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L'Età del Positivismo: il Classicismo e Carducci




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L'Età del Positivismo: il Classicismo e Carducci



Il nuovo ritorno ai classici



All'insofferenza per il tardo romanticismo di Aleardi e Prati si ricol­lega, insieme a quella della Scapigliatura e del Verismo, una terza corrente, la quale caratterizza, a sua volta, una parte della letteratura italiana della seconda metà dell'Ottocento, e che, genericamente, può essere considerata un ritorno ad una restaurazione della tradizione classica.

In qualche caso si tratta solo di una sopravvivenza di gusto e di atteggiamenti connessi alla tradizione umanistico-accademica, come è dato riscontrare nel gruppo di poeti che costituiscono la cosiddetta « scuola romana » dei fratelli Maccari; in altri, come Zanella, tale ritorno non astrae dai problemi e dai temi della cultura del tempo ed assume un aspetto prevalentemente formale; in altri ancora, come per Carducci, la protesta antiromantica acquista il significato di vigoroso tentativo restauratore della dignità e della disciplina artistica, ed assolve intenzionalmente, ricorrendo all'immagine del poeta-vate, alla funzione di rappresentare la cultura « ufficiale » della terza Italia.

Con la poesia carducciana questo rinnovato amore della classicità e della tradizione cessa di essere un puro e semplice ideale letterario: muovendo da una reazione, tanto al sentimentalismo degli ultimi romantici, quanto alla forma sciatta e prosastica degli Scapigliati, il classicismo carducciano non si limita ad una rinobilitazione della forma, del tono e della tecnica del linguaggio poetico, ma raccoglie ed accosta il contenuto nuovo della dottrina positivista al contenuto dei versi dei più grandi poeti greci, latini, italiani, maestri di stile, ma anche di una umanità vigorosa ed in armonia con la natura e con il mondo, così da trasformarsi, dopo un primo periodo fortemente polemico, ed un altro dominato dalla satira e dall' invettiva in un classicismo conciliatore della realtà presente e della tradizione.



Occorre ricordare che nello stesso periodo, in Francia, si assiste ad un analogo ritorno al classicismo, anche se con modalità e finalità diverse.

Alla generazione di poeti impegnati (Hugo ecc.) si contrappone una generazione di poeti che respingono qualsiasi forma di impegno, difendono l'autonomia dell'arte anche nei confronti della morale e della politica.

Da Théophile Gautier (1811-1872) e la scuola dell''arte per l'arte' deriva il «parnasse» (1866-1876), che ne radicalizza il discorso formale. Nel clima culturale del periodo, caratterizzato dalla crisi del gusto tardo- romantico e dal progressivo affermarsi della mentalità positivista, i parnassiani coltivarono un ideale di poesia emotivamente impassibile, formalmente impeccabile.

Essi  pubblicarono i loro testi poetici in tre raccolte dal comune titolo, Il Parnasso contemporaneo (Le Parnasse contemporain, 1866, 1871 e 1876): il nome deriva dal monte sacro a Apollo e alle Muse, e evocava la superiore serenità e la preziosità del lavoro artistico.

I poeti parnassiani si richiamarono agli esempi del classicismo del XVI e XVII secolo, del neoclassicismo del XVIII secolo, e ad alcuni aspetti della poesia tardo-romanticista di Banville, Gautier, Baudelaire, considerando soprattutto Leconte de Lisle come il loro maestro.

Vi si riconobbero, provvisoriamente, poeti diversi tra loro come René Sully Prudhomme, fino a Mallarmé.

Questa eterogeneità portò alla rapida dissoluzione del movimento, ufficialmente provocata dal rifiuto di pubblicazione nella raccolta del 1876 del 'Pomeriggio di un fauno' di Mallarmé.


La frantumazione del movimento in varie direzioni di ricerca fu però anche una delle condizioni della diffusa influenza del parnassianismo sulla poesia europea

Con la nozione parnassiana di autonomia della poesia si confrontarono e scontrarono le successive tendenze poetiche e estetiche.




Giosuè Carducci: la vita



Nato a Valdicastello in Versilia nel 1835 da un medico condotto di senti­menti repubblicani, Giosuè CARDUCCI trascorse la sua prima infanzia à con­tatto con la natura rude e selvaggia della Maremma, e compì gli studi a Firenze, prima, frequentando il collegio degli Scolopi, e poi a Pisa presso la Scuola Normale Superiore.

