tuttavia suoni e lettere risultano segni, anzitutto, delle affezioni dell'anima che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti già identici per tutti" (De Interpr. 16a, 1-8)
Nel trattato De Interpretatione Aristotele afferma che i suoni della voce sono "il simbolo delle affezioni dell'anima". Per i greci la parola simbolo indica la relazione tra aspetti complementari e indisgiungibili, nessuno dei quali gode di vita autonoma. Le scansioni della voce e le "affezioni dell'anima" sono connesse come le parti simmetriche di una tavoletta: impossibile attribuire a una parte o all'altra quel significato che sussiste solo a partire della loro sutura. Secondo Aristotele, nomi, verbi e discorsi non hanno alcunché di convenzionale- strumentale. Gli uomini non usano il linguaggio, lo vivono. Il linguaggio non è uno strumento perché uno strumento è un oggetto che un soggetto usa e l'uso ha un inizio e una fine; inoltre esiste una volontà e una pianificazione, una scelta per l'utilizzo dell'oggetto. L'uomo invece non sceglie il linguaggio, poiché dal momento in cui inizia a parlare non è più libero di fare a meno di esso. Il silenzio, oltretutto, non è un mettere da parte il linguaggio ma è una scelta interna al linguaggio: tace solo chi, potendo parlare, sceglie il silenzio come modo di parlare. L'uomo è linguaggio: il parlare è il respirare dell'animo umano.
Nel Settecento una riflessione originale è svolta dal filosofo napoletano Giambattista Vico che, reagendo alle concezioni della genesi convenzionale del linguaggio, tenta di ricostruirne l'origine a posteriori ed in modo fantasioso.
Secondo la sua teoria, dopo il Diluvio Universale, si diffonde sulla terra una progenie di uomini primitivi e rozzi, poco dissimili dalle scimmie. È da qui che ha origine, attraverso un procedimento di progressione, lento ma inesorabile, il nostro linguaggio umano. Vico chiama questo periodo età degli dei, immaginando che questi uomini siano ancora totalmente privi o quasi di razionalità e dotati solo di sensi, istinto, fantasia. Questi uomini identificano i fenomeni della natura con le divinità (es. il tuono sarà espressione del dio del cielo ecc. ) e il loro linguaggio è parallelo alle loro possibilità mentali, dunque scarso e rudimentale: si tratta per Vico di un linguaggio gestuale, o che si esprime attraverso oggetti (ad esempio per dire tre anni, l'uomo colpirà tre volte una spiga di grano con una falce). Questa fase di infanzia dell'umanità non è troppo diversa dall'infanzia di ogni singolo uomo che infatti inizialmente indica le cose che nomina. Successivamente, secondo Vico, la mente umana si sviluppò al punto da cominciare almeno in parte a razionalizzare. È l'età degli eroi. Gli uomini sono ancora molto violenti, brutali ed istintivi ma cominciano a mettere a frutto la loro fantasia in modo verbale; sono in grado di cogliere somiglianze tra gli oggetti esterni e il proprio corpo umano dando, per esempio, alle cose astratte il nome di parti del loro corpo attraverso un trasferimento metaforico: capo per principio, bocca per apertura, fronte e spalla per avanti e dietro. Per Vico il primo linguaggio verbale deve essere stato il canto, adatto a trasmettere il trasporto di grandi passioni, e il secondo tipo deve essere stato la poesia. Egli è fermamente convinto che il linguaggio verbale abbia avuto un'origine metaforica: le figure retoriche, metafore, metonimie, sineddochi non nascono come ornamento, bensì dall'esigenza di far fronte con mezzi lessicali limitati alla complessità del reale. In terza battuta nasce il linguaggio convenzionale, che tutti conosciamo, che corrisponde all'età degli uomini e della ragione totalmente dispiegata. È la lingua che ci serve per le relazioni pratiche. Con questa terza ed ultima fase l'uomo raggiunge la sua piena coscienza critica. Questo procedimento dialettico a tre momenti si verifica, secondo Vico, nel processo di acquisizione del linguaggio di ogni singolo essere umano e lo stadio successivo non vanifica quello precedente; in qualche modo sono tutti e tre co-presenti nell'uomo adulto.
