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La scrittura dentro il carcere




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La scrittura dentro il carcere




1 Scrivere in carcere


Nei precedenti capitoli abbiamo analizzato la scrittura autoanalitica con tutte le sue ricchezze e l'istituzione penitenziaria con tutta la sua problematicità; andiamo ora a vedere come possano interagire l'una con l'altra. In modo particolare vogliamo soffermarci su come la scrittura possa nascere tra le mura carcerarie e i risvolti pedagogici di tale esperienza.

Per fare questo ci serviamo direttamente dei testi dei detenuti scrittori e della testimonianza di chi utilizza la scrittura come strumento di formazione e aiuto all'interno del carcere.

Per iniziare chiariamo, attraverso lo stralcio di un intervista fatta a Demetrio, il perché nasce questo bisogno di occuparsi dello scrivere di sé nella condizione drammatica dei luoghi di detenzione: "Non solo perché, nel momento in cui, con la detenzione, l'esperienza della naturalità, della socialità del vivere viene meno, l'individuo inevitabilmente si avvicina a se stesso, ma soprattutto perché, nell'incontro con la scrittura di sé, noi troviamo ciò che costituisce una nostra tecnologia personale di ricostruzione del nostro mondo interiore, di ricostruzione di un tessuto psicologico profondo.

Non c'è altra modalità, credo, per dare alla crescita personale uno sbocco interessante e positivo. Chi scrive di sé, chi scrive diari, chi scrive epistolari con le tecniche più tradizionali, più antiche, più note, si accorge che mette in ordine i propri ricordi, le proprie immagini, le proprie rappresentazioni, i propri passaggi esistenziali."[1]

La scrittura, se si è detenuto in Italia, è in primis il mezzo con il quale è possibile avere le cose: tutto passa per una formale richiesta scritta, nota in gergo come 'domandina'. Tutta la persona passa attraverso un pezzo di carta sul quale viene scritto quello che si vorrebbe, quello di cui si ha necessità. Questo fa sì che la prima, istintiva funzione della scrittura sia quella comunicativa[2]. Dentro le mura del penitenziario si tratta di una comunicazione funzionale al possesso di qualche cosa, al permesso di compiere una determinata azione, quindi il carattere è formale, distaccato, poco autentico. Ben diverso è lo scrivere usato nella corrispondenza con i propri cari, le lettere riescono a mantenere un sottile filo di comunicazione tra il dentro e il fuori, tra un genitore e il proprio figlio, tra un marito ed una moglie: questo tipo di scrittura è densa di sentimenti, emozioni, messaggi importanti.

La funzione comunicativa non deve essere sottovalutata, poiché per chi vive recluso mantenere tale ponte con chi è in libertà è molto importante, fondamentale per sopravvivere alla solitudine, ma soprattutto in previsione del reinserimento nella società e nella propria famiglia.

Studiando più in generale la produzione scritta all'interno delle carceri possiamo trovare non solo lettere, ma anche poesie, racconti, riflessioni, nelle quali la finalità comunicativa è molto forte, ma nelle quali appaiono anche altre necessità più intime, celate.

La prima grande possibilità che offre la scrittura è quella di mettere nero su bianco la propria autoanalisi. I pensieri e le inquietudini vengono prima meditati, poi organizzati sul foglio, così da poter essere letti e ripensati.

Questa è la grande differenza tra lo scrivere e il parlare: come abbiamo già detto, c'è nella scrittura la possibilità di riprendere in mano i propri pensieri, di guardare la propria vita o le proprie domande dal di fuori, avendo la possibilità di fruirne ogni volta che lo si ritiene opportuno, come afferma Adriana Lorenzi: "la parola scritta può essere conservata e quindi ritrovata, annusata, accarezzata ogni volta che si vuole. Può fare compagnia dentro foreste di orrore e di quiete."[3].

Questo assume uno spessore particolare per quanto riguarda le persone ristrette, e il loro percorso verso una nuova consapevolezza di sé: rileggere e accettare la propria scrittura è come accettare la propria storia, cercando di fare ordine in essa, per poterla poi fare accettare anche agli altri.

