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Le "Metamorfosi" Di Ovidio
"Metamorfosi" è un vasto poema di Ovidio in 15 libri di 12000 esametri che racconta più di duecento storie di trasformazioni, i cui protagonisti sono celebri personaggi del mito. Il lettore finisce quasi per perdersi in un labirinto di storie che si incastrano l'una nell'altra e sono tenute insieme dal filo della trasformazione subìta dai protagonisti. Ci sono esseri viventi che si trasformano in animali, altri che si mutano in piante o in fiori, in fiumi o in fonti; ci sono statue che si animano e persone che diventano statue o sassi, come Niobe; formiche che si trasformano in uomini, guerrieri che nascono dalla terra e via dicendo in un mare di racconti che sembra senza fine. Da qui la sensazione di un universo in perenne cambiamento nel quale una segreta parentela accomuna tutti gli esseri, tanto che la metamorfosi ci appare come un processo che segue l'ordine naturale delle cose. Il poeta comincia la sua narrazione dalla creazione dell'universo che emerge dal caos informe, trasformandosi gradualmente in cosmo, ovvero in ordine, per passare poi alle prime fasi del genere umano, scomparso in seguito al diluvio e rigenerato dalle pietre che Deucalione e Pirra si gettano dietro le spalle, e, di mito in mito, giunge fino alle soglie della storia romana per concludere la sua narrazione con la divinizzazione di Cesare.
Numerose possono essere considerate le 'fonti' ovidiane: raccolte di miti circolavano in repertori che Ovidio deve aver certamente conosciuto; il tema della trasformazione era poi caro alla letteratura alessandrina (basti pensare a Callimaco e a Eratostene, e poi alle 'Trasformazioni' di Nicandro di Colofone e di Partenio di Nicea), ma era stato trattato pure nel mondo latino da Emilio Macro e, occasionalmente, dai neoteroi, da Catullo e da Virgilio (nella poesia omerica era poi il modello di ogni trasformazione: quella, operata dalla maga Circe, dei compagni di Ulisse in porci).
E tuttavia nuovo è il risultato dell'operazione ovidiana, che si sviluppa all'insegna della più fervida e colorita fantasia, con uno stile e un metro (un esametro insuperabile per musicalità) che con la loro sapientissima 'facilità' sembrano mirabilmente accompagnare la perpetua vicenda delle mutazioni e l'illusorietà delle forme, soggette a continui cambiamenti, in una continuità quasi organica che lega l'uomo alla natura.
Della trasformazione, Ovidio evidenzia sapientemente ora il carattere repentino ora, ancor più, la lentezza graduale, il persistere talora sofferto dell'antica natura nella nuova. Dell'essere umano, che si trasforma in essere arboreo o inanimato, il poeta avverte l'intimo dolore, la coscienza di divenire altro in una trasmutazione che sembra investire le radici stesse dell'universo. In alcuni casi, il brillante gioco delle superfici s'accompagna a una sensibilità inquieta di creature tormentate, che trovano nel trasformarsi l'unica via d'uscita a una situazione impossibile, a una passione assurda: nel divenire altra cosa rispetto a una realtà divenuta umanamente intollerabile, esse ritrovano finalmente il loro riscatto.
