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LA BALLEZZA MEDUSEA
Medusa nella mitologia greca
Una delle tre Gorgoni (in Omero si trova una sola Gorgone, mentre con Esiodo si trovano tre sorelle), figure terrificanti della mitologia antica, Medusa è mortale e viene rappresentata con la capigliatura di serpenti come le Erinni e con le zanne che sporgono dalla bocca. La visione di Medusa incute una sensazione d'orrore talmente forte che chiunque la guardi si tramuta in una pietra. Fu uccisa, per ordine del tiranno Polidette o della stessa Atena, da Perseo che, innalzatosi in aria con sandali alati e guardandone l'immagine riflessa in uno scudo per non essere pietrificato, le recise la testa mentre dormiva.
Medusa nelle Metamorfosi di Ovidio
Ovidio nella sua opera descrive sia la metamorfosi della Gorgone sia descrive alcuni episodi in cui ella usò i suoi poteri di render pietra tutti coloro che la guardavano negli occhi.
"Medusa era di una bellezza meravigliosa, e fu desiderata e contesa da molti pretendenti, e in tutta la sua persona nulla era più splendido dei suoi capelli. Ho conosciuto un tale che sosteneva di averla vista. Si dice che il signore del mare la violò in un tempio di Minerva: la figlia di giove si voltò indietro e si coprì i casti occhi con l'ègida, ma perché il fatto non restasse impunito, trasformò i capelli della Gorgone in schifosi serpenti. Ancor oggi Minerva, per sbigottire e atterrire i nemici, porta davanti, sul petto, i serpenti da lei stessa creati." (clarissima forma).
"«Poiché mi costringete voi stessi, mi farò aiutare da una nemica! Si volti dall'altra parte chi per caso mi è amico!» E tirò fuori la testa della Gorgone. «Cercati qualcun altro da spaventare coi tuoi prodigi!», disse Tescelo, e stava per scagliare un giavellotto micidiale, ma restò fissato in quell'atteggiamento, statua di marmo."
Tasso
L'episodio del canto III è illuminante per quanto riguarda il carattere di Tancredi e la funzione dell'amore nella sua vicenda. Il personaggio è costantemente presentato come forte e valoroso. Ma di fronte a Clorinda "impetra", perde la forza e la volontà, resta smarrito. Anche nel secondo scontro tra i due eroi, la vista di Clorinda sul colle paralizza di nuovo Tancredi, lo rende incerto e smarrito, gli fa dimenticare il dovere, tanto che un altro guerriero deve subentrare al suo posto.
Era, è vero, l'età del "le plus grand du Midi", come è stato definito Tasso dal Barrès (e più in generale da tutti i romantici che lo idolatravano), tutta piena degli spiriti della Controriforma, che insisteva sulla bellezza del martirio per la Fede, e di pitture fosche e cruente adornavano gli altari; ma non è senza significato che la poesia del Tasso tocchi alcune delle più alte cime in rappresentazioni dove la bellezza e la morte s'intrecciano. Ai suoi occhi il dolore pareva dar risalto alla bellezza, e il martirio esprimerne più commoventi note. Si è giustamente osservato come Olindo, legato al rogo accanto all'amata, sebbene in apparenza martire della Fede, non parli che il linguaggio dell'affetto ardente e della brama. La morte imminente sembra conferire un brivido nuovo all'amore, e Sofronia che, le molli braccia strette da aspre ritorte, con occhi pietosi rimira l'amante, appare più bella e desiderabile nel punto che è insidiata dal supplizio. Olindo è lieto di essere consorte del rogo:
Ed oh mia morte avventurosa a pieno!
Oh fortunati miei dolci martiri!
S'impetrerò che giunto seno a seno
L'anima mia ne la tua bocca spiri.
A ragione osserva il Donadoni che " l'episodio diceva una linea fondamentale della fisionomia del poeta: ed era un bisogno per lui di non indugiare ad esprimere una delle voci più profonde e più dolenti dell'anima sua"; e a ragione nota l'identità sostanziale del motivo con quello di Tancredi che uccide senza riconoscerla l'amata Clorinda, quella minore e maggiore sorella della Camilla dell'Eneide. Anche in questo episodio la tragicità conferisce un pathos più sottile alla bellezza:
La morte di Clorinda ci rivela tutto il suo significato quando ricordiamo l'accorato desiderio di Erminia, d'essere uccisa da Tancredi. Erminia (canto VI, st. 84-85) mescola coll'amore le idee di prigionia e di morte in modo assai caratteristico.
E quando Erminia ritrova Tancredi, egli è simile a un morto, dissanguato dal duello con Argante (canto XIX, st. 104 segg.). Ora Erminia la creatura sentimentale inebriata della sua voluttà di pianto, è, come è stato osservato, il Tasso medesimo.
Altrove, nell'Aminta, è la bellezza di Silvia a ricevere un più pungente fascino dalla penosa condizione a cui l'ha ridotta il satiro. Anche qui, l'amante si trova presso alla bella dolente; questa volta non per morire con lei o per ucciderla, ma per sciogliere i nodi coi quali il satiro l'ha avvinta all'albero.
Motivi estrinseci -il martirio per la fede nel caso della coppia Olindo-Sofronia, l'ignoranza circa il vero essere dell'avversario nel caso di Tancredi e Clorinda, la difesa contro il satiro nel caso di Aminta e Silvia- posson distrarci per un momento da quella che è la comune ispirazione del Tasso in codesti episodi, ispirazione che va ricercata in un peculiare senso di doloroso piacere assai affine a quello che ritroveremo in molti romantici.
Il bello meduseo in Goethe e in Shelley
Nessun quadro fece più impressione sull'animo di Shelley della Medusa che egli vide agli Uffizi. Di quell'esperienza scrive: «il suo orrore e la sua bellezza sono divini»; .«pure non è l'orrore quanto la grazia a impietrire lo spirito del riguardante,.»;.«'Tis the tempestuous loviness of terror..». Il dolore e il piacere si combinano in un'impressione unica; dai motivi stessi che dovrebbero ingenerare ribrezzo -il volto livido del capo tronco, il groviglio di vipere, il rigore della morte, la sinistra luce, gli animali schifosi- sgorga un nuovo senso di bellezza insidiata e contaminata, un brivido nuovo.
Si legge nel Faust :«E' vero sono gli occhi di una morta, che amorevole mano non chiuse.». La testa di donna giustiziata dagli occhi vitrei, l'orribile e affascinante Medusa, sarà l'oggetto dell'amor tenebroso di romantici e decadenti. Per i romantici la bellezza riceve risalto proprio da quelle cose che sembrano contraddirla: dalle cose orride; è bellezza tanto più gustata quanto più triste e dolente.
L'orrido bello, il bello triste, la bellezza e la morte
La scoperta dell'orrore come fonte di diletto e di bellezza finì per reagire sul concetto stesso della bellezza: l'orrido, da categoria del bello, finì per diventare uno degli elementi propri del bello: dal bellamente orrido si passò per gradi insensibili all'orribilmente bello. Quella della bellezza dell'orrido non può certo considerarsi come una scoperta del secolo XVIII, sebbene solo allora l'idea giungesse a piena coscienza. Si poteva estrarre dunque bellezza e poesia anche da materie generalmente considerate ignobili e ripugnanti. Non si finirebbe mai di citare testimonianze di scrittori romantici e decadenti sull'unione inseparabile del bello e del triste, su questa suprema bellezza che è bellezza maledetta. Victor Hugo, nelle cui vene non scorreva certo il sangue travagliato degli Shelley, dei Keats, dei Flaubert e dei Baudelaire, pure, sulle orme del Baudelaire, attestava solennemente la parentela della Bellezza colla Morte:
La Mort et la Beauté sont deux choses profondes
Qui contiennent tant d'ombre et d'azur qu'on dirait
Deux soeurs également terribles et fécondes
Ayant la même énigme et la même secret.
Tanto sorella, in verità, per i romantici, da fondersi in una sola erma bifronte di bellezza fatale, intrisa di corruzione e di melanconia, bellezza da cui tanto più copioso sgorga il godimento, quanto più il gusto ne è carico d'amarezza.
Così D'Annunzio, Bellezza che è Morte, come nella quartina dell'Hugo, bellezza letale i cui attributi sono gli stessi che nel poeta francese: profonde (profondità di dolore), terrible, féconde (fertilità spaventosa), qui contient d'ombre. (l'aspetto sublime dell'Ombra.).
Bellezza medusea, la bellezza dei romantici, intrisa di pena, di corruzione e di morte. La ritroveremo ala fine del secolo, quando la vedremo illuminarsi del sorriso della Gioconda. . D'Annunzio nella poesia Gorgon attribuisce il sorriso della Gioconda a una dama di bellezza tipicamente medusea:
Ella aveva diffuso in volto
Quel pallor cupo che adoro
Ne la bocca era il sorriso
Fulgidissimo e crudele
Che il divino Leonardo
Perseguì ne le sue tele.
Quel sorriso tristamente
Combattea con la dolcezza
De'lunghi occhi e dava un fascino
Sovrumano a la bellezza
De le teste feminili
Che il gran Vinci amava. Un fiore
Doloroso era la bocca...
La donna fatale
Di contro agli uomini deboli (l'artista maledetto, che profana tutti i valori e le convenzioni della società e si compiace di una vita misera e errabonda condotta attraverso il vizio della carne, l'uso dell'alcool e delle droghe; l'esteta -figura consacrata dall'Andrea Sperelli di D'Annunzio dal Dorian Gray di Wilde-, l'artista che vuole trasformare la sua vita in un'opera d'arte, sostituendo alle leggi morali quelle del bello andando costantemente alla ricerca di sensazioni squisite e rifiutando la vita comune della volgarità borghese ritirandosi in una sdegnosa solitudine circondato solo di opere d'arte; «l'inetto a vivere» - figura inaugurata da Dostoievskij e che ritorna anche nel Giorgio Aurispa di D'Annunzio- escluso dalla vita, che pulsa intorno a lui e a cui egli non sa partecipare per mancanza di energie vitali e che quindi può solo rifugiarsi nelle sue fantasie, compensatrici di una realtà frustante che talora sprofondano in una lucida follia), malati, incapaci di vivere, nella letteratura decadente si profila un'immagine antitetica di donna: la «donna fatale», dominatrice del maschio fragile e sottomesso, lussuriosa e perversa, crudele torturatrice, maga ammaliatrice al cui fascino non si può sfuggire, che succhia le energie vitali dell'uomo come un vampiro, lo porta alla follia, alla perdizione, alla distruzione. Di simili eroine pullulano i romanzi e le opere teatrali di D'Annunzio, in cui la donna è costantemente la Nemica ai sogni eroici dei protagonisti, ma la figura ricorre in tutta la letteratura europea del tempo, dalla Salomè di Wilde alla lulu di Wedekind alla «venere in pelliccia» di Masoch. Si verifica come un meccanismo di proiezione: la coscienza in crisi dell'uomo decadente, malato e debole, erige di fronte a sé la sua parte perduta, la sua forza dominatrice del reale, come una potenza esterna malefica e ostile, che lo insidia e lo minaccia, ed in cui si obiettivano le sue angosce e i suoi terrori. La «donna fatale» è quindi una figura che esprime conflitti profondi, e per questo appare l'equivalente dei "mostri" che emergono dagli incubi degli scrittori romantici: non per nulla essa assume tratti che sono propri di Satana, o carattere vampireschi ( soprattutto nella seconda metà dell'Ottocento al vampiro è associata una figura di donna).
Connesso a questo tipo di bellezza, all'azione, reale o immaginaria, che discende da quella contemplazione, al suo caractère maudit ( maledetto) corrisponde il caractère maudit dell'amore, e se da un lato leggiamo:
'Tis the tempestuous loveliness of terror,
dall'altro potremo scrivere:
I loved her, and destroy'd her!
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