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La Musa e sua cugina: legami tra poesia e canzone




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La Musa e sua cugina: legami tra poesia e canzone




Certamente la poesia e la canzone sono due forme d'arte tecnicamente diverse. E lo dimostra il fatto che, le poesie sono fatte di sole parole, mentre le canzoni sono fatte di parole e musica. Tuttavia la poesia non è fatta di sole parole, ma del risuonare del loro ritmo nel tempo, ed è l'unico tipo di testo nel quale l'aspetto fonico influisce sul piano del significato. Il ritmo dei versi, infatti, non ha solo la funzione di rendere musicale il componimento, ma conferisce anche particolare rilievo alle parole su cui cade l'accento ritmico.

Le affinità, vere o presunte, tra canzone e poesia sono attualmente oggetto di numerosi dibattiti, poiché in molti sostengono che, usando come termine di paragone la poesia rispetto alla produzione musicale, si tende a privare la canzone della sua dignità letteraria. Ma operando un'analisi delle modalità di origine e di sviluppo della poesia, non si può fare a meno di evidenziare quanto la musica sia stata fondamentale per la nascita di questa forma di scrittura.

Gli antichi chiamavano "lirica" la poesia che veniva eseguita con l'accompagnamento della lira o di analoghi strumenti musicali a corda; essa veniva chiamata anche poesia melica (dal greco "melos" che significa canto), poiché veniva cantata con una vera e propria intonazione musicale. Questo tipo di componimento aveva un carattere spiccatamente soggettivo, infatti in essa si esprimeva direttamente l'individualità del poeta che vi parla sempre in prima persona. Tale forma poetica fece la sua comparsa agli albori della letteratura greca, nell'VIII secolo a.C., e affondava le sue radici da un lato nei canti religiosi, dall'altro nel patrimonio delle canzoni popolari, pur manifestandosi sottoforma di composizioni artistiche colte e raffinate, sorte in ambienti aristocratici in cui la poesia, unita alla musica, occupa un posto rilevante nella vita pubblica e privata. La poesia lirica si suddivideva a sua volta in monodica, cantata da un solo esecutore, e corale, eseguita da più voci.

Tutto il Medioevo è cantato. A partire dalla figura del giullare, che si diffonde nelle corti della Francia meridionale già prima dell'anno Mille. In Provenza i giullari cantano, accompagnandosi con strumenti musicali, i testi composti dai poeti trovatori, così chiamati dal verbo "trobar" che significa appunto "comporre musica", e talvolta sono essi stessi compositori di rime. Sono i giullari a svolgere il compito di creare o di far circolare attraverso la loro interpretazione, le leggende e le chansons de geste in lingua d'oil, che forniscono materia al ciclo carolingio e al ciclo bretone. Da un movimento religioso dalle forti radici popolari, si origina invece la lauda, una delle forme di poesia religiosa più diffuse tra Due e Trecento. Argomenti tipici di questi componimenti erano episodi evangelici o temi spirituali fondamentali, trattati in forme semplici e popolaresche, ricorrendo agli schemi metrici della ballata profana. Una voce solista recitava la strofa, e il coro riprendeva con un ritornello. L'interazione tra canto e strutture poetiche tradizionali aveva in questo caso una finalità non letteraria ma pratico-educativa, di ascesi collettiva. Anche le poesie di Dante venivano musicate, e se Petrarca, in apertura del suo Canzoniere, scrisse "Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono", non si trattò di certo di un caso. La musica allora era fondamentale, la parola scritta non poteva arrivare a tutti: ai contadini analfabeti, alle cortigiane, agli artigiani, ad esempio. E allora esistevano i musici, i cantastorie, i menestrelli.

Il Trecento vede anche la nascita di una nuova forma lirica, il madrigale, di cui si trovano significativi esempi nelle rime petrarchesche, la cui struttura definitiva proviene dal Cinquecento e si basa su endecasillabi e settenari variamente alternati e con rime libere, concepito per essere musicato e cantato a più voci negli ambienti cortigiani.