Accanto al mito, l'amore è l'altro grande tema del poema, un amore che conosce un'ampia gamma di modulazioni, dalla passione malata, all'incantamento, alla dedizione generosa, alla fedeltà coniugale: vivido esempio quello di Alcione e Ceice, che solo grazie alla loro trasformazione in uccelli potranno perpetuare per sempre il loro amore coniugale, così come solo la trasformazione in alberi unirà in un vincolo eterno Filemone e Bauci; e in albero d'alloro si trasforma Dafne, la ninfa che Apollo pur continuerà ad amare. Quest'ultimo mito racconta infatti che dopo aver ucciso il serpente Pitone, Apollo si sentì particolarmente fiero di sé, perciò si vantò della sua impresa con Cupido, dio dell'Amore, sorridendo del fatto che anche lui portasse arco e frecce, ed affermando che quelle non sembravano armi adatte a lui. Cupido indignato, decise allora di vendicarsi: colpì il dio con la freccia d'oro che faceva innamorare, e la ninfa, di cui sapeva che Apollo si sarebbe invaghito, con la freccia di piombo che faceva rifuggire l'amore, per dimostrare al dio di cosa fosse capace il suo arco. Apollo, non appena vide la ninfa chiamata Dafne, figlia del dio-fiume Peneo, se ne innamorò. Tuttavia, se già prima la fanciulla aveva rifiutato l'amore, dedicandosi piuttosto alla caccia come seguace di Diana, essendo stata colpita dalla freccia di piombo di Cupido, quando vide il dio, cominciò a fuggire. Apollo iniziò allora ad inseguirla, elencandole i suoi poteri per convincerla a fermarsi, ma la ninfa continuò a correre, finché, ormai quasi sfinita, non giunse presso il fiume Peneo, e chiese al padre di aiutarla facendo dissolvere la sua forma. Dafne si trasformò così in albero d'alloro prima che il dio riuscisse ad averla, egli, tuttavia, decise di rendere questa pianta sempreverde e di considerarla a lui sacra: con questa avrebbe ornato la sua chioma, la cetra e la faretra; ed inoltre, d'alloro sarebbero stati incoronati in seguito i vincitori e i condottieri.
vix prece finita torpor gravis occupat artus, . ancora prega, che un torpore profondo
pervade le sue membra,
mollia cinguntur tenui praecordia libro, il petto morbido si fascia di fibre sottili,
in frondem crines, in ramos bracchia crescunt, i capelli si allungano in
fronde,le braccia in rami;
pes modo tam velox pigris radicibus haeret, i piedi, cosi veloci un
tempo,s'inchiodano in pigre radici,
ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa. Il volto svanisce in una
chioma:solo il suo splendore conserva.
Hanc quoque Phoebus amat positaque in stipite dextra Anche così Febo l'ama e,poggiata la mano sul
tronco,
sentit adhuc trepidare novo sub cortice pectus sente ancora trepidare il petto
sotto quella nuova corteccia
conplexusque suis ramos ut membra lacertis e, stringendo fra le braccia i
suoi rami come un corpo,
oscula dat ligno; refugit tamen oscula lignum. ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci
ancora si sottrae.
cui deus 'at, quoniam coniunx mea non potes esse, E allora il dio: "se non puoi essere la
mia sposa,
arbor eris certe' dixit 'mea! semper habebunt sarai almeno la mia pianta. E di
te sempre si orneranno,
te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae; o alloro, i miei capelli, la mia cetra,
la faretra;
tu ducibus Latiis aderis, cum laeta Triumphum e il capo dei condottieri latini,
quando una voce esultante
vox canet et visent longas Capitolia pompas; intonerà il trionfo e il
Campidoglio vedrà fluire i cortei.
postibus Augustis eadem fidissima custos Fedelissimo custode della
porta d'Augusto,
ante fores stabis mediamque tuebere quercum, starai appeso ai suoi battenti per
difendere la quercia in mezzo.
utque meum intonsis caput est iuvenale capillis, E come il mio capo si mantiene giovane
con la chioma intonsa,
tu quoque perpetuos semper gere frondis honores!' anche tu porterai il vanto perpetuo delle
fronde!".
finierat Paean: factis modo laurea ramis Qui Febo tacque; e l'alloro
annuì con i suoi rami
adnuit utque caput visa est agitasse cacumen. appena spuntati e
agitò la cima, quasi assentisse col capo.
Strani,
questi amori delle 'Metamorfosi', spesso impossibili: di Eco,
innamorata di Narciso, non resterà che una voce, ma anche Narciso, invaghito di
se stesso sino a lasciarsi morire, si ridurrà a un fiore. Narciso era un
giovane così bello che tutti, uomini e donne, s'innamoravano di lui; egli però
non se ne curava, anzi preferiva passare le giornate in solitudine, cacciando.
Tra le sue spasimanti
Publio Ovidio Nasone, poeta latino vissuto nel I secolo
a.C. Nato a Sulmona nel
Appunti su: le metamorfosi di ovidio riassunto, dafne@pedagogiait mail, https:wwwappuntimaniacomumanisticheletteratura-italianole-metamorfosi-di-ovidio55php, trasformaxione ninfa eco, dal caos al cosmo riassunto ovidio, |
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