Il genere di contenuti che possiamo incontrare è molto diverso rispetto a ciò in cui potremmo imbatterci nella vita "libera", nelle celle la scrittura sgorga da un urgenza personale, imprescindibile: non si scrive per compiacere, per assolvere ad un compito o ad un ruolo, ma si tratta di trascrivere tutto quello che attraversa la mente, quello che conduce la penna sul foglio[4]. Per fare questo bisogna possedere una buona dose di coraggio, perché spesso le cose che si scrivono non sono leggeri poemi d'amore o storie inventate, ma è la vita vera, con i suoi errori e le sue sfortune, quella che ha condotto fino alla perdita della libertà, degli affetti, della femminilità, della speranza di un cambiamento.

Ma gli errori e i successi non sono sempre ben distinguibili, come afferma Demetrio "la vita non si da distinguendo nettamente tra il bene e il male, tra il brutto e il bello, tra il giusto e l'ingiusto, ma si da come impasto esistenziale."

La scrittura permette di prendere in mano questo impasto per migliorare e ampliare le prospettive individuali, i rapporti relazionali, e pensare ad un modo differente di essere al mondo; esiste infatti "una dialettica tra la necessità di essere più presenti al mondo e il racconto della propria storicità individuale."[6]

Emerge così un'ulteriore conseguenza allo scrivere, la percezione di esserci veramente. L'individualità delle persone si perde nella burocrazia carceraria, scrivendo, al contrario, si ha la percezione di essere presenti, di agire, di poter dare un senso alla propria esistenza facendo qualcosa per sé.

Proprio questa ricerca di senso muove la penna sul foglio, sviscerando fatti ed emozioni alla ricerca di un perché:

"La mente proietta immagini di vita vissuta.

Rimorsi che ti fanno star male

Rancori che ti aggrovigliano lo stomaco

Un amore perduto

Una parola non detta


Perché mamma?

Perché a me?

Nessuna risposta

Vago solitario i questi repentini sbalzi d'umore.

Penso e ripenso, invoco e imploro.

Tu anima mia perduta

Vivi intensamente il tuo castigo

E ne fai dono

Per un futuro migliore"[7]

Non sempre si arriva ad una risposta soddisfacente a tali quesiti, ma è possibile avvicinarsi ad una accettazione di essi, ad una consapevolezza che non fa più male. Capire quello che si prova e riconoscerlo è passo fondamentale all'interno del difficile percorso verso una consapevolezza di sé.



2 L'importanza della lettura


Innanzi tutto, prima che la penna inizi a scrivere sul foglio, è necessario un incontro importante: l'incontro con il libro. Questo può sembrare strano, nelle nostre fantasie sul carcere non pensiamo ad un detenuto sulla branda intento nel leggere un romanzo di Manzoni, o di Verga, ma sia dalle parole di Adriana Lorenzi[8] che dall'intervista fatta a Enrico F. emerge l'importanza del leggere:

"Innanzi tutto penso che la scrittura derivi dal leggere, non scrivi se non leggi molto."[9] ; la lettura accompagna il cammino di maturazione: "Io incominciai a scrivere nel 198 (.) Un altro testo che mi ha sempre appassionato è I Promessi Sposi, lo avrò letto 7, 8, 10 volte, ogni tanto apro il libro in un punto qualsiasi e lo rileggo. Ogni volta a fronte della maturazione che avanza scopro qualcosa di nuovo che non avevo intravisto prima."

La composizione delle carceri, come abbiamo già detto, è sempre più eterogenea, e racchiude in sé diversi strati sociali e culturali, così che non tutte le persone recluse hanno avuto nella loro vita l'occasione e la possibilità di leggere libri, dedicarsi alla propria cultura e alla scrittura. Ci sono persone laureate accanto ad analfabeti, stranieri con una conoscenza elementare dell'italiano e italiani che padroneggiano solamente il dialetto d'origine, tutto questo rende ancora più speciale e sorprendente l'avvicinarsi alla lettura di testi letterari.

La lettura può essere spontanea, mossa principalmente dal bisogno di riempire il tempo e di lasciare la mente libera verso altri tempi e altre realtà, oppure può essere stimolata dagli educatori, dagli insegnanti o dai laboratori di scrittura (questo argomento lo analizzeremo in seguito).

Dentro ad ogni testo possiamo trovare in modo diretto e affascinante uomini e donne alle prese con la vita, con i propri limiti, con la condizione umana. Ed è proprio questa la grande potenzialità della lettura: " confrontare la nostra condizione con quella dei personaggi di carta che ci affascinano e di cui seguiamo le avventure significa accedere ai misteri dell'esistenza, alle domande cruciali della vita che hanno generato risposte in termini di percorsi esistenziali. I libri ci offrono possibilità, strade transitabili."[11].