Conseguita la laurea in lettere iniziò subito il suo inse­gnamento nel ginnasio di San Miniato (1856-57), dove, con alcuni amici, fondò il gruppo degli "Amici pedanti"; nel '57 vinse la cattedra di greco nel liceo di Arezzo, ma la sua nomina non venne convalidata dal governo granducale: tornò quindi a Firenze, e visse stentatamente e lavorando per l'edi­tore Barbera ad una edizione di classici nella collezione « Diamante » ed im­partendo lezioni private.

Caduto il governo granducale fu chiamato al Liceo di Pistoia, e qui lo raggiunse, nel 1860, l'invito del ministro della pubblica istruzione, Terenzio Mamiani, a ricoprire la cattedra di italiano all'Università di Bologna, cattedra rifiutata in precedenza da Prati. Nel frattempo aveva sposato la cugina Elvira Menicucci, e da lei ebbe tre figlie ed un maschio, Dante morto in tenerissima età nel 1870.


Le fasi della sua carriera poetica possono essere distinte in tre momenti, collegate alle vicende storiche e personali:


Il primo periodo del suo magistero universitario (1860-1870) coincide con un ampliamento dei suoi interessi culturali alle grandi letterature europee e con una polemica partecipazione alle vicende della  politica nazionale (Giambi ed epodi).


In un secondo tempo assunse un atteggiamento chiaramente giacobino e libertario, accompagnato da un anticlericalismo che identificava nel misticismo e nell'ascetismo della religione cristiana la negazione della ragione e della vita (Inno a Satana).


Dopo la caduta di Roma, si collocò su posizioni più moderate, si allontanò dal suo generico repubblicanesimo per aderire a monarchia sabauda, e nell'ambito di un vago principio religioso finì per riconoscere la funzione civilizzatrice della Chiesa: è, questo il periodo più felice della sua attività poetica (Rime nuove e Odi barbare).


Nominato senatore nel 1890, continuò il suo insegnamento fino al 1905, quando lo dovette abbandonare per ragioni di salute, e tradusse in versi oratori e celebrativi la sua assunzione, da gran parte dell'opinione pubblica, a poeta-vate della nuova Italia (Rime e ritmi).

Nel 1906 fu insignito del premio Nobel a riconoscimento della sua fama di poeta civile; morì a Bologna nel 1907.

La motivazione del Nobel fu:

'not only in consideration of his deep learning and critical research, but above all as a tribute to the creative energy, freshness of style, and lyrical force which characterize his poetic masterpieces' ["non solo in considerazione della sua profonda ricerca critica e di insegnamento, ma soprattutto come tributo all'energia creativa, freschezza di stile, e forza lirica che caratterizzano i suoi capolavori poetici"]





Poetica di Carducci



L'antiromanticismo di Carducci non è solo di natura letteraria, ma abbracciò una vera e propria concezione della vita e della politica:


egli intendeva combattere ogni mediocrità di vita ed ogni forma di morboso e vago sentimentalismo

contrapporre, alle incertezze ed alle caute perplessità di una politica incapace di rinnovare radicalmente il costume della vita italiana, l'immagine ideale di una patria assurta a nuova grandezza, in un rinno­vato magistero di giustizia e di civiltà;

risollevare la letteratura, da quello che egli considerava modesto livello di cronaca e di indagine sperimentale alla primitiva eccellenza fra tutte le più nobili attività dello spirito, vagheggiando un'arte che dalla vita traesse ispirazione ma che di essa non fosse una semplice trascrizione, che assolvesse la missione di celebrare, esortare, rampo­gnare la nazione in una forma dignitosa e decorosa.


La sua opera fu perciò accolta con entusiasmo, nonostante l'inevitabile opposizione dei manzoniani e dei moderati: il gran pubblico, soprattutto quello dei giovani, vedeva in lui lo strenuo difensore del nostro  glorioso passato, l'ardente sollecitatore di una vita sana e gagliarda, una vera e propria guida spirituale della società italiana in fase di riorganizzazione delle proprie strutture politiche e culturali.

