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LA DISTRUZIONE DEL TEMPO OGGETTIVO: da Sterne a Joyce
Nel 1760 Lawrence Sterne scrisse un romanzo completamente innovativo: "The life and opinions of Tristram Shandy", che sperimentava nuove strutture narrative e parodiava i romanzi del tempo. In questo romanzo, scritto in nove volumi, Tristram Shandy racconta tutta la sua vita. In realtà non c'è una vera e propria trama, sembra più che altro una raccolta di episodi, aneddoti e digressioni, senza connessione uno con l'altro, scritti per associazione di idee seguendo il flusso di coscienza, tecnica narrativa poi largamente utilizzata nel Novecento. Per Sterne non era importante descrivere gli eventi in ordine cronologico: quest'ultimo, infatti, non descrive nel miglior modo possibile la realtà, perché non rispecchia il disordine delle idee nella mente umana, dove le idee si sovrappongono e intrecciano apparentemente senza ordine. Secondo Sterne, la nostra vita, nei ricordi che conserviamo nella memoria, scorre impetuosamente come un fiume, in cui i pensieri sembrano associarsi per caso e vagare senza che sia possibile controllarli. Sterne, scrivendo questo romanzo, voleva fare una parodia della convenzionale concezione del tempo, in quanto secondo lui era impossibile far coincidere il tempo cronologico (tempo oggettivo) e il tempo della nostra mente (tempo soggettivo).
Was every day of my life to be as busy as this, - and to take up, -truce- [.]
Was every day of my life to be as busy as this- And why not? - And the transactions and opinions of it to take up as much description - And for what reason should they be cut short? as at this rate I should just live 364 times taster than I should write - It must follow, an' please your worship, that the more I write, the more I shall have to write . and consequently, the more your worships read, the more your worships will have to read.
Will this be good for your worships' eyes?»
(Sterne, The life and opinions of Tristram Shandy, Volume IV, Chapter 13)
Se ogni giorno della mia vita dovesse essere indaffarato come questo, - e occupare- pace- [.]
Se ogni giorno della mia vita dovesse essere indaffarato come questo - E perché no? - e le transazioni e le opinioni contenute in esso occupare altrettante descrizioni - E per qual motivo dovrebbero essere tagliate? di questo passo vivrei esattamente 364 volte più in fretta di quanto scriva - Ne segue, se piace alle vostre signorie, che più scrivo, più mi resta da scrivere - e in conseguenza, più le vostre signorie leggono, più avranno da leggere.
Ma farà bene agli occhi delle vostre signorie?»
(traduzione di Lidia Conetti)
La tecnica usata da Sterne, fu ripresa da James Joyce nel 1906 già nella raccolta di racconti intitolata "Dubliners" ("Gente di Dublino"), nel quale si fondono coscienza e inconscio, realtà e immaginazione. Nell' "Ulysses" poi viene eliminata ogni barriera tra la percezione reale delle cose e la rielaborazione mentale. La tecnica, infine, fu portata alle estreme conseguenze in una delle sue ultime opere: "Finnegans Wake" ("La veglia di Finnegan"), in cui la narrazione si svolge interamente all'interno di un sogno del protagonista. In questi ultimi due romanzi vengono abolite le normali norme della grammatica e della sintassi. Sparisce la punteggiatura e addirittura, nella riproduzione del confuso linguaggio dei sogni, nel "Finnegans Wake" le parole si fondono tra loro.
riverrun, past Eve and Adam's, from swerve of shore to bend of bay, bring us by a commodious vicus of recirculation back to Howrh Castle and Environs.
The fall of a once wallstrait oldparr is retaled early in bed and later on life down through all christian minstrelsy.»
(Joyce, Finnegans Wake, l'inizio del romanzo)
End here. Us then. Finn, again! Take. Bussofthee, mememormee! Till thousendsthee. Lps. The keys to. Given! A way a lone a last a loved a long the»
(Joyce, Finnegans Wake, la conclusione del romanzo)
Queste due brevi citazioni presentano una interessantissima concezione del tempo.
La prima parola del romanzo è "riverrun", che indica il fiume di Dublino, e nello stesso tempo ricorda l'italiano "riverranno". La ripetitività del tempo è quasi spiegata nel rigo successivo, dove l'autore fa riferimento alle teorie di Gianbattista Vico sulla ciclica ripetizione della storia. E' Joyce stesso a ricondurci a tale filosofo usando la parola "vicus".
La conclusione del romanzo sembra lasciata in sospeso: l'ultima parola è l'articolo determinativo "the". In realtà però la lettura del romanzo non è affatto finita: il lettore dovrebbe, infatti, tornare alla prima pagina per riprendere la lettura, una lettura che diventa quindi ciclica, trovando in questo modo la conclusione di quella frase lasciata apparentemente in sospeso.
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