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Italo svevo (1861-1928), una vita (1892), senilitÀ (1898), la coscienza di zeno (1923)




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ITALO SVEVO  (1861-1928)


Un elemento biografico di Svevo che merita di essere sottolineato è la triestinità, vale a dire l'essere nato in una città particolare, crocevia di culture. Svevo ha, quindi, una cultura ampia che si estende dalla letteratura italiana a quella tedesca a quella slava.

Svevo ama molto anche la filosofia tedesca, in particolare Schopenhauer, conosciuto durante gli anni di studio in un collegio della Baviera. Trieste fu anche la prima città italiana in cui giunse la psicoanalisi di Freud, e lo stesso cognato di Svevo fu in analisi da Freud.

Svevo ci ha lasciato poche pagine di poetica, che, dunque, deve essere desunta direttamente dalle sue opere. Possiamo fissare, allora, alcuni punti fondamentali, il primo dei quali è che l'arte non può sfuggire alla vita, essa, cioè, non può rifugiarsi nella sfera consolatoria del mito, del simbolo, ma deve dare conto di quella oggettività nella quale siamo immersi e che ci condiziona. Ecco, dunque, spiegato il titolo del saggio di Salinari "Miti e Coscienza del Decadentismo italiano": Svevo e Pirandello, accomunati da importanti livelli di poetica, costituiscono appunto la coscienza della crisi dell'uomo contemporaneo, mentre al contrario Pascoli e D'Annunzio mascherano la crisi attraverso i miti dell'esteta, del super-uomo, del nido, e Fogazzaro, attraverso il misticismo delle sue ultime opere ("Il santo"), sogna una purificazione, un rinnovamento spirituale dell'uomo.

[Fogazzaro aderì al Modernismo, corrente di