KARL WILHELM VON HUMBOLDT
"L'uomo è tale solo attraverso il linguaggio, ma per inventare il linguaggio egli doveva già essere uomo"
Con l'avvento del romanticismo si affaccia una nuova concezione del linguaggio, concepito come organismo che si sviluppa storicamente. Humboldt, anticipando il moderno sviluppo dell'etnolinguistica, è uno dei primi studiosi a ritenere che la lingua rifletta la cultura e il carattere dei suoi parlanti e che lo studio della lingua debba includere la storia e l'antropologia. Egli intende il linguaggio come una produzione dello spirito, ovvero come un'attività organica, vivente e storica, per la quale ogni lingua porta alla luce la particolare "concezione del mondo" di ciascun popolo. Dove c'è umanità, c'è linguaggio poiché il linguaggio è il dato caratteristico fondamentale dell'uomo. Un'altra importante osservazione effettuata da Humboldt a proposito del linguaggio si rispecchia nel "paradosso" che verrà in seguito ripreso da Chomsky: l'uomo può fare un uso infinito dei mezzi linguistici finiti di cui dispone .
4. MARTIN HEIDEGGER
Insieme alla questione della tecnica, la questione del linguaggio costituisce una delle tematiche fondamentali del pensiero dell'ultimo Heidegger. Il problema del linguaggio non è oggetto di una considerazione meramente linguistica; piuttosto, per Heidegger, il 'linguaggio è la casa dell'essere',"il luogo in cui le cose si mostrano all'uomo" ed è solo riportando alla memoria l'antica sapienza che nel linguaggio è riposta, che l'uomo può rimettersi in ascolto dell'appello che l'essere, dalle origini del tempo, ha rivolto ad egli stesso. La riflessione di Heidegger sul linguaggio attraversa perciò vari passaggi, ma essenzialmente si muove in due direzioni principali:
Egli, inoltre, fece una distinzione tra linguaggio sottoposto alla legge dell'utile, ridotto a comunicazione e informazione, e linguaggio poetico, l'unico vicino all'essere.
5. NOAM CHOMSKY
Secondo le teorie di Chomsky, filosofo e linguista statunitense, il linguaggio è il risultato di una facoltà umana innata basata su una "struttura profonda"; lo scopo della linguistica è quello di descrivere tale struttura, individuando una "grammatica universale" che possa contemplare tutta la gamma delle variazioni linguistiche umanamente possibili . L'analisi di Chomsky prende avvio da frasi semplici, dalle quali è possibile sviluppare, per mezzo di un insieme di regole, una varietà illimitata di combinazioni sintattiche(come può, la competenza linguistica dei parlanti, generare infinite frasi diverse, tutte corrette, partendo dai relativamente pochi esempi di linguaggio con i quali si viene in contatto quando si impara a parlare?). L'apporto fondamentale della teoria linguistica chomskiana consiste nell'aver individuato la produzione di enunciati (cioè il fatto di parlare una data lingua) come una serie di processi suscettibili di essere analizzati. Prima di lui, i linguisti si limitavano, nella maggior parte dei casi, ad analizzare questi stessi enunciati sotto i loro diversi aspetti (semantico sintattico morfologico o fonologico). L'approccio generativo di Chomsky propone un modello che, partendo da un senso astratto concepito dal locutore (componente semantica), trasforma questo senso in una sequenza di parole (componente lessicale) opportunamente ordinate (componente sintattica) a cui corrisponde infine una pronuncia (componente fonologica). All'interno di ciascuna di queste componenti, ogni elemento subisce delle trasformazioni successive.
Per dare maggior chiarezza alla complessa concezione chomskiana, riporto qui di seguito un'intervista rilasciata dal linguista a Cambridge nel maggio 1992, che esporrà la relazione Chomsky- Humboldt e sottolineerà la nozione di grammatica generativa:
Intervista
A chi dobbiamo, Professor Chomsky, i contributi più significativi nello studio del linguaggio in epoca moderna?
