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E' l'ultimo canto leopardiano, composto nel 1836 e pubblicato postumo a cura dell'amico Antonio Ranieri, che lo pose come ultimo a chiudere la serie dei 'Canti' seguendo le indicazioni del Leopardi stesso. In esso si riassume e si conclude tutta la polemica di quegli anni contro la filosofia spiritualistica ed in genere contro i falsi ideali e le vane illusioni a cui l'uomo del suo tempo pareva volgersi per negarsi la consapevolezza della realtà della sua condizione.
'La Ginestra' si propone come luogo dove il Leopardi concentra l'essenza della sua lunga e profonda riflessione sul significato della vita ed in sostanza consegna ai lettori le conclusioni definitive cui è giunto. In realtà la poesia non segna traguardi nuovi: vi troviamo in fondo gli elementi presenti da sempre nella concezione leopardiana e le conclusioni cui approda ora sono quelle disseminate lungo tutta la sua poesia. Troppo complessa è l'ispirazione del poeta, perché una distinzione fra i passi oratori-polemici e quelli d'indole lirica non finisca per immiserire la lettura. E' vero che a strofe intensamente ricche (come la prima) si alternano strofe polemiche (come la seconda: 'Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco, ') e strofe di amplissima meditazione cosmica (come la quarta 'Sovente in queste rive, / che, desolate, a bruno / veste il flutto indurato, e par che ondeggi, / seggo la notte Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, / cui di lontan fa specchio / il mare '). Le parole sdegnose nei confronti del proprio tempo che rinveniamo in 'La Ginestra' non costituiscono l'espressione di uno spirito reazionario, cieco dinanzi alle esigenze delle dottrine liberali; ma l'espressione di un animo che già aveva in se stesso, sin dalla prima maturità, esaurito e condannato i principi su cui si appoggiava la borghesia europea, per una divisione più avanzata dei rapporti umani, non volta alla guerra spietata delle libere iniziative, dei commerci, ma alla confederazione fraterna degli uomini contro la comune nemica. Non dunque una posizione reazionaria, ma volta, come in nessun altro componimento, alla pietà degli uomini, alla consapevolezza di un preciso dovere sociale, ad una volontà di messaggio, di evangelizzazione.
L'uomo è un essere casuale e senza scopo nell'immensità della vita universale, sottoposto ai capricci della natura distruttrice, alla quale non può opporre altro che il suo forsennato orgoglio privo di senso. Tuttavia essere cosciente della verità, quindi della propria condizione esistenziale è, secondo Leopardi, l'unica dignità, la sola nota di merito concessa all'uomo.
La poesia è dunque incentrata sulla fragilità dell'uomo e sulla malvagia potenza della natura, contro la quale l'essere umano non può nulla.
Stolto l'uomo, agli occhi del Leopardi, che nutre tanto orgoglio per le proprie scoperte e le proprie conquiste, mentre non si rende conto di quanto siano insignificanti. Debole, fragile, passeggero, l'uomo ha dunque una sola vera ricchezza: la sua dignità, ed è questa che deve difendere ad ogni costo, perché è l'unica cosa che lo distingue veramente dall'animale, vissuto e morto senza sapere nulla di sè.
Leopardi articola i suoi interventi in forma di: critica, polemica, proposta.
La critica investe l'orientamento spiritualistico prevalente nelle ideologie contemporanee e il modello di sviluppo sociale a cui guardavano i gruppi riformistici.
Leopardi si considera straniero nel suo tempo, rifiutando le mode ed i miti d'attualità, tra cui quello del 'progresso' del genere umano. A queste che considera teorie fuorvianti perché non tengono conto dei dati naturali della condizione umana, contrappone una filosofia 'dolorosa ma vera', il cui nocciolo consiste nel riconoscimento della materialità dell'uomo, della sua infelicità. E' una concezione antropologica, poiché si tratta di diffondere una cultura dell'uomo come essere cosciente della precarietà in cui vive e dell'annullamento a cui è destinato.
Per quanto concerne la polemica, l'autore si batte contro la pretesa di instaurare una felicità collettiva ignorando la situazione reale dell'individuo, perseguitato dalla natura nemica. I liberali sono detti 'sciocchi e ignoranti, gretti, meschini e del tutto incapaci di pensieri gentili e nobili' assieme a tutti quelli che promettono vane speranze di progresso e felicità.
Ed ecco quindi la proposta, il messaggio di solidarietà, di eroismo, per affrontare con lucidità la realtà, la coscienza del vero. Il suo ultimo appello alla fraternità è rivolto a tutti gli esseri umani: l'unico mezzo per sfuggire all'unica vera nemica comune (la Natura) è quello di cooperare in una lotta comune lasciando da parte inutili conflitti fratricidi.
Il poeta chiude il suo canto con il ritorno all'immagine della ginestra, da cui aveva preso l'avvio, intesa come mito e simbolo dell'unico atteggiamento possibile per l'uomo come per le altre forme caduche dell'immenso e ricorrente ciclo della vita materiale: la rassegnazione al dolore, la coscienza dell'umiltà della propria condizione, l'accettazione del Nulla come unica realtà da cui veniamo ed a cui siamo destinati.
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