Riportata, a distanza di tempo, nei limiti di una serena ed obiettiva valu­tazione critica, la poesia carducciana ci appare oggi contrassegnata da una complessità di interessi che riflette la stessa complessità del mondo intellettuale, politico, artistico a lui contemporaneo, tanto che le "eterne risse" che si accendono nel suo animo e delle quali egli ci parla in un noto componimento, «non sono una figura né una amplificazione retorica, ma una realtà, prima che poetica, biografica e culturale» (G. B. Salinari).


Vediamo come si pone Carducci, relativamente al suo tempo, nei confronti del Romanticismo, ma anche del Verismo.


Atteggiatosi a «scudiero dei classici », avversò il Romanticismo quale pro­dotto di un pedissequa imitazione straniera e reputò che il rinnovamento delle nostre lettere avesse a compiersi in un ambito esclusivamente nazionale, additando nei grandi scrittori e poeti dell'ultimo Settecento e del primo Otto­cento, ad esclusione di Manzoni perché romantico, i maestri e gli ispiratori di una nuova letteratura.

Eppure, nonostante le sue posizioni, si riscontrano nella sua poetica numerosi elementi romantici che lo avvicinano a Manzoni (questo si spiega per il fatto che Carducci conosce il Romanticismo attraverso i suoi epigoni, il Secondo romanticismo, i manzoniani, quindi ne conosce in qualche modo gli aspetti più esasperati: manca a lui, come a molti altri, una lucida visione critica del movimento romantico).

Non è difficile, infatti, far risalire al realismo storico manzoniano la sua concezione della poesia come rappresentazione della vita, o l'amore incondizionato della libertà e della giustizia, la sofferta intuizione della discordanza tra ideale e reale, l'amore per l'evocazione storica, il lirico presenti­mento dell'eterno fluire e svanire dell'esistenza umana .


Nel verismo intravide la mortificazione delle facoltà inventive e ne condannò quella che, a suo giudizio, era tendenza esasperata all'analisi ed al descrittivismo; e pure da esso derivò il senso della concretezza e a necessità i una rappresentazione            oggettiva di uomini, cose e eventi.



Contrario a ogni forma i influenza straniera, sentì lo stimolo, sia pure in un secondo momento, ad accostarsi agli storici francesi (Quinet, Michelet) ed ai maggiori poeti d'oltr'alpe (Hugo, Shelley, Heine, Platen).

Nel suo pensiero politico si alternano l'accesa pas­sione unitaria e l'ondeggiamento tra monarchia e repubblica, il giacobinismo e l'anarchia libertaria; nella sua arte, accanto ai prevalenti atteggiamenti clas­sicistici, è dato ritrovare più di una venatura simbolista, parnassiana e decadente; nella critica letteraria, la tradizione umanistica è affiancata dalla pre­senza di un Sainte-Beuve, di un De Sanctis, di un Taine.


Tutte queste antinomie sono rivissute dal Carducci in maniera appassionata e personale, con lo spirito del positivista che adegua gli alti ideali alla realtà presente, ma con la vocazione del poeta sensibile ad ogni evento esterno, ad ogni ideologia del tempo in cui vive e pronto ad assolvere, come nelle età primitive, il compito di condottiero, di legislatore, di oratore, di sacerdote.


Traducendo la tristezza derivante dallo scontro dell'ideale con la realtà nel virile proposito di affrontare con maggiore coraggio e con maggiore audacia la vita; improntando la sua arte al culto della bellezza intesa come sanità spirituale, al culto della patria interpretato come fede nell'avvenire sulle orme del passato, al culto della natura trasfigurata in fonte inesausta di energie morali, egli accentrava in sé le aspirazioni ma anche le contraddi­zioni politico-sociali-culturali della sua età, e ne divenne il poeta più rappresentativo. Da qui la sua grande fortuna.


Naturalmente mancano a Carducci le profonde meditazioni sull'esistenza che caratterizzano il Romanticismo, quindi possiamo riscontrare nella sua poetica elementi romantici, così come elementi veristi, ma non possiamo collocarlo in nessuna delle due tendenze.












Opere



I sei libri nei quali il Carducci raccolse ed ordinò la propria vasta pro­duzione poetica ci offrono il migliore schema evolutivo della sua arte, dal momento in cui essa è ancora sopraffatta dall'urgenza polemica, al momento in cui, liberatasi dal peso di una cultura disordinata ed in gran parte esterna, raggiunge la sua più originale e personale espressione.