All'inizio dell'Ottocento un grande linguista, Karl Wilhelm von Humboldt, osservò che il linguaggio in qualche modo ci fornisce dei mezzi finiti per usi infiniti. I mezzi che abbiamo per esprimerci sono collocati nel cervello, il che significa che sono finiti, mentre l'uso per il quale possiamo impiegarli è illimitato, sconfinato e infinito. Già Cartesio però sosteneva che per capire se un'altra creatura avesse una mente come la nostra, la migliore indicazione stesse proprio nel suo poter usare il linguaggio in quel modo creativo così caratteristico degli esseri umani. Egli intendeva un'uso del linguaggio prima di tutto infinito e, in secondo luogo, evidentemente non causato da situazioni esterne né da una disposizione interna.
Ci può dire invece quando ci si è posti la domanda di come si sia formata questa attitudine?
La questione di come possa essersi sviluppata questa capacità creativa riguarda un altro aspetto dello stesso problema, che può essere fatto risalire, ancora più in là di Cartesio, ai dialoghi Platonici. In questo senso l'interrogativo si estende anche alla spiegazione di come sia possibile agli uomini comprendere la grande quantità di cose che di fatto comprendono, dato il carattere limitato dell'esperienza disponibile. Se si considera più da vicino il linguaggio, infatti, è possibile dimostrare facilmente che qualsiasi bambino piccolo usa quei mezzi finiti per esprimere alcuni pensieri limitati senza avere quasi nessuna esperienza pertinente. Quello che si potrebbe definire 'il problema di Platone', e cioè la domanda, 'Come è possibile sapere tante cose avendo esperienze così minime?' può essere trasferita nel linguaggio traducendola nella formula seguente: 'Come si possono sviluppare i mezzi finiti che ci mettono in grado di esprimere pensieri illimitati in maniera creativa, non causata, ma appropriata?'. Fino a circa cinquanta anni fa non è stato mai possibile affrontare in modo molto preciso tali questioni fondamentali, che pure sono state sollevate più volte nel corso del tempo. L'idea, infatti, di un uso infinito di mezzi finiti rimase una metafora fino al ventesimo secolo. Da allora questo concetto è stato chiarificato anche in altri campi quali la matematica, lo studio dei sistemi logici e la computazione.
Quali effetti ha prodotto in linguistica questa impostazione del problema?
Il concetto di un
uso infinito di mezzi finiti divenne molto chiaro e comprensibile. Esso fornì
gli strumenti intellettuali per affrontare quei problemi che Humboldt, per
esempio, riuscì a discutere solo in modo metaforico e creò così le condizioni
per convertire quelle domande in un programma di ricerca veramente vivo. Solo
allora, infatti, fu possibile formulare un progetto di ricerca specifico, il
programma di grammatica generativa, con il quale si è cercato di definire
l'esatto sistema di principi e di modi di computazione usati dal cervello
nell'esprimere pensieri in quel modo illimitato. Non appena si giunse a questo
risultato, ci si accorse presto del fatto che il materiale disponibile nelle
grammatiche tradizionali o anche, in maggior copia, nelle grammatiche
strutturalistiche moderne, non si avvicinava nemmeno lontanamente alla quantità
di conoscenze di cui dispone ogni persona normale o, di fatto, ogni bambino
piccolo.
Dalla formulazione precisa di questi principi, che collocavano il problema su
una scala diversa da quella che si poteva immaginare, si arrivò ad approfondire
il 'problema di Platone', il render conto di come questa capacità
umana si fosse sviluppata. Le conclusioni a cui si giunse riguardo tale
questione non furono poi diverse da quelle a cui giunse lo stesso Platone e
cioè che questa capacità ha potuto svilupparsi sulla base dell'esperienza solo
perché era già presente come parte di ciò che oggi chiameremmo la dotazione
biologica o genetica. Questi concetti furono sviluppati in quella che fu
definita la 'rivoluzione cognitivista' degli anni '50 e che
rappresentò un cambiamento di prospettiva alquanto significativo in relazione
allo studio del comportamento, del pensiero e dell'intelligenza umana. Si
spostò l'attenzione dai comportamenti ai meccanismi interni che rendono
possibile quei comportamenti, e lo sviluppo della grammatica generativa interna
rientrò in questo programma rappresentando, di fatto, un grande stimolo allo
sviluppo delle moderne scienze cognitive. Da quel periodo in poi abbiamo
assistito a molti sviluppi importanti nel tentativo di formulare i principi che
realmente rendono conto della nostra conoscenza delle frasi espressive e di ciò
che esse significano. Ci si rese conto di come la complessità di questi
meccanismi andasse molto aldilà di quanto potessimo mai immaginare.