Il parallelismo tra la vita e il libro aiuta  chi legge a non fermarsi alla rassegnazione ma a cercare nuove possibilità, "perché quella che stiamo vivendo magari è vincolante, ma è una e non la sola opportunità che ci diamo o che ci è data se non per timore, insicurezza o comodità."

I libri inoltre offrono metafore efficaci per inquadrare e meglio comprendere situazioni e inquietudini, mentre la vita aiuta a comprendere meglio tali metafore in una simbiosi feconda.

Per esempio un testo come i Promessi Sposi del Manzoni può offrire acute riflessioni sulla realtà carceraria: "Quel carcere soffre di sovraffollamento cronico, che mette a dura prova la convivenza fra detenuti, nonché con la custodia. E' un po' come i capponi[13] che Renzo Tramaglino nei Promessi Sposi porta al dottor Azzeccagarbugli in pagamento della consulenza."

Le pagine stampate possono essere preziose lenti per meglio osservare la propria situazione, nelle vite lette si possono rintracciare nuovi modi di pensare i propri limiti e le difficoltà che la vita pone davanti alla vita di ognuno. Il carcere blocca il movimento, lo scorrere della vita quotidiana, immobilizza anche il pensiero, mentre i libri aiutano a pensare che le cose si muovono, che la vita riserva cambiamenti e svariate possibilità.

Sempre mantenendo al centro della nostra riflessione la scrittura è necessario sottolineare un'ulteriore aiuto che la lettura di libri può dare a chi si accinge a scrivere di sé, poiché gli autori sanno come raccontare storie, come organizzarle sul foglio, leggendo si può imparare a raccontare, prendendo i testi come esempio per la stesura delle proprie produzioni.

La realtà è dominata dal caos, mentre nel testo è necessario ordine e distacco, solo guardando a sé con una lontananza letteraria e dando ai propri vissuti un ordine logico si può produrre una storia di vita, una riflessione autoanalitica o una gradevole poesia.



3 Consapevolezza di sé stessi


Nel precedente capitolo abbiamo visto il contesto carcerario con le sue regole e le sue difficoltà, ora poniamo la nostra attenzione su chi abita tra quelle mura e sulle difficoltà che la scrittura può alleviare in essi.

Quando una persona entra in carcere entra in una nuova realtà, fatta di persone, regole, spazi condivisi, e anche la propria identità non può che sperimentare tale cambiamento. Inoltre non va dimenticato che la finalità del carcere è rieducativa, perciò l'identità  che l'individuo si è costruito nella vita prima della detenzione è oggetto principale del trattamento penitenziario e obiettivo pedagogico fondamentale è un cambiamento in essa.

I presupposti fondamentali per favorire una ridefinizione delle singole identità sarebbero la libertà individuale, una comunità in cui vi sia unità, consenso e valori comuni, ma come abbiamo precedentemente analizzato queste caratteristiche non sono presenti nella realtà detentiva.[15]

Il vivere in modo recluso pone l'individuo in un contesto nel quale i meccanismi di integrazione e adattamento, differenziazione e individualizzazione, portano a definizioni in cui i livelli di sofferenza sono talmente elevati che il risultato è spesso una scarsa stima di sé, rinuncia e fatalismo, mentre sembra sempre più difficile raggiungere autonomia e consapevolezza.

In questa riflessione, per esempio, un detenuto condivide la voglia di paternità e la mancanza di affetti dei suoi compagni, ma sente il suo essere diverso da loro perché non ha potuto e voluto realizzare il suo desiderio di paternità: "Io, che non sono padre (per colpa di uno sciagurato stile di vita che mi ha portato a soggiornare nelle galere italiane e non, per parecchi anni), mi sono tuttavia ritrovato spesso a condividere  con i miei compagni questa angoscia e mi rendo conto di quanto sia difficile affrontare l'impegno paterno. E tante volte, vedendo i miei compagni ai colloqui con i loro figli, mi si stringe il cuore al pensiero di quello che stavano provando in quei momenti che, inizialmente, sono piccoli momenti di gioia, ma poi sono inevitabilmente seguiti dal distacco e dalle faticose spiegazioni per questi bambini che devono andarsene ancora una volta senza il papà. (.) È il mio grande tormento personale; mi sono tolto la responsabilità di far soffrire un figlio, ma questa decisione ha contribuito a togliere un senso importante alla mia vita."