Poesia di scuola è quella dei Juvenilia: essa ostenta vistosamente il culto di una forma ricalcata sui modelli latini ed italiani, da Lucrezio Virgilio Orazio agli stilnovisti, ai rimatori cinquecenteschi, ad Alfieri, a Parini, a Foscolo, a Leopardi; le continue reminiscenze d'ordine letterario e la grande varietà di temi fanno sì che solo fuggevolmente ed episodicamente vi si possa parlare di arte.


Nei Levia gravia, al letterato succede l'uomo politico, deluso ed amareg­giato di fronte agli avvenimenti di un decennio non certo fortunato per la patria, che avverte pietà per le miserie del popolo e sdegno per le classi economicamente fortunate che l'opprimono: l'aderenza ad una materia tanto viva non è però profonda. Le uniche liriche a fare spicco sono Dopo Aspro­monte e Poeti di parte bianca: nella prima, nonostante espressione disordinata, appare un Carducci già pronto a diventare il cantore di un evento importante, quale era la risoluzione della questione romana; nella seconda, con il discorso di Sennuccio ad un gruppo di esuli fiorentini nel castello di Franceschino Malaspina, mentre fuori infuria il temporale, si ha un primo esempio di rievocazione storica ed un intenso quadro di vita medievale.


Segna il passaggio dalla poesia riflessa delle rime due raccolte, alla poe­sia di passione e            di battaglia di quella successiva l'Inno a Satana (1863), con cui Carducci, abbandonandosi al proprio temperamento, trova il contatto con la realtà, ed innalza un inno alla vita forte e ma contro l'inerzia ascetica e romantica, celebra le conquiste del pensiero umano e del progresso, esalta lo spirito di emancipazione insito in ogni tempo nella figura dell'angelo ribelle.


Con i Giambi ed epodi Carducci muove guerra alla « guasta età », all'Italia ufficiale alle classi dirigenti, al partito dei moderati, al potere temporale del papato: l'asprezza della polemica, intessuta di satira, di sarcasmo, impedisce il distacco dalla materia, necessario per a giungere alla vera poesia, ma gli consente di giungere all'espressione concreta, all'immagine precisa e scolpita. Quando l'asprezza cade, o si attutisce nella contemplazione diretta di un avvenimento o di un paesaggio, il verso si fa più intimo, più meditato, e raggiunge migliori esiti artistici, sia che ne Agli amici della Valle Tiberina, evochi la vita storica di una regione italiana, sia che in Avanti! Avanti! tratteggi un affresco solenne della maremma toscana, dal quale affiorano commossi ricordi dell'adolescenza.

I Giambi ed epodi si chiudono con Intermezzo, un lungo componimento diviso in più parti, il cui punto di partenza è la polemica letteraria, inframezzata da nostalgici ricordi della terra-natale, contro il sentimentalismo ed il soggettivismo romantico, ed il cui punto di arrivo sono le immagini di pura ed immobile bellezza che scaturiscono dalla « antichità serena » della Grecia, alla quale il poeta chiede « i marmi ed i carmi ».


Dal rasserenamento dell'ispirazione in questa placata contemplazione della bellezza prendono avvio le Rime nuove, la più ampia delle raccolte, quella in cui all'artista, compiaciuto della sua bravura stilistica, ed al fustigatore della nazione subentra il poeta che, divenuto uomo e perduta quasi del tutto ogni forma di irruenza e di aggressività, si volge al mondo dei ricordi degli affetti familiari, del mito eroico, della leggenda.        

Ci troviamo effettivamente di fronte ad una poesia nuova,            piena di intimità nella confessione che ai « tumulti» divampanti suo cuore non c'è rimedio se non tornando con il pensiero all'immagine della fiorente creatura che suscitò in lui il primo amore, od alla favola bella narrata dalla nonna Lucia che dorme lassù sotto quegli altri cipressi (Idillio maremmano, Davanti San Guido); ora piena di umanissimo dolore in Funere mersit acerbo ed in Pianto antico; ora permeata dal desi­derio di staccarsi dalla realtà per rifugiarsi in un lontano mondo di bellezza e di serenità classicha (Primavere elleneniche); ora intonata all'epica compostezza della rievocazione storica (Comune rustico, Faida di comune, Su i campi di Marengo).