Professor Chomsky, secondo quali principi funziona il linguaggio nell'ottica della grammatica generativa?
Qualsiasi sia l'aspetto del linguaggio che noi consideriamo, si tratti del significato delle parole o del modo in cui le parole si combinano in frasi, del modo in cui si possano formare certe costruzioni, come nel caso delle domande o anche delle relazioni semantiche tra parole, oppure si tratti delle relazioni tra un pronome e un antecedente o un nome, ci si affaccia subito su un vasto orizzonte di complessità. Alle questioni tradizionali - come quelle citate - sono connessi, inoltre, una serie di paradossi. Uno è quello per cui sembra di essere costretti a creare sistemi di regole estremamente intricati e complessi, in parte condivisi dalle varie lingue, e in parte differenti da lingua a lingua. I tentativi comunque di affrontare gli interrogativi connessi al 'problema di Platone', di come si faccia ad acquisire il sapere, solo nel corso degli ultimi quarant'anni sono andati avanti seguendo un percorso naturale e abbastanza proficuo, cioè secondo un'idea di base che era quella di cercare di dimostrare che le regole semplici erano quelle veramente giuste. Lo sforzo è consistito nel mostrare l'esistenza di una regola elementare e di una semplice relazione strutturale tra i vari fattori, che sono universali e fissati in modo semplice nella natura del linguaggio, per cui questi interagiscono in svariate maniere in modo da rendere il ventaglio delle complessità fenomeniche. Questo, si dimostrò un programma di ricerca molto proficuo, col quale si proseguì per circa venticinque anni in modo attivo, su una varietà crescente di lingue, a partire dagli anni '50. Attorno al 1980, questo indirizzo giunse a una sorta di punto di svolta evidenziando un nuovo quadro che indicava una rottura davvero radicale rispetto alla tradizione dei duemila e cinquecento anni precedenti.
Secondo questi nuovi orientamenti quali erano gli elementi innati e quali quelli da acquisire nell'apprendimento del linguaggio?
I bambini possiedono già disponibili i concetti, come parte della loro natura interna e, pur con una quantità limitata di esperienza, sono in grado di legare questi concetti con suoni particolari. Essi, nei periodi di più intenso apprendimento acquisiscono circa dieci nuove parole al giorno nel loro ambiente; il che significa che stanno acquisendo parole sulla base di una singola esposizione e che perciò alla base devono già avere fissi il concetto e la struttura sonora. Ciò che invece imparano è il legare le due cose tra loro, acquisiscono cioè il legame tra concetto e struttura sonora. C'è un aspetto per il quale le lingue variano ma, al di fuori di questo aspetto, sembra che le loro variazioni esistano soltanto nei tratti periferici delle parti non sostantive del lessico.
Quali sono propriamente gli aspetti del significato per cui le lingue differiscono e quelli per i quali invece si assomigliano
Come per i
sistemi computazionali, le diverse lingue non differiscono affatto, se non per
alcune variazioni marginali, come per esempio il caso delle parole
'house' e 'home' in inglese. Per spostare una
'house' da New York a Boston è necessario spostare un oggetto fisico,
mentre per spostare una 'home' non c'è affatto bisogno di spostare
alcun oggetto fisico, pur essendo anche 'home', in inglese, un
oggetto fisico. La differenza tra 'house' e 'home' è una
differenza che il bambino deve acquisire. In altre lingue l'equivalente della
parola 'home' è di fatto un avverbio, come nel caso del francese
'chez moi' o come nel caso dell'italiano, 'vado a casa'
dove, in quest'espressione, all'oggetto concreto viene data un'interpretazione
astratta.
