L'Arcadia
Cristina di Svezia, mecenate, costituì l'Accademia Reale a Roma, dove
le forze dei moti riformatori si incontrano per dibattiti; Cristina morì nel
1689, e l'Accademia si sciolse, ma l'anno seguente, alcuni dei suoi membri
danno vita all'Arcadia, un accademia fondata con un complesso di norme e di
riti: ogni accademico prese un nome da pastore greco; il presidente ebbe
l'appellativo di custode; il luogo di riunione venne battezzato Bosco Parrasio;
l'archivio Serbatoio; Cristina di Svezia fu nominata Basilissa e Gesù Bambino
protettore; le sedi accademiche costituitesi fuori di Roma vennero chiamate
latinamente colonie. Al di là del cerimoniale ben altro è il significato
storico dell'Arcadia. Essa fu la prima accademia italiana a carattere nazionale,
e dominò il gusto poetico per quasi mezzo secolo. Non che li arcadi fossero
tutti concordi sul modo d'intendere la poesia; ma comune fu la volontà di
opporsi al "cattivo gusto" e all'ampollosità del barocco, comune il bisogno di
ritrovare un linguaggio semplice e spontaneo, che rispondesse in poesia
all'esigenza di chiarezza e naturalezza diffusasi in tutta Europa attraverso i
principi del razionalismo cartesiano. Fin da principio, nella vita
dell'Accademia, si profilarono due opposte tendenze: l'una rappresentata da
Gravina (il legislatore dell'Arcadia), fautore di un classicismo integrale e di
una poetica "mitico-didascalica" che doveva scegliere i modelli tra i greci
antichi e in Dante, più solenne e tradizionalista; l'altra da Crescimbeni
(primo custode dell'Arcadia), che insisteva invece sull'opportunità di
ricollegarsi al petrarchismo cinquecentesco e all'anacreontismo di Chiabrera,
per elaborare una poetica idillica centrata all'eleganza, alla gradevolezza,
alla definizione dei toni che non al contenuto e al suo valore
didascalico. Il contrasto tra le due
posizioni portò allo scisma del 1711 e alla fondazione di una seconda Arcadia,
trasformata poi in Accademia dei Quirini, nella quale si raccolse il gruppo graviniano.
Prevalse il programma di Crescimbeni, più superficiale e limitato, ma proprio
per questo meglio rispondente alle moderate aspirazioni di rinnovamento della
cultura media del tempo, anche se si possono intravedere elementi di continuità
con il Barocco.
GIAN VINCENZO GRAVINA - La poesia ha per
proprio fine l'imitazione, deve quindi rassomigliare il vero; e le invenzioni,
gli artifici e le meraviglie servono a coniugare i due scopi della poesia:
didascalico e edonistico. Riprendere Dante, Omero e Ariosto. A differenza di
Crescimbeni, Gravina sostiene un ritorno ai classici e ai grandi del passato,
che hanno usato l'arte come espressione di verità e veicolo di educazione per i
popoli. Introduce il concetto di verosimiglianza- attraverso il verosimile il
poeta rivela il vero.
LUDOVICO ANTONIO MURATORI - Della perfetta
poesia Italiana; compito del letterato è cercare il giusto equilibrio tra utile
e dilettevole, equilibrio che deve essere vigilato dal buon gusto.