Ed è proprio sulla consapevolezza che la scrittura pone il suo intervento. Raccontarsi non cancella le ferite, né annulla ciò che una persona era per costruire un nuovo io totalmente estraneo al suo passato, non è questo il suo scopo. Ciò che cura è la rielaborazione, l'analisi e lo sviluppo di consapevolezze che non sempre sono state presenti nella vita dei detenuti, e non sempre si è avuto l'occasione di coltivarle. Raccontarsi genera consapevolezza delle proprie esperienze e della propria identità.

In questo processo vediamo due momenti principali: uno di differenziazione e uno di generalizzazione. Il primo permette di definire le diversità, le singolarità del proprio vissuto rispetto a quello degli altri, e in questo caso l'identità è definita dalla differenza. Il secondo permette di definire i punti in comune con i vissuti degli altri, in questo caso l'identità è sostenuta dall'appartenenza ad una comune esperienza.[17]

Così E. Fantoni conclude la storia della sua vita, così dichiara come la consapevolezza di ciò che ha vissuto lo abbia cambiato, maturando la sua identità di uomo e donandogli un po' di felicità:

"Della mia storia vorrei scrivere un finale glorioso, ma sarebbe una menzogna. Di mentire non ho più voglia.

Mi rendo conto di essere maturato, dal fatto che preferisco ascoltare che essere ascoltato. Quando riesco a comprendere il mio prossimo, provo affetto per lui e voglio un po' più di bene a me stesso.

Tutto ciò mi dà un po' di felicità. "[18]

La scrittura può così sconfiggere i limiti e le chiusure che il carcere impone, permettendo all'individuo di ripensare alla sua identità senza cristallizzarsi nel suo ruolo di criminale ma tornando ad avere stima di sé e fiducia del futuro.

La sfida pedagogica, dunque, è utilizzare tale potenzialità della scrittura per condurre l'individuo a porsi quale soggetto dotato di unicità e capacità d'azione.

Per attivare tale processo si possono individuare tre azioni principali da intraprendere: ricordare, raccontare e nominare.






1 Ricordare


Qualunque sia l'argomento o lo scopo che lega le parole una dopo l'altra sul foglio, la dimensione del ricordo sembra essere fondamentale per chiunque inizi a scrivere. Anche se si tratta di riflessioni sul presente o di divagazioni sul futuro, il pensiero parte sempre da ciò che siamo stati e dalle esperienze che ci hanno condotto fino al punto in cui siamo.

Nella dimensione carceraria il richiamare alla mente ciò che si è stati e le vicende trascorse appare ancor più carico di forza curativa e allo stesso tempo di difficoltà.

Come in questo racconto di un giovane immigrato Albanese: "io vengo da una famiglia semplice e molto onesta, senza problemi anche nel tempo del regime. (.) Ero orgoglioso della mia famiglia, e amavo il mio paese. Però eravamo completamente isolati dal mondo e io non vedevo un futuro. E poi economicamente nessuno stava bene, anzi, stavano tutti male. Però finalmente nel '90-'91 è caduto il muro di Brelino albanese. E anche io come tutti gli albanesi  della ex-dittatura volevo scoprire quel mondo oltre i confini. Quel mondo dei sogni che fino ad allora era proibito anche a pensarlo. (.) Ormai ho 20 anni e mi sento molto grande; mi organizzo con i miei amici e ci dirigiamo verso Valona, il porto da cui partono i motoscafi. Sono molto felice e non vedo l'ora di arrivare per poi ripartire verso quella nuova vita tanto sognata. Ma, partendo lascio alle spalle la mia casa, la mia famiglia, la mia città, e il mio paese. Dopo molti sacrifici e un terribile viaggio con il motoscafo, arriviamo finalmente in Italia. (.) per qualche tempo ho pensato che stava andando bene, però senza volerlo mi sono incontrato con la droga. (.) All'inizio mi è piaciuta perché mi faceva dimenticare la solitudine e il pensiero che ero lontano dalla mia famiglia e dal mio paese. Da quel giorno la mia vita ha cominciato a cambiare finché sono finito in carcere. E adesso penso di aver capito veramente il valore della vita, del proprio paese e della famiglia."