Tra la seconda metà del Cinquecento e l'inizio del Seicento prende vita una nuova forma d'arte teatrale destinata al canto e alla musica, il Melodramma. Nasce così "l'opera in musica", che con il grande compositore Claudio Monteverdi, il cui capolavoro è La favola di Orfeo del 1607, vedrà la sua diffusione in tutta Europa, grazie al livello di equilibrio instaurato tra musica e poesia. Sarà poi modificato in pieno Seicento da Pietro Metastasio, che organizzerà il testo secondo criteri musicali perfettamente compatibili con le esigenze del musicista, grazie al variare del ritmo e alle pause opportunamente predisposte nel testo. A Monteverdi modificò inoltre la struttura del madrigale, affiancando alla polifonia la monodia; da tale sperimentazione avrà poi origine, nel corso dell'Ottocento, grazie ad apporti della musica popolare, la canzone all'Italiana, protagonista della musica leggera novecentesca.

Primi esempi di canzone si hanno a Napoli, quando musicisti e poeti cominciano a dedicarsi alla composizione di canzoni in dialetto, che spesso riecheggiano le arie delle più famose opere liriche del tempo. La prima canzone in lingua italiana, Santa Lucia, venne scritta nel 1848; da questo momento la tradizione italiana e quella napoletana procederanno su due strade parallele. La canzone del primo ventennio del Novecento si sviluppa in direzione dei canti patriottici e politici legati alla Prima Guerra Mondiale, e a leggere canzonette d'amore, caratterizzate da un italiano vicino alla lingua quotidiana e da una musica costituita da frasi melodiche brevi.

La moderna canzone d'autore nasce sul principio degli anni Sessanta tra Torino e Milano, anche sotto la spinta di scrittori neo-realisti come Italo Calvino, esponente del gruppo dei Cantacronache.

La Milano di quegli anni vede attivi Gaber, Jannacci e i genovesi Tenco, Paoli e De Andrè. I testi scritti da quelli che vengono chiamati con il neologismo "cantautori" si distinguono per l'originalità delle tematiche, e sul versante stilistico per la raffinatezza espressiva, la ricerca ritmica e lo sperimentalismo verbale. Nei testi di questa produzione il valore politico, letterario, intellettuale delle forme e dei contenuti messi in gioco acquisiscono una rilevanza decisamente diversa rispetto alla consueta, precedente canzonetta incentrata su cliché banali e ricorrenti. Si trattò di un vero e proprio investimento letterario, e per questo la forma della canzone ha spesso avuto come esplicito paradigma di riferimento quello della poesia. Risulta però difficile trovare una classificazione adeguata a questa forma artistica, perché si tende spesso a sistemare la canzone d'autore dentro il canone della poesia contemporanea. Ma così facendo si nega alla canzone il valore che possiede, perché si intende implicitamente che essa sia qualcosa di marginale e secondario rispetto alla poesia.

Ma la canzone è comunque cultura e, pur restando ben distinta dalla poesia, è chiaro che ha assorbito alcune delle funzioni sociali che un tempo erano rivestite dalla poesia, cioè la rappresentatività di sentimenti collettivi e, di conseguenza, le forme espressive e linguistiche utilizzate per comunicare col pubblico.

I cantautori fondano la loro capacità espressiva su basi culturali solide, lo stesso De Andrè dichiarava che molte delle sue canzoni nacquero dal riuso, in chiave originalissima, delle proprie letture: idee, temi, immagini e versi "strappati" dai libri per arrivare alla voce. Si lasciò ispirare dalla musicalità insita nei versi di Baudelaire, e dal suo universo malato e paradisiaco; la canzone di De Andrè fu alimentata dall'attenzione per il dettaglio, dalla passione per le cose quotidiane, per i piccoli gesti, per i particolari esattamente come il suo concittadino, Eugenio Montale, che di Genova cantò in versi i colori, i sapori, i carruggi, le strade e il porto, oltre ai luoghi delle Cinque Terre dove il poeta crebbe; è ricorrente nelle liriche del poeta la descrizione di un paesaggio ligure scabro e riarso, di una natura assolata, abbacinante, chiusa sul proprio mistero eppure sempre sul punto, in apparenza, di rivelarlo.