Nella lingua, secondo il concetto saussuriano di arbitrarietà, Z3:0
'house' può avere un certo suono in inglese e un diverso suono nella
lingua vicina e le strutture sonore possono variare in un certo margine. Le
parole possono essere imparate molto rapidamente, perché essenzialmente esse
sono già note mentre la sola cosa che va conosciuta è come i concetti si legano
ai suoni e il modo di sistemare il ventaglio di variazioni esistenti, per
quanto ridotto. Posto dunque che il sistema computazionale è fissato e la
variazione pare essere così come essa si manifesta nella sua articolazione in
suoni e posto che anche nella mente le cose paiono procedere nello stesso modo
è possibile, partendo da queste premesse, affrontare quello che è stato
definito 'il problema di Platone' che è lo stesso problema sollevato
da Humboldt. A questa domanda si risponde essenzialmente con la natura del
sistema computazionale che ha precisamente la proprietà di generare una serie
illimitata di pensieri che possono essere espressi con un meccanismo finito.
Al problema posto da Cartesio circa la creatività dell'uso linguistico è più
difficile rispondere. E' possibile, infatti, parlare del tempo, di ciò che si
mangia a cena e di qualsiasi cosa senza che ci sia nulla nello stato interno di
chi parla che possa determinare ciò che si sta per dire. Da ciò deriva un
comportamento fondamentalmente libero e non casuale appropriato però alle
situazioni. Un comportamento tale da evocare nelle menti di chi ascolta
pensieri che egli, prima di allora, non avrebbe mai avuto ma che può adesso
pensare e che avrebbe potuto esprimere nello stesso modo. Per Cartesio questa
collezione di proprietà diventò l'indicazione dell'esistenza di una mente
distinta da un meccanismo. La domanda su come ciò sia possibile resta oggi
misteriosa quanto allora e si può semplicemente osservare che queste sono le
proprietà di cui evidentemente gode il linguaggio. Per il momento, rimane
ancora un mistero il modo in cui un meccanismo biologico possa avere simili
proprietà.
In conclusione, riporto un breve aneddoto che Chomsky solitamente utilizza al fine di testimoniare quel fondamento biologico di strutture innate da lui postulato.
" Thomas Macaulay, il Lord inglese ottocentesco noto come storico e politico, a differenza di ogni bambino, che impara gradatamente a parlare, nella sua infanzia era stato sempre zitto a causa di una timidezza patologica. Sino a quando, un bel giorno,un'ospite maldestra gli rovesciò addosso un tè bollente. Di fronte alle ansiose scuse della signora il piccolo pronunciò le prime parole della sua vita in un elegante inglese: "Grazie signora, l'atroce dolore si è alquanto placato".
Non soltanto è possibile spiegare il mistero della facilità di apprendimento nei bambini, ma si può persino ammettere qualcosa che sembra impossibile, cioè che un bambino sappia parlare prima ancora di aver mai aperto bocca.
Riferimenti bibliografici
Bianchi Adele, di Giovanni Parisio [1997] "Psiche e Società", Paravia
Cantoni Lorenzo, di Blas Nicoletta [2002] "Teoria e pratiche della comunicazione", Apogeo Editore
Chomsky Noam,[ristampa 2009] "Regole e rappresentazioni", BCDeditori
Cavalieri Rosalia [2009] "Breve introduzione alla biologia del linguaggio", Editori Riuniti, university press
Denes Gianfranco [2009] "Le basi neurologiche e la struttura del linguaggio", Zanichelli
Emanuele Pietro [2007] "I cento talleri di Kant", Mondolibri
Lo Piparo Franco [2003] "Aristotele e il linguaggio", Laterza
Rivista "Focus" gennaio 2007, giugno 2007
Siti Internet:
https://it.encarta.msn.comtext_981535953__0/Filosofia_del_linguaggio.html
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