Gli oggetti materiali di queste persone vengono requisiti non appena vengono varcate le soglie del penitenziario, così l'unico legame possibile con il passato risiede nelle loro menti e nei loro cuori.

I frammenti della vita di queste persone sono sparsi, disorganizzati, e la loro ricomposizione spesso fornisce quadri drammatici, caratterizzati da dolore e fragilità, tanto da rendere tale ricerca difficoltosa e spesso rifiutata. Ma se si supera tale difficoltà, si ha la possibilità di guardare in modo diretto la propria vita, di osservarla e di capire quale seguito potrà esserci, quale significato può assumere il passato, quali sono stati gli sbagli e le vittorie.

Demetrio chiama tutto ciò pensiero autobiografico, e lo definisce con queste parole: "quell'insieme di ricordi della propria vita trascorsa, di ciò che si è stati e si è fatto.una presenza che da un certo momento in poi accompagna il resto della nostra vita."[20] Tale presenza può essere una nostra compagnia segreta, comunicata a chi ci sta intorno solo attraverso ricordi sparsi, oppure può divenire uno scopo di vita. In questo caso, si trasforma in un progetto narrativo compiuto, diventa scrittura di sé e desiderio di lasciare una traccia di noi e della nostra esistenza.

Ed è proprio quest'ultimo caso che noi prendiamo in considerazione, quando il pensiero autobiografico prende forma sul foglio, mostrando nero su bianco ciò che nella mente era solo riflessione e inquietudine.

L'incontro con i propri ricordi non sempre riesce a portare verso una tecnologia narrativa di sé, spesso il detenuto usa una scrittura trasfigurante, tipica della poesia. Ma occorre tener presente che "la scrittura poetica talvolta è una forma importante di evasione, di creazione d'allucinazioni, è una scrittura che crea forme di giusta, inevitabile, importante evasione da sé. La scrittura autobiografica è tutt'altro, perché la scrittura autobiografica ci chiede e chiede non solo ai detenuti, ma a ciascuno di noi, il coraggio di avvicinarci alla verità (anche se poi la verità non viene scritta, per timore, per cautela, per preoccupazione), ed è una scrittura che genera processi mentali e conoscitivi che producono quella interiorizzazione e autoriflessione unica, che altrimenti non si genera e produce."[21]

Ricordando la mente esce dai percorsi immobili della quotidianità carceraria, dischiude i gusci dentro i quali persone, fatti, dolori vengono rinchiusi per paura di soffrire o di non essere in grado di saperli accettare, così un detenuto vive il ricordare: "ricordi, questa parola ha aperto una tenda nella mia mente, una sorta di sipario a mostrarmi l'immagine, ormai indelebile nella memoria, di un caro amico. È il suo ricordo che rende così particolare questo periodo della mia vita caratterizzato ancor di più dal luogo di prigionia in cui sono rinchiuso da qualche anno.[22]



2 Raccontare


Dopo aver divorato libri, essersi tormentati su sé stessi, aver ripercorso i sentieri della propria memoria, spesso si entra in un percorso obbligato che porta al voler raccontare tutto questo: "Io voglio raccontare il mio passato"[23] scrive una detenuta come apertura del suo racconto. Raccontare, il verbo stesso lo impone, implica che ci sia qualcuno ad ascoltare ciò che viene rivelato, senza questa alterità il racconto perde la sua fecondità e la sua forza. Come sottolinea Adriana Lorenzi: "il racconto deve essere dispiegato per poter rivelare il suo tesoro nascosto. Si può perpetuare la leggenda di tesori nascosti ma solo quelli trovati costituiscono una ricchezza per chi li ha portati alla luce e per chi può fermarsi ad ammirarli."

Le cose che rimangono intrappolate dentro, specialmente quelle dolorose e logoranti, abbruttiscono gli animi, fanno stare male, ingigantendosi nella immobilità e nell'ozio della vita carceraria. Diventano dei veri e propri scogli, che giorno dopo giorno impediscono di andare avanti, come ammette questa donna: "vorrei gridare che mia madre mi manca, che solo lei può curare le mie ferite, ma rimango muta con la mia sofferenza."[25]

La storia che viene raccontata ci rivela come chi racconta si vede e vuole essere visto da chi gli sta intorno: fatti e invenzioni vanno di pari passo. Proprio per questo è meglio non parlare mai di verità del raccontare ma di autenticità, ciò che viene narrato non è importante per la sua verificabilità ma per la messa a fuoco di quel monologo in cui ciascun detenuto è inserito nella sua quotidianità reclusa.