La tematica di Carducci, arricchitasi di nuovi stimoli umani e letterari dà i suoi risultati più originali, in tre direzioni:


la rievocazione storica, che coincide con la nostalgia per le età eroiche del passato, in particolare per quella romana: il ciclo delle poesie 'romane' delle Odi barbare (Nell'annuale della fondazione di Roma, Dinanzi alle terme di Caracalla, Alla Vittoria, Alle fonti del Clitumno). E per quella medioevale-comunale (Il comune rustico, Faida di comune, Il parlamento);

la poesia di memoria che rievoca una giovinezza energica e appassionata (Idillio maremmano, Davanti San Guido, Nostalgia, San Martino);

il senso della morte, intesa come privazione di forza e di luce (Funere mersit acerbo, Pianto antico).


E presente ovunque è la natura e il paesaggio: sono le «colline con le nebbie sfumanti », le «lunghe al vento sussurranti file i di pioppi », i cipressi che cantano i cori « che vanno eterni fra la terra e il cielo », i campi arati di fresco, il mare sparso di vele, le ombre cristalline del mattino; è come se il poeta abbia tratto dalla sua tavolozza i colori più luminosi e più suggestivi per affrescare quelli che riescono tra i più ariosi quadri di natura di cui egli ci abbia fatto dono (San Martino, Traversando la Maremma toscana, Il bove, Virgilio, Santa Maria degli Angeli).

Del mutato atteggiamento del suo spirito ci dà conferma Carducci stesso nel Congedo, delineando la figura del poeta:


«grande artiere » che getta nel fuoco della sua officina gli elementi dell'amore e del pensiero, le memorie proprie e le glorie patrie, il passato e l'avvenire del mondo, e chiede solo per sé la gloria di lanciare uno strale d'oro contro il sole per carpirgli un po' della sua luce.


I motivi che hanno dato vita alle Rime nuove sono sostanzialmente stessi delle Odi barbare, così denominate per il tentativo di adattare al verso italiano, accentuativo, alla metrica quantitativa dei greci e dei latini, tentativo che ad un poeta classico sarebbe parso opera di un "barbaro", cioè di uno straniero.

Il  ritorno all'Ellade ed alla Roma antica è qui più accentuato, ma non diverso, quanto a sensibilità, dal ritorno al vago mondo della fanciullezza che abbiamo trovato nella raccolta precedente: entrambi si traducono in stu­pore e malinconia per il rapido fluire degli anni e per il morire di ogni cosa, e sempre si tramutano in uno stimolo efficace, o a tenersi strettamente attac­cati alla vita (Monte Mario), od a ricollegare il tempo presente con l'antico ripercorrendo la storia della nostra gente, dai gloriosi giorni di Roma (Nell'an­nuale della fondazione di Roma, Dinanzi alle terme di Caracalla, Alla Vittoria, Alle fonti del Clitumno) al Medioevo (Nella piazza di San Petronio) alla sua età (Per la morte di Eugenio Bonaparte, Scoglio di Quarto, Saluto italico, Miramare).

Questa evocazione storica che raggiunge il suo più alto pathos lirico nella Canzone di Legnano, può essere talvolta impacciata da sopravvivenze letterarie ed artificiosità, come quella di una Nemesi Giustiziera che sta a mezzo tra il fato pagano e l'espiazione cristiana, ma risponde sempre alle alte idealità civili in nome delle quali il poeta sente di dover combattere per l'avvenire d'Italia.


La grandezza della personalità artistica del Carducci si manifesta più chiaramente nelle odi vibranti di spiriti « naturalistici » (Fuori della Certosa di Bologna, Canto di marzo): qui è la celebrazione di un universo pervaso di fremiti di vita, l'esaltazione di una umanità che ama e si rinnova continuamente, l'incitamento a partecipare con il lavoro, il sogno e l'ideale, alla primavera della natura: « ciò che fu torna e tornerà nei secoli ».

Nota in­tima e genuina è anche quella che scaturisce dal ricorrente pensiero della morte (Nevicata, Mors, Su Monte Mario) e dai temi del tedio e della malinconia, ai quali è da ricondurre Alla stazione in una mattina d'autunno, che per il senso di disfacimento e per il realismo di taluni particolari può essere consi­derata una delle espressioni più nuove della poesia carducciana.


Questi ultimi temi si fanno più frequenti in Rime e ritmi: è pur vero che parte di quest'ultima raccolta è ancora occupata dalla declamatoria celebra­zione delle gesta del Risorgimento (Cadore, Piemonte) e della civiltà del Rina­scimento (Alla città di Ferrara), ma, accanto a questi, vi sono componimenti di singolare modernità per la freschezza di immagini e per la leggerezza sfu­mata della parola, quasi che la vecchiaia abbia indotto il poeta a ripiegarsi su di sé ed a contemplare il tramonto della propria esistenza (Nel chiostro del Santo, Presso una certosa, Mezzogiorno alpino, L'ostessa di Gaby).



In assenza di opere narrative (è nota l'avver­sione dell'erede della tradizione aulica a questo genere letterario, da lui con­siderato forma inferiore e popolare d'arte), la validità e le caratteristiche della prosa di Carducci sono da ricercare negli scritti critici, nei discorsi letterari e politici, soprattutto nell'amplissima raccolta di Lettere (una ventina di Volumi).

L'opera critica si ricollega all'attività instancabile del magistero universitario, e poggia su due indirizzi fondamentali:

conoscenza dei temi e del­l'ambiente

conoscenza delle forme con le quali l'opera d'arte si estrinseca (struttura, tecnica,  metro, lingua).

Privo di una salda dottrina estetica e di una profonda capacità i speculazione filosofica, elementi indispensabili a chi si accinga a delineare un vasto panorama del mondo letterario di una na­zione, Carducci è un poeta che giudica gli altri poeti, che con la propria sensibili à artistica valuta la sensibilità di questo o quell'altro scrittore, che coglie con sicurezza quanto in un testo poetico vi è di spontaneo e quanto di artefatto o di dilettantistico o di approssimativo. Esemplari, sotto questo aspetto, gli studi sul Parini maggiore e Parini minore, sulla lirica del Settecento, ed il commento al Petrarca, così come esemplare, per l'esplorazione storica di un ambiente letterario, la monografia Ludovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara.

La letterarietà, anzi che storicità, di gran parte delle pagine critiche car­ducciane è convalidata da una prosa originalissima, che a volte sente il disagio della contemporanea presenza del lirismo e del ragionamento, a volte avverte

Quando ubbidisce all'impulso interiore, sollecitato dallo sdegno o dalla speranza, dall'esigenza di dare forma alle vi­sioni storiche o colore agli affreschi paesistici che ricorrono frequentemente nelle pagine a carattere autobiografico, essa assume la modulazione armo­niosa e suggestiva della prosa d'arte del Novecento. Tale è la prosa delle pagine introduttive al saggio A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Man­zoni, ma soprattutto tale è la prosa del vastissimo Epistolario, fonte preziosa di memorie, di evo­cazioni, di particolari paesaggistici, di notizie attinenti la vita e le opere di Carducci. Si segnalano, fra tutte, le lettere a Lidia, calde di passione, di malinconica nostalgia, di disperata solitudine: in alcune di esse ci troviamo di fronte ad un vero e proprio testo poetico.







Selezione Antologica


Da Rime nuove


Traversando la Maremma Toscana


Dolce paese, onde portai conforme
L'abito fiero e lo sdegnoso canto
E il petto ov'odio e amor mai non s'addorme,
Pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.


Ben riconosco in te le usate forme
Con gli occhi incerti tra 'l sorriso e il pianto, 
E in quelle seguo de' miei sogni l'orme 
Erranti dietro il giovenile incanto.


Oh, quel che amai, quel che sognai, fu invano;
E sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
E dimani cadrò. Ma di lontano


Pace dicono al cuor le tue colline
Con le nebbie sfumanti e il verde piano
Ridente ne le pioggie mattutine.  





San Martino  [1]           


La nebbia agli irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
urla e biancheggia il mare;


Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de' tini
Va l'aspro odor de i vini
L'anime a rallegrar.




Gira su' ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l'uscio a rimirar


Tra le rossastre nubi
Stormi d'uccelli neri,
Com'esuli pensieri,
Nel vespero migrar.



Pianto Antico[2]



L'albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
dà bei vermigli fior,


nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.


Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l'inutil vita
estremo unico fior,


sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
nè il sol più ti rallegra
nè ti risveglia amor.





Odicina

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