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LA VERITA' DENUNCIA
Anche dal messaggio della ginestra si evince così che l'impegno all'accettazione della Verità si configura in una volontà di denuncia, di dichiarare cioè eroicamente gli aspetti anche più degradati della realtà.
Questo è l'ideale che conduce e guida gli uomini a porsi in posizione contrastiva di fronte, per esempio, alla società loro contemporanea, poiché intendono additarne e condannarne le corruzioni e gli effetti negativi che essa cagiona.
DECIMO GIUNIO GIOVENALE, POETA dell' INDIGNAZIONE
"Quidquid agunt homines, votum, timor, ira, voluptas,
gaudia, discursus, nostri farrago libelli est"
Tutto ciò che fanno gli uomini, desideri, timori, ire,
piaceri, gioie, frenesie, è l'impasto del mio libriccino.
(I, 85-86)
Così, in pochi efficaci versi, Decimo Giunio Giovenale espone l'impegno fondamentale della sua attività di poeta: denunciare i comportamenti deviati della società del suo tempo, da lui ritenuta ormai profondamente ed irrimediabilmente corrotta.
Di Giunio Giovenale abbiamo scarse notizie: nacque probabilmente ad Equino, come si può desumere da un passo della terza satira (v.319), tra il 50 e il 60 d.C.; trasferitosi a Roma forse per esercitare l'attività di avvocato, conobbe la dura vita del cliente, sempre all'affannosa ricerca di qualche potente e facoltoso protettore. Fornito di una buona preparazione retorica, si accostò in età matura all'attività di poeta satirico. Il riferimento al consolato di L.Emilio Iunco (127), presente nella penultima satira (XV, 27), consente di fissare la morte del poeta ad una data, forse solo di poco successiva.
Alcuni rapidi accenni ad avvenimenti databili con una certa precisione consentono di attribuire la composizione dei sedici "Sermones", giuntici integri ad eccezione dell'ultimo che è mutilo, ad un periodo compreso fra il 100 e il 127. Composti in esametri, sono raggruppati in cinque libri, il cui ordine corrisponde, con tutta probabilità, all'ordine di pubblicazione.
A differenza dei poeti satirici suoi predecessori, Giovenale conferisce alla satira una inusitata carica di violenta polemica. La prima satira, che rappresenta il suo manifesto programmatico, si apre con un rabbioso attacco contro la letteratura dei suoi tempi, imbevuta di mitologia e dedita al puro intrattenimento. Tale requisitoria si inserisce nel solco di una ben consolidata tradizione, che va da Lucilio a Persio a Marziale, i quali tutti rimproverano ai racconti mitologici il fatto di essere inverosimili e troppo lontani dalla vita reale.
Giovenale, però, si situa in questa polemica in modo del tutto originale: per trovare avvenimenti straordinari e inverosimili non occorre rivolgersi ai miti, basta osservare la realtà del proprio tempo, che nulla ha da invidiare agli errori della mitologia.
Nella società descritta da Giovenale, dove il vizio non ha alcun limite, tutto appare profondamente stravolto, come in una sorta di mondo alla rovescia. Si tratta, infatti, di una società dove chi commette crimini orrendi si arricchisce a dismisura e chi è onesto patisce la povertà (I, 75), gli uomini sono effeminati, le donne cacciano il cinghiale (I, 22-23) o si allenano da gladiatori (VI, 246.268), gli eunuchi si sposano, gli schiavi umiliano i nati liberi, le imperatrici si prostituiscono (VI, 114 e segg.) e il Senato discute a lungo su come cucinare un pesce enorme.
Proprio la scoperta di questo rovesciamento provoca l' indignatio (lo "sdegno") del poeta: non ci può più essere il sorriso che caratterizzava la satira di Orazio e neppure il desiderio, proprio di Persio, di educare o di correggere i comportamenti umani mettendone in luce i difetti, ma vi è posto solo per la denuncia e il rifiuto di ogni compromesso. Questo sdegno sincero si trasforma in un'ira sempre più violenta, che il poeta cerca di trasmettere ai suoi lettori, concentrandosi in maniera martellante e quasi ossessiva solo su alcuni temi, che ritiene fondamentali.