La forza pedagogica del raccontare sta proprio in questo voler comunicare il proprio vissuto, ricomponendolo pezzo dopo pezzo, e mostrandolo agli altri; i destinatari di tale narrazione sono così non solo le altre persone ma anche sé stessi, in un gioco di estraniazione che aiuta a trovare un senso al proprio racconto di vita.

Terminiamo con questa riflessione, di chi dentro le mura del penitenziario cerca di ricomporre la sua esistenza: "Ho voluto raccontare la storia della mia vita per comunicare la mia grande sofferenza e solitudine. Tante persone che oggi si trovano in carcere, avranno dietro come me un'infanzia triste e piena di momenti terribili. Prima di giudicare una persona bisognerebbe ascoltare la storia della sua vita, solo così si potrebbe riuscire a capire perché si trova in carcere."[26]



4 Nominare


Essere impavidi nel dare un nome alle cose è molto importante, permette di identificare cosa è accaduto, cosa ci circonda e cosa si desidera per il futuro, senza nascondersi dietro bugie o mezze verità.

Nominare è come possedere di nuovo, poter contemplare la verità. Entra così in gioco una autentica assunzione di responsabilità verso se stessi, che può trasformarsi in una assunzione di responsabilità verso il mondo e gli altri che possono verificare ciò che leggono.

Quest'ultima cosa, all'interno del percorso riabilitativo di un detenuto è decisamente importante, per molti reati è complesso prendersi le proprie colpe, e la scrittura può aiutare in questo passo così maturo e importante. È doveroso ammettere che sono rari i casi in cui si scrive del proprio pentimento, e ancor di più della propria colpa, ma assumendosi la responsabilità della propria vita, dei tanti errori commessi, rappresenta comunque da un punto di vista pedagogico un traguardo importante e degno di merito per chi riesce a compierlo.

Come nel racconto di vita di Enrico Fantoni: "Iniziò un cammino d'introspezione, doloroso, fatto di dubbi, domande, di improbabili e modestissime risposte.

Oggi capisco perché filosofi e asceti, si ritirano in eremi per pensare.

Certo sono domande di fronte alle quali si confrontano tutti prima o poi, ma iniziai anche a chiedermi il motivo della mia e altrui esistenza.

Iniziò l'analisi di come avevo speso la mia vita sino a quel momento: l'esito era fallimentare.

Tutti quei valori di cui avevo sentito parlare non li avevo mai neppure considerati.

Non ho mai fatto del male a nessuno, ma di fatto il mio cinismo colpiva ed influenzava chi mi circondava."[27]

In questo processo di consapevolezza ha un ruolo di rilievo la parola, essa da consistenza a noi e a ciò che ci è capitato, l'uso di una parola invece di un'altra tinge ogni frase in modo ogni volta diverso; proprio per questo è necessario fare molta attenzione all'uso della parola, nella produzione scritta come nella lettura. L'individualità di ogni persona emerge nella scelta dei vocaboli, "le parole sono mappe che ciascuna può seguire per capire e per capirsi: a ciascuna la sua mappa e le sue parole."[28]

Concludiamo con ciò che rende tutto ciò che abbiamo trattato pedagogico: il cambiamento.

La scrittura, come già accennato, aiuta il detenuto a pensarsi, a rivedersi, per poi visualizzare una possibilità di svolta nella propria vita. Queste persone spesso sono abituate a non pensare a loro stesse, o se lo fanno, vivono il limite dato dalla mancanza di stima di sé e dai ruoli devianti che si sono costruiti nel tempo.

Perciò dopo aver ricordato la propria vita, dopo averla raccontata agli altri e a se stessi, dopo averla scritta, viene innescato un processo di trasformazione fecondo e importante. L'accettazione di sé e della propria scrittura, la realizzazione di una propria storia, l'esplicitazione delle domande più profonde, danno così la possibilità di passare dalla consapevolezza di sé alla consapevolezza di una possibilità di cambiamento.

Ogni detenuto ha l'opportunità di pensarsi come persona capace, risorsa agente, e non come errore e confusione. Raccontandosi in modo diverso rispetto al solito è possibile porre in modo diverso la propria identità: la sfida pedagogica è proprio quella di coltivare l'abilità di narrarsi per porsi quale soggetto dotato di unicità e capacità di azione.



