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"Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l'inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un'anima grande che si trovi in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie; servono sempre di consolazione".
-Giacomo Leopardi-
Il conte Giacomo crebbe in un piccolo borgo marchigiano e, dotato di eccezionale intelligenza, non s'arrese all'ambiente asfittico del suo paese natale né si cullò su falsi allori, insuperbendo.
Da spirito libero, cercò l'evasione e il 1819 è una tappa decisiva in questa ricerca che segna per sempre la rottura con le "belle favole antiche".
Gravi problemi alla vista gli impediscono di leggere, unico svago per lui: nella solitudine e nell'infelicità, tramite la filosofia, giunge al ripudio della fede cristiana, avvicinandosi sempre più alla concezione materialistica. Così matura la fuga da casa Leopardi, identificata dal giovane poeta come una prigione, tanto che egli potrà "esser felice mendicando", piuttosto che"in mezzo a quanti
agi corporali possa godere in questo luogo".[1]
La fuga è, però, sventata dal padre e Giacomo precipita nel baratro. Eppure nella perdita totale, una luce: l'Infinito.
Come solo la vera poesia, questo componimento nasce dal dolore autentico"sublimato" in forme perfette, che non è espressione immediata del sentire, altrimenti si ridurrebbe a mero sfogo emozionale, ma è frutto di una
fase "purificatrice" del sentimento, meditato e ragionato nelle righe dello Zibaldone ( si vedano annotazioni dal 1819 al 1821) :
<<del sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l'animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L'anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere.Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch'è ingenita o congenita coll'esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita>>
unita ad un cuore che sente e spera.
Ecco che l'animo ribelle, impossibilitato dal fuggire, trova in sé, nella sua facoltà immaginativa, uno spiraglio (infinito) d'evasione.
Così, un colle, "folto di alberi e irto di sterpi a maniera di siepi", una visione concreta, (si noti il deittico "questo" da contrapporsi a "quello infinito silenzio"-v.10), può diventare pretesto per andare "al di là", magari complice la nebbiolina dell'orizzonte, e immaginare il doppio fantasioso del paesaggio che s'identifica con uno spazio illimitato.La poesia di Leopardi, infatti, ha il pregio di nascere da "dati sensibili" ai quali sono aggiunti "un paio d'ali" della fantasia e del sentimento soggettivo e un paesaggio può diventare "avventura storica del suo animo". Lo si nota anche dalla struttura del componimento nel quale, per ben due volte, si ripete il processo: sensazione visiva (sguardo impedito dalla siepe),fantasia (immaginazione di mondi sterminati e silenziosi),sentimento ("ove per poco il cor non si spaura"); sensazione uditiva (vento che stormisce tra le piante),fantasia (eternità, trascorrere del tempo), sentimento (e "il naufragar m'è dolce in questo mare").Questa corrispondenza-contrasto fra la concretezza del reale e l'indefinibilità di ciò che va oltre il reale, l'infinito, è sottolineata anche nel linguaggio: la concretezza di termini come "colle", "siepe", "orizzonte", "cor", "vento", "piante", "stagioni", si fonde con la trasparenza dei "sovrumani silenzi" e della "profondissima quiete".dello "eterno".Ed ecco il miracolo del Leopardi: "togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare"[2], ripudiando la banalizzazione utilitaristica del gergo ottocentesco senza rinunciare alla quotidianità di termini comuni.
Lui, potresti così chiamarlo "poeta della luna", abile nell'intessere una "parola poetica" così viva e meravigliosa,ma anche "poeta dalla luna",angelo caduto dal cielo con "reminiscenze del perduto etere": straordinaria sensibilità,un segno rapito della bellezza delle cose, calda volontà di godere la vita[3], ma il destino segnato: essere un uomo solo, vilipeso da tutti perché con il cuore troppo grande. Ed essendo solo, deve provvedere lui "solo" a salvarsi.
Ed egli ci prova. La poesia è la sua àncora.
L'Infinito è una delle poesie più significative del non arrendersi di fronte alla sua "situazione nel mondo", di rifiutare il naufragio annichilente della disperazione e di cercare una "deriva di salvezza".
"E il naufragar m'è dolce": verso, questo, che nel suo ermetismo, significa tutto.Rappresenta l'uomo moderno (infatti non v'è dubbio che Leopardi sia stato il primo grande poeta moderno e il primo esistenzialista della storia), che ha il coraggio di assumere su di sé la coscienza della propria "piccolezza" di fronte all'universo, ma che sente anche la tensione di "andare al di là dei dati fisici".verso l'immensità.
Ma il "cor si spaura" e la "ragione", che pur da se stessa, insieme alla fantasia, aveva creato i presupposti per il desiderio di questa immensità, viene meno.
Cede alla dolcezza di un appagamento totale che nulla ha di religioso, ma rappresenta la "meta ultima" della ragione, promessa futura di salvezza[4].
FONTI DI RICERCA:
Massimo Bontempelli, "L'uomo solo", Introduzioni e discorsi, Milano, Bompiani, 1945
Glauca Michelini, "E il naufragar <<ci>> è dolce in questo mare", Demetra S.R.L, 1995
A. Giudice - G. Bruni, Problemi e scrittori della letteratura italiana, vol. III, Torino, Paravia, 1973
Filo diretto con il Novecento : Giuseppe Ungaretti e "Allegria di naufragi"
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare".
-G.Ungaretti-
Un ponte diretto fra Giacomo Leopardi e il Novecento può essere stabilito con Giuseppe Ungaretti.
Fra i due poeti ci sono, infatti, due fondamentali punti di contatto: il primo è che Ungaretti guarda a Leopardi come esempio di forma perfetta; il secondo è che la sua poesia, come quella del vate recanatese, è di natura prevalentemente "esistenzialista", nascendo dall'esperienza personale di dolore, per l'uno la solitudine, i mali fisici e la quasi negazione della giovinezza; per l'altro, la tragedia della guerra.
L'esperienza di vivere con la morte accanto in ogni momento, però, cambia per sempre la figura del poeta "che ha partecipato e partecipa a rivolgimenti fra i tremendi della storia"[5]: da qui l'urgenza di esprimersi nell'immediatezza, in componimenti brevi, ma ricchi di significato perché ogni parola ha in sé un grande valore.
Il risultato è così una poesia che"sanguina", "uno schianto di nervi e delle ossa che apre il volo a fiori di fuoco a cruda lucidità che per vertigine faccia salire l'espressione dell'infinito distacco del sogno" [6], nella quale la ricerca della perfezione stilistica si frammenta e poi si ricompone nuovamente in una soluzione libera, ma rispettosa della "legge metrica",classica.
Fondamentale per comprendere il processo ungarettiano di "distruzione del verso" (sottoposto alla frammentarietà ermetica) e la sua ricomposizione all'insegna di una nuova classicità, è la prima raccolta ungarettiana: "Allegria di naufragi".
La maggior parte dei componimenti di quest' opera, infatti, sono brevi e fortemente ermetici, fatti di "vocaboli deposti nel silenzio come un lampo nella notte", mentre quelli finali sono distesi e classicheggianti.
A legarli il forte ossimoro della raccolta: "Allegria di naufragi". Naufragio perchè non c'è nessun oggetto che non rifletta al poeta la deriva totale, "la sua vita stessa, da capo a fondo" è naufragio.
Allegria è l'esultanza di un attimo che "soltanto amore può strappare al tempo"[7].L'attimo che rappresenta la speranza, "oltre il naufragio"che non è semplice abbandono.Di se stesso, infatti, Ungaretti scrive in "Vita di un uomo" (1969): "Non sono il poeta dell'abbandono alle delizie del sentimento, sono abituato a lottare (.): sdegno e coraggio di vivere sono stati la traccia della mia vita".
Andare verso una "deriva di salvezza" è però, per Ungaretti, esperienza che, a differenza di Leopardi, si risolve definitivamente nella fede religiosa, com'è evidente in Preghiera, uno degli ultimi componimenti da "L'Allegria di naufragi" nei quali è presente anche l'elaborazione, in itinere, di una nuova classicità.
Allorché dal barbaglio Quando mi desterò
delle promiscuità dal barbaglio della
mi desterò in attonita promiscuità
sfera di limpidità in una limpida e
attonita sfera
e porterò sui flutti Quando il mio peso
il peso mio mi sarà leggero
leggero
Concedimi Signore Il naufragio concedimi
di naufragare Signore
a quel bacio di quel giovane giorno
troppo forte al primo grido.
del giovine giorno.
Nei primi versi, è evidente la ricerca del poeta di "un paese innocente"che possa fargli dimenticare l'orrore vissuto.Non a caso, la scelta del termine dai suoni duri "barbaglio", ricercatezza stilistica per rendere l'immagine visiva del lampeggiare e l'insistenza dell'accento tonico sulle ultime parole del primo e del terzo verso, riproduce, foneticamente, la confusione di una vita in bilico fra gioia di vivere e inguaribili dolorose ferite.
Negli ultimi tre versi, il ritmo si fa disteso, senza forzature di suono, ad indicare l'approdo, tanto desiderato ad un "porto quieto", nella pace della morte.
In qualche modo, questo finale sembra ricordare "In morte del fratello Giovanni" del Foscolo, ma, nel caso ungarettiano, c'è la dimensione pienamente raggiunta del divino che maturerà dopo altre sofferte vicende esistenziali dolorose (come la morte del figlio), a testimoniare che anche "i superstiti" possono essere salvati.
FONTI DI RICERCA:
G.Ungaretti, Ragioni di una poesia, 1849.
G. Ungaretti, Vita d'un uomo, Monadadori, Milano, 1969
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