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John Dewey
Opere principali
Il mio credo pedagogico (1897), Scuola e società (1899), Come pensiamo (1810), Democrazia e educazione (1916) Ricostruzione filosofica (1920), Esperienza e natura (1925), La ricerca della certezza (1930), Arte come esperienza (1934), Logica, teoria dell'indagine (1938)
Lo strumentalismo
Dewey chiama la forma di pragmatismo da lui professata strumentalismo. Questa concezione considera la conoscenza, non già come un rispecchiamento passivo di una realtà già data, ma come un processo attivo che contribuisce a costruire e a ordinare la realtà conosciuta. L'uomo è immerso e radicato nella natura, entro cui opera allo scopo di modificarla. Tutte le conoscenze, anche quelle in apparenza più astratte, come anche tutti i valori, da quelli artistici a quelli religiosi, sono da intendere come strumenti per mezzo dei quali gli uomini rispondono ai problemi che di volta in volta si presentano nella concretezza dei fatti. Si tratta, indubbiamente, di un naturalismo, in quanto non vengono considerate dimensioni estranee al contesto naturale, ma si può altresì osservare un persistente influsso da parte dell'idealismo tedesco, in particolare di Hegel. Non solo, infatti, non sussiste alcun dualismo metafisico tra spirito e materia, che sono aspetti di un'unica realtà fondamentale, ma l'attività conoscitiva trova il suo compito primario nella risoluzione e nel superamento dei conflitti. Il mondo non è, tuttavia, un ordinato manifestarsi della ragione, essendo esso irriducibilmente instabile e dominato dalla precarietà: in questo il filosofo statunitense differisce profondamente rispetto all'idealismo hegeliano.
L'esperienza
La realtà fondamentale è costituita, secondo Dewey, dall'esperienza: il pensiero e le cose materiali sono, infatti, prodotti derivati che si costruiscono all'interno dell'esperienza stessa. Questa, secondo la linea di fondo che già aveva indicato Peirce, non è costituita da stati interni al soggetto, quali erano le 'sensazioni' soggettive considerate da Locke e dall'empirismo classico del Seicento e del Settecento. L'esperienza è costituita da eventi oggettivi, che possono essere pubblicamente indicati mediante atti di ostensione. Le sensazioni interne alla mente non sono mai un dato originario, ma sono un prodotto della riflessione intellettuale. L'esperienza, in origine, cioè prima di ogni atto riflessivo, non è una forma di conoscenza, ma si manifesta nei modi fondamentali dell'avere o dell'essere. E' esperienza, in tal senso, una qualsiasi azione, come il mangiare o il parlare, oppure un desiderio, un timore, una gioia, una sofferenza. In ogni caso l'aspetto propriamente cognitivo non è mai primario.
Non c'è alcuna frattura tra l'ambito fisico e quello psichico. La realtà è quale si manifesta nell'esperienza: un flusso ininterrotto in continuo divenire, caratterizzato da mutamenti veloci oppure da aspetti relativamente più costanti che si presentano come 'strutture', ma sempre instabile. Che cosa, allora, determina all'interno di questo processo, il sorgere, da una parte, del pensiero e, in relazione ad esso, dell'oggetto reale? Per rispondere a questa domanda bisogna considerare che talora entro l'esperienza si manifesta il conflitto: qualcosa si oppone al suo fluire, come quando, per esempio, improvvisamente troviamo un fiume che ci impedisce di proseguire oltre.
L'indagine
E' il conflitto, determinato da un ostacolo che si oppone all'agire, che suscita il processo dell'indagine, la quale è per sua intrinseca natura un mezzo da utilizzare per il superamento di un ostacolo. L'esperienza, allora, ripiega su se stessa, intellettualizza il problema e produce le idee. Queste sono 'piani di azione', o 'ipotesi di lavoro' attraverso cui vengono suggerite le possibili maniere di risolvere la situazione problematica. L'elaborazione delle idee, ossia la considerazione delle conseguenze che da esse deriverebbero qualora le adottassimo, è il ragionamento. Fa seguito a questo l'esperimento, che sottopone al controllo dei fatti il piano operativo suggerito dall'idea ed elaborato per mezzo del ragionamento. Se un'idea risulta convalidata, ossia ci ha guidato con successo alla soluzione della difficoltà, allora si dice che è vera. 'Vero', dunque, non significa (come nella visione filosofica ereditata dal mondo greco) ciò che si adegua a una realtà già data e già definita, ma ciò che ci mette in condizione di risolvere con successo le situazioni problematiche. Il giudizio è il risultato conclusivo dell'indagine: esso stabilisce la nostra decisione, corroborata dall'esperienza, di risolvere un problema in una determinata maniera. Del giudizio che è stato ampiamente verificato alla prova dei fatti si dice che ha una asseribilità garantita.
Soggetto e oggetto
Tanto il soggetto quanto l'oggetto si costituiscono, come già si è osservato, attraverso il processo dell'indagine. Il soggetto è l'ambito in cui vengono suggeriti ed elaborati i piani operativi volti alla soluzione dei conflitti. L'oggetto è il complesso di caratteristiche e di distinzioni organicamente connesse che risulta nell'esperienza una volta che il conflitto è stato risolto. Esso è, dunque, un prodotto conclusivo della conoscenza, non un suo presupposto. Dobbiamo, tuttavia, riconoscere come oggetti quelli che sono stati elaborati come tali dal complesso di conoscenze che fino ad oggi ha elaborato il genere umano. In tal modo la realtà oggettiva, lungi dall'essere un prodotto del pensiero soggettivo, appare piuttosto come una costruzione sociale e storica. Soggetto e oggetto non sono mai entità isolate e contrapposte. Esse sussistono sempre nella reciproca transazione, una relazione che, sul modello di quelle che si instaurano nel commercio, crea essa stessa i termini che vi prendono parte, allo stesso modo in cui il compratore e il venditore non esistono come tali al di fuori della transazione commerciale a cui partecipano.
Etica, religione, pedagogia
Così come nella teoria della conoscenza Dewey aveva respinto ogni atteggiamento dualistico e aveva sostenuto la continuità tra ambito fisico e ambito psichico, anche per quel che riguarda la sfera etica egli ribadisce il proprio naturalismo e respinge ogni contrapposizione tra mondo dei valori e realtà dei fatti.
Anche nelle problematiche di ordine morale occorre, infatti, secondo il filosofo statunitense far valere il metodo sperimentale. Gli ideali morali, infatti, non sono valori eterni, sottratti al contesto concreto e storicamente determinato in cui opera l'uomo, ma sono strumenti attraverso cui gli uomini concretamente cercano di trasformare l'ambiente e di rispondere alle sfide che esso pone alla loro intelligenza. I valori morali, afferma Dewey, non sono paragonabili a un pugno di monete nascoste in una scatola, ma sono piuttosto da considerare come 'una pianta alla luce del sole e radicata nel terreno'. Solo l'errore dei filosofi, quella che egli chiama fallacia filosofica, tenta di trasformare le 'intuizioni morali', sempre legate a determinate circostanze ambientali, in 'antecedenti metafisici', di cui si presume una sussistenza eterna e sottratta al divenire storico.
Ma Dewey non esita a identificare la sua teoria sperimentale della morale con il presupposto stesso della democrazia. Il sistema democratico, infatti, postula la libertà degli individui, l'uguaglianza e la fratellanza. Questi valori sono altresì i tre pilastri su cui si regge, tanto nella ricerca scientifica quanto nella morale, il metodo sperimentale: la libertà della ricerca, l'esigenza di sottoporre a verifica ogni ipotesi, chiunque l'abbia sostenuta, e la collaborazione tra i ricercatori.
Arte e religione
In questo contesto si collocano anche le riflessioni di Dewey sull'arte e sulla religione, quelle che talora egli chiamò i 'fiori spontanei' della vita. Il godimento estetico non ci porta in una dimensione superiore separata dall'esperienza quotidiana. In questa, al contrario, l'emozione che ci offre l'arte è pienamente radicata. Ma l'arte, che sorge allorché l'eccitazione, la spontaneità e l'inventiva si uniscono alla quiete, all'ordine e alla necessità, è in grado di mettere in luce aspetti dell'esperienza che sfuggono alla dimensione propriamente intellettuale.
Nella prospettiva generale del suo naturalismo, anche per quel che riguarda la religione, Dewey non accetta l'idea di un Dio trascendente e soprannaturale, lontano dalla nostra concreta esperienza. Una religione basata sulla fede nel soprannaturale ha, d'altra parte, scarso impatto sull'esperienza dell'uomo. Sulla base di questa convinzione Dewey potè scrivere: 'la fede nella continua scoperta della verità attraverso forme razionali di collaborazione umana appare più religiosa di qualsiasi fede in una rivelazione definitiva'. La fede in Dio non significa, pertanto, l'accettazione di una prospettiva oltremondana, ma la fiducia nella possibilità di realizzare concretamente gli ideali. L'atteggiamento religioso consisterà, dunque, nell'abbracciare gli ideali in tutte le loro conseguenze e, se necessario, nel rinunciare al proprio tornaconto individuale o anche alla propria vita in nome di essi.
L'educazione progressiva
Anche l'interesse di Dewey per l'educazione e la scuola è strettamente connesso alle sue vedute filosofiche più generali. Fautore di una nuova concezione dell'educazione, da lui stesso denominata educazione progressiva, Dewey critica la contrapposizione, prevalente nella scuola tradizionale, tra la dimensione intellettuale e quella pratica e sostiene un apprendimento basato sul fare (learning by doing: 'apprendere attraverso il fare'). Grazie all'educazione il bambino diventa gradualmente partecipe della coscienza sociale, elaborata dall'umanità nel corso della storia. La scuola deve, allora, riprodurre al suo interno in forma embrionale la società; per questo essa è una forma di vita comunitaria in cui l'attività sociale del bambino funge da principio unificatore. Il bambino, con la sua attività e i suoi interessi diventa, dunque, il centro del processo educativo. La scuola non deve più trasmettere un sapere già definito ma deve far sì che il bambino, attraverso l'attività, la vita comunitaria e l'autodisciplina, pervenga al sapere come a una conquista propria e non si riduca a somministrare 'una dieta di materiali predigeriti'.
In generale l'educazione appare, quando si riflette su essa in un'ottica filosofica, come un processo di crescita dell'esperienza che arricchisce l'esperienza stessa di nuove prospettive e aumenta la possibilità da parte dell'uomo di esercitare su essa un controllo razionale. Per questa sua capacità di sviluppare le qualità dell'individuo in funzione sociale e per l'intrinseca capacità di sviluppare lo spirito scientifico e il metodo sperimentale, l'educazione diventa, nella visione di Dewey, lo strumento precipuo attraverso cui possono essere diffusi e sostenuti gli ideali della democrazia.
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