4 Il laboratorio di scrittura


La realtà educativa nella quale viene principalmente utilizzata la scrittura di sé è quella del laboratorio di scrittura. In numerose carceri italiane sono presenti gruppi di detenuti impegnati in scrittura creativa, testate giornalistiche, siti internet. Tutto questo per dare voce agli uomini, alle donne e ai minori che devono pagare un debito con la società, e  allo stesso tempo riabilitarsi per poter poi re-inserirsi come cittadini nelle nostre città. Le principali finalità di queste attività sono sempre quelle riabilitative e integrative, ma è importante anche quella comunicativa e di sensibilizzazione verso i lettori esterni.

Queste attività sono sempre fatte in gruppo, poiché anche se l'atto di scrivere rimane un'attività individuale e privata, il mettere a disposizione degli altri il proprio lavoro e confrontarsi con quello che altri hanno prodotto attiva processi di riflessione e di relazione molto importanti. Senza dimenticare che la formazione culturale dei detenuti non sempre rende possibile una scrittura spontanea, è necessario, perciò, un intervento scatenante che stimoli tale attività.

All'interno della quotidianità reclusa questi momenti formativi sono uno spazio privilegiato dove è possibile fare una pausa, abbandonare il caos di ogni giorno, i ruoli codificati e ormai cristallizzati. Un luogo dove prendersi tempo per raccontare quello che è stato e progettare quello che sarà e scambiare tutto questo con chi condivide questi momenti. Non si tratta di lezioni scolastiche, nelle quali stare attenti alla grammatica e alla sintassi, si nega ogni spazio alla valutazione, quello che conta è chi scrive, cosa scrive e processi coinvolti in tale atto.

Generalmente gli incontri sono stimolati ogni volta dai racconti scritti durante la settimana e letti ad alta voce al gruppo, così da stimolare anche un dibattito orale. Al termine di ogni incontro il formatore propone una parola, o una provocazione sulla quale scrivere per la volta successiva.

Così Adriana Lorenzi, formatrice in un gruppo di scrittura creativa nel carcere di Padova definisce l'impegno delle donne che hanno partecipato agli incontri: "Tutte hanno lavorato affinché aumentasse la consapevolezza di loro stesse e della loro vita trascorsa, perché migliorasse la relazione fra loro e perché si allargassero i confini dell'immaginazione quale possibilità per pensare che il mondo stava ancora aspettando le loro promesse di nuovi inizi."[29]

E' importante sottolineare il ruolo dell'immaginazione, poiché, perché ci possa essere un cambiamento, questo deve essere in qualche modo pensato, fantasticato. Queste persone devono uscire dagli schemi rigidi o confusi in cui erano inserite, inventare un nuovo proseguimento per la loro storia di vita.

Perché i muri e le sbarre isolano chi è imprigionato dagli altri, all'esterno, e perché la mancanza di libertà obbliga, per forza di cose, a un esercizio di immaginazione. Fantasia e necessità di comunicazione:  sono due aspetti che convivono e interagiscono nell'esercizio della scrittura. Si tratta di risvegliare e rendere mobile la fantasia, e far sì che la scrittura possa oltrepassare i muri, e possa raggiungere chi sta al di fuori .

Per quanto riguarda il ruolo comunicativo è necessario ribadire che perché sia possibile attuare quanto auspicato dall'articolo 27 della Costituzione Italiana è indispensabile che il detenuto comunichi e interagisca con chi vive in libertà. Se così non fosse si instaurerebbero solo relazioni recluse, creano un vortice ristretto tra le mura del penitenziario, senza possibilità di uscita, di cambiamento.

Al contrario in queste attività formative il principale scambio avviene proprio tra chi dall'esterno entra nel carcere portando un po' della vita libera (i formatori) e tra chi vive tra le sbarre e ha voglia di interagire e comunicare la sua vita reclusa.

Così le attività di giornalismo, i siti internet, i libri di racconti vanno a creare un ponte tra l'interno e l'esterno, per far sì che da entrambe le parti si possa respirare qualcosa di nuovo.

Nella prima pagina del primo numero di Sosta Forzata leggiamo: " Sosta forzata nasce da un'esigenza; così come è stato inventato il martello per conficcare i chiodi. Un giornale del carcere perché nessun uomo deve essere dimenticato. Vogliamo che leggano in particolare i giovani. Essi potranno costruirsi una loro idea del disagio sociale, perché il carcere non può essere definito soltanto un'area di sosta, ma rappresenta e ha sempre rappresentato un disagio. (.) Vuol essere una finestra aperta con l'esterno, con il mondo, con la società che è stata offesa. Chi scrive è perfettamente conscio di questo. Il rancore non può essere un sentimento pacificatore. Serve mutua comprensione anche verso chi ha rotto il patto societario, verso chi non ha la forza di adeguarsi alle regole.(..)Noi detenuti redattori mettiamo a disposizione la nostra esperienza, i nostri errori, i fallimenti, ma anche l'impegno e la speranza: vogliamo e possiamo fare qualcosa anche noi per la società che abbiamo offeso."[31]

Le problematiche della vita ristretta e degli avvenimenti che conducono una persona dentro la cella di un penitenziario sono ben diverse da chi svolge una vita libera e gratificante, perciò uno scambio tra le due parti è importante.

Adriana Lorenzi afferma che il suo lavoro insieme a quello delle altre formatrici hanno mostrato alle detenute che "ci si può anche rialzare", mentre le detenute, con le loro storie e le loro ferite hanno insegnato loro che "si può anche scivolare e scivolare e scivolare sempre più in basso".

"Questo sapere può aiutare a sospendere condanne senza appello e sete di vendetta, a inserire il dubbio dentro quelle certezze che sono tanto più violente e aggressive quanto più sono pronunciate da chi è burattino tra le mani delle sue paure."[32]

Concludendo, come fondamenta di tutte le considerazioni fatte, possiamo affermare che la scrittura si dimostra principalmente un'affermazione della propria umanità. L'uomo è un animale sociale che comunica. "Togliete a un uomo la possibilità di comunicare e resterà solo l'animale".[33]




Ornella Bavero e Omar Ben All, intervista a D. Demetrio da www.Ristretti.it

Cfr. www.mestierediscrivere.it

Adriana Lorenzi, Voci da dentro, op. cit. p. 37

Ibidem. P. 62

D.Demetrio, Scritture erranti, Edup, Roma 2003, p. 46

Ibidem, p. 52

Nico Giampaolo,  in AA VV, Parole oltre il muro, ed. Berti, Piacenza 2005, p. XIII

Cfr. A. Lorenzi, Voci da dentro Storie di donne dal carcere, ed. Lavoro, Roma 2004, p.48

Vedi p. 51

Vedi p. 58

Ibidem.  p. 49

Ibidem.

"Nonostante legati per le zampe a testa in giù, continuavano a beccarsi tra loro, rendendo ancora più grama la loro già infelice sorte".

Enrico Fantoni,  Storia di Vita, «Sosta Forzata», 3, Giugno 2004

Cfr. Adriana Lorenzi, Voci da dentro, op.cit. , p. 13

Antonio Mistri, Il tormento dei padri detenuti,  «Sosta Forzata», 3, Giugno 2004

Cfr.  Ibidem, p. 16

Enrico Fantoni, Storia di Vita, «Sosta Forzata», 3, Giugno 2004


Eduarto, Mi chiamo Eduarto e sono un ragazzo albanese., «Sosta Forzata», 0, Dicembre 2003

D. Demetrio, Raccontarsi l'autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 10

Ornella Bavero e Omar Ben All, intervista a D. Demetrio da www.Ristretti.it


Mamo Ervin, in AA VV, Parole oltre il muro, ed. Berti, Piacenza 2005, p. 57

Lidia, Ibidem, p.33

Adriana Lorenzi, Voci da dentro, op. cit. p. 35

Aurora, da Adriana Lorenzi, Voci da dentro, op. cit. p. 36

Carmela, da Adriana Lorenzi, Voci da dentro, op. cit. p. 34

Enrico Fantoni,  Storia di vita, «Sosta Forzata», 3, Giugno 2004

Ibidem. 73

Adriana Lorenzi, Voci da dentro, op. cit. p. 65

Cfr. Giampiero Rigosi da www.supereva.it

La redazione, Perchè Sosta Forzata,  «Sosta Forzata», 0, Dicembre 2003

Adriana Lorenzi, Voci da dentro, op. cit. p. 68

AA VV, Parole oltre il muro, ed. Berti, Piacenza 2005, p. 138

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