Riguardo la distinzione esistente tra poesia e musica, forse va a lui il compito di porre una chiara definizione al tutto, essendo considerato uno dei maggiori poeti del secolo scorso. E, involontariamente, lo fece quando affermò che la poesia non ha bisogno di musica, perché ha già una sua musica interna.























Ho licenziato Dio / Gettato via un amore

Per costruirmi il vuoto/ Nell'anima e nel cuore

Le parole che dico/ Non han più forma né accento

Si trasformano i suoni / In un sordo lamento.

(F. De Andrè, Cantico dei drogati, 1968)

E senza musica né fanfara, lunghi carri funebri

Sfilano lentamente nella mia anima; sconfitta,

piange la Speranza e, dispotica, l'Angoscia atroce

sul mio cranio arreso pianta il suo vessillo nero.

(C. Baudelaire, Spleen, 1857)

Charles Baudelaire: Rivolta e musicalità

La pubblicazione, nel 1857, della raccolta di liriche Les Fleurs du Mal, fa di Baudelaire il poeta simbolo della profonda coscienza delle trasformazioni radicali che la società e l'individuo stavano vivendo come conseguenza dello sviluppo industriale, economico e sociale. Proprio in questo clima Baudelaire si erge a testimone e coscienza critica dell'epoca, inaugurando l'immagine del poeta anticonformista ed emarginato, espressione di uno smarrimento e sradicamento da una realtà che sente non appartenergli.

Nel binomio rivolta e musicalità possiamo identificare il filo portante della poetica Baudelariana. Rivolta sul piano tematico e musicalità sul piano fono-stilistico. L'intera raccolta delle sue poesie è infatti un inno di rivolta, contro la metropoli parigina in cui vive, priva di umanità e ricca di degradazione; contro l'uomo e la sua condizione di perenne disagiato e infine contro Dio. Baudelaire descrive gli umili, i poveri, le prostitute, i vinti costretti a vivere nello squallore e nella miseria, e indica come uniche vie di evasione e di rifugio quelle dei paradisi artificiali, la droga e l'ebbrezza alcolica, dell'erotismo e della morte.

Il senso di sradicamento che Baudelaire esprime nei confronti del mondo trova una sintesi nel concetto di Spleen. Lo Spleen è il tedio dell'anima, una cupa depressione spirituale che è la conseguenza del non poter realizzare se stessi attraverso il proprio ideale. Nell'uomo coesistono infatti due tensioni, una verso l'ideale, verso un al di là sconosciuto, una realtà che sovrasta il mondo del finito e dell'imperfezione; l'altra verso la degradazione e il senso di desolazione tipici dell'esistenza.

Dal punto di vista linguistico, la reazione del poeta alla realtà che lo circonda viene espressa attraverso una lingua che risulta allusiva, oscura ed evocativa, caratterizzata dall'utilizzo di due elementi portanti, cioè il simbolismo e l'allegorismo. Così i suoi versi risultano ricchi di analogie, metafore, procedimenti antitetici e ossimori. Sul piano lessicale, Baudelaire va verso un superamento del puro aspetto denotativo della parola: il suono, il guscio fonetico della parola, comincia ad essere di per sé vettore di significati. La parola diventa quindi importante non solo per il suo significato, ma anche per la sua potenzialità musicale, nella misura in cui la musica ha il potere di esprimere la parte non definibile del sentimento.





Con le tue finestre aperte sulla strada, e gli occhi chiusi sulla gente

Con la tua tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente

La tua coda di ricambio, le tue nuvole in affitto

Le tue rondini di guardia sopra il tetto

.E ogni giorno un altro giorno da contare,

Com'è che non riesci più a volare?

(F. De Andrè, Canzone per l'estate, 1975) Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro

Per vedere il Signore se mai passi.

Ahimè, non sono un rampicante ed anche

Stando in punta di piedi non l'ho mai visto.

(E. Montale, Come Zaccheo, 1973)

Eugenio Montale: "l'anello che non tiene, il filo da disbrogliare".

La produzione artistica di Montale è un capitolo importante della storia della cultura del XX secolo, e si presenta come un problema complesso. Infatti larga parte della critica assegna alla sua poesia il posto più alto nel Novecento italiano, ma non le riconosce unanimemente una precisa classificazione storica tra le esperienze culturali e i movimenti letterari del tempo. Ciò accade perché le varie raccolte, da Ossi di seppia, del 1925, ad Altri versi, del 1980, gradualmente rinnovano e ridefiniscono l'immagine del poeta e della sua poesia. Il tema conduttore di tutta la produzione di Montale è la crisi dell'uomo contemporaneo. Il poeta la interpreta nei termini di una disarmonia non ricomponibile con la realtà: solitudine, mancanza di certezze, percezione dell'esistenza come dolore, sono per lui le uniche evidenze concesse agli uomini. Non c'è tuttavia alcun cinismo compiaciuto nel discorso poetico montaliano, ma una sofferta tensione verso la conoscenza di una verità, che non potrà mai darsi in positivo, ma soltanto in negativo. Questa tensione non si appagherà mai nel raggiungimento di una Verità. Montale adolescente intraprende il proprio percorso conoscitivo cercando "corrispondenze" fra l'uomo e la natura e provando ad esprimerle in una poesia che si sciolga in canto, come testimonia il primo gruppo di liriche, Accordi, pubblicate nel 1922 sulla rivista "Primo tempo". In questi sette componimenti è evidente l'influsso simbolista e crepuscolare, ma già emerge l'originalità del poeta, espressa in un ritmo nervoso, in immagini scarne ed essenziali e in un fitto affastellarsi di oggetti che mettono in secondo piano il soggetto lirico. Precocemente sfumata l'illusione di un accordo con la natura, le dissonanze si mostrano sempre più nettamente nelle liriche di Ossi di seppia, rivelando la sofferta consapevolezza di un universale male di vivere e della propria miseria esistenziale. Unico scampo, forse, l'attimo estatico, la maglia rotta nella rete, il varco, che per un istante pare offrire all'uomo la speranza di sfuggire alla precarietà dell'esistere e di ancorarsi ad una certezza. La poetica di Montale si fonda dunque sull'idea che la poesia debba confrontarsi con una realtà disarmonica e priva di significato, cui è legata la miseria della condizione umana e l'insensatezza caotica della storia; il poeta ha bisogno di ricercare una verità puntuale, che "canti ciò che unisce l'uomo agli altri uomini ma non neghi ciò che lo disunisce e lo rende unico e irripetibile". Devono essere le cose stesse ad esprimere il dramma dell'uomo; si tratta, sul piano letterario, di una particolare tecnica di rappresentazione poetica, che permette di associare all'immagine di un oggetto un significato emozionale o sentimentale. L'immagine concreta funge da "correlativo oggettivo" del significato, il quale a sua volta è totalmente calato nell'oggetto, interamente definito da esso. Gli elementi, ad esempio, di un paesaggio scabro e riarso, dove la vita appare isterilita, si accamperanno come trascrizioni oggettive dell'inaridimento interiore; il titolo stesso della sua prima raccolta, Ossi di seppia, che si riferisce alla conchiglia interna, liscia e compatta, del corpo della seppia, non è altro che il correlativo oggettivo di una condizione di disagio, la reificazione dell'intento deliberatamente antiretorico e "basso" del poeta, che si pone in una posizione nettamente antitetica alla figura del poeta vate. La consapevolezza della finitudine della condizione umana lo porta ad ammettere l'impossibilità di offrire alti messaggi; la poesia di Montale è quindi lirica della negazione, che tende a sottolineare le idee di precarietà, disarmonia, opposizione che la caratterizzano, ("Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo"). Fondamentale nella raccolta è il paesaggio ligure, che viene descritto nei suoi aspetti più scabri ed essenziali, poiché esso restituisce al poeta l'immagine di una vita fatta di solitudine e di insensatezza. Paesaggio che nella successiva raccolta, Le Occasioni, edita nel 1939, si estende oltre la riviera ligure giungendo a toccare scenari soprattutto toscani, legati alle vicende personali del poeta. La componente autobiografica assume un ruolo centrale nelle liriche della raccolta, pur rimanendo associata ad espressioni poetiche complesse, che descrivono gli eventi-occasione di oltrepassare il varco metafisico. La poesia delle cose lascia spazio a una poetica della memoria, vista come una fragile illusione, che svanisce nel momento in cui si tenta di provare una consistenza reale del ricordo. Le figure femminili, correlativi oggettivi di una religiosità laica, rappresentano il tramite che immetterebbe il poeta oltre il varco, assumendo quindi una funzione salvifica, che offrirebbe un'alternativa positiva alla realtà sconvolta e ostile. L'irriducibile male della condizione umana è sempre una costante prevalente nelle liriche montaliane; neanche nelle poesie composte durante il dramma della Seconda Guerra Mondiale e raccolte nel 1956 ne La Bufera e altro, è possibile trovare il segno di un impegno preciso nella realtà della storia. Il titolo della raccolta rimanda senz'altro al conflitto che sconvolge il mondo, ma soprattutto viene identificato con il dramma esistenziale che tormenta ogni uomo, e in particolare il poeta. Con La Bufera l'orizzonte di Montale si allarga in senso universalistico attraverso la coscienza di un destino comune, nella quale converge la scarsa fede verso i valori pratici. Il poeta resta isolato, e neppure l'amore o i messaggi della donna possono fornirgli consolazione. La quarta raccolta, Satura, esce nel 1971. L'opera segna l'inizio di un nuovo stile poetico, caratterizzato da un discorso meno teso e franto, da un linguaggio volutamente semplice, da un tono spesso ironico e dall'apertura verso il mondo degli affetti familiari. Si tratta però di una "semplicità" che nasconde una tessitura formale ricca e complessa, benché meno esibita ed esplicita rispetto alle raccolte precedenti.  Negli "Xenia", una delle sezioni della raccolta, il poeta offre piccoli doni votivi alla moglie, morta nel '63, soprannominata "Mosca". Si genera quindi tutto un mondo di immagini che rimandano ai temi già trattati in precedenza, ma "abbassati" al livello di un discorso quotidiano; stralci minuziosi legati alla vita domestica,al cura e all'assennatezza della moglie, piccola e miope, dotata di un'infallibile intuizione, capace di smascherare "le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede".






"Tutto ciò che fanno gli uomini, desideri, timori, ire,

piaceri, gioie, frenesie, è l'impasto del mio libriccino."

(Giovenale, Serm. I, 85-86, I secolo d.C.)









"Chi vive in baracca, chi suda il salario
Chi ama l'amore e i sogni di gloria
Chi ruba pensioni, chi ha scarsa memoria
Chi mangia una volta, chi tira al bersaglio
Chi vuole l'aumento, chi gioca a Sanremo
Chi porta gli occhiali, chi va sotto un treno
Chi ama la zia, chi va a Porta Pia
Chi trova scontato, chi come ha trovato
Ma il cielo è sempre più blu."

(Rino Gaetano, Ma il cielo è sempre più blu, 1975)





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