In primo luogo vi è la condanna dell'eccessiva ricchezza e del denaro, definito efficacemente "obscaena pecunia" ("schifoso denaro", VI, 298), fonte di ogni corruzione: qualsiasi ricchezza infatti è di per sé disonesta in quanto frutto di azioni immorali, se non criminose e, soprattutto, causa di ingiustizia, perché consente comportamenti arroganti a uomini privi di una benché minima qualità.
Al tema della corruzione si riallaccia quello del disprezzo per gli stranieri, gli Orientali in particolare, che, attirati dalla grande ricchezza della capitale, hanno invaso Roma: disprezzo che ritorna insistentemente, tanto da sfociare nella xenofobia e nel razzismo. In questa ottica gli stranieri divengono i capri espiatori della crisi della società: per Giovenale, la loro totale mancanza di scrupoli e il loro desiderio di affermarsi con ogni mezzo, le loro strane religioni dai riti incomprensibili e, per questo, ritenuti ridicoli, la capacità di umiliarsi e di accettare qualsiasi mansione hanno portato al massimo degrado il tessuto sociale, trascinando alla rovina i Romani di modeste condizioni.
Strettamente legate a queste argomentazioni sono le considerazioni sulla clientela, cui Giovenale dedica particolarmente le satire terza e quinta. Il rapporto che lega cliente e patrono risale alle origini della società romana ed è un'istituzione nata per tutelare i cittadini socialmente o economicamente più deboli, perché chi voleva rimanere onesto potesse almeno sopravvivere decorosamente. La corruzione dei costumi che ha fatto cadere quel sentimento di reciproca fiducia su cui si basava il rapporto di clientela, e la spietata concorrenza degli stranieri hanno stravolto l'antica tradizione e hanno, di fatto, portato all'emarginazione dei clienti romani, costretti a farsi da parte.
In questa tetra visione di un mondo diffusamente e disperatamente corrotto non può mancare la requisitoria contro le donne (sesta satira), colpevoli in primo luogo di aver tradito gli antichi costumi. Esse non vogliono più essere sottomesse ai padri e ai mariti, rimanere in casa e vegliare sui figli e sul lavoro dei servi, come voleva la tradizione, ma ambiscono ad avere una vita pubblica, a fare esercizio fisico, a coltivare le arti e la letteratura, a essere padrone del proprio corpo. E Giovenale, con una rabbia spesso cieca che giunge ad esagerazioni paranoiche, ne colpisce i comportamenti, presentando, quasi in una galleria di ritratti deformati, una serie di figure femminili: la colta e saccente, l'amante dell'esercizio fisico, la padrona autoritaria e sadica, la lussuriosa, l'adultera, l'avvelenatrice.
La denuncia della Verità da parte di Giovenale è evidentemente straripante di un acceso moralismo: si intende cioè come la Verità che egli declama sia prettamente sottoposta ad una visione soggettiva. Ciò si deve considerare però è l'atto: se da un lato egli sceglie di "prendere di mira" solo le persone morte, perché esprimersi liberamente può causare l'odio dei potenti e la rovina del poeta, dall'altro egli almeno fa il tentativo di "vitam impendere vero" ovvero sacrificare la vita alla verità.
Per rispettare completamente la regola appena citata il poeta avrebbe dovuto porsi in contrasto anche con "le persone ancora in vita" ed accettare le inevitabili ritorsioni, conseguenze di una polemica lanciata nei loro confronti. Ma la scelta della Verità è proprio per questo un' ambizione temeraria e proprio per questo motivo non è semplice da intraprendere.
Per cui, nel caso di Giovenale si deve ammirare comunque il suo proposito di farsi "unico predicatore della verità in una società degradata e corrotta", poiché anch'egli si fa stendardo del "non oblio": per risanare una società così disgregata infatti Giovenale propone un richiamo ai valori di un passato fortemente idealizzato, che perciò non va dimenticato. Ai raffinati e depravati vizi del presente egli contrappone infatti la serena parsimoniosa rusticità della Roma antica, dove l'uomo contava per le sue virtù e non per il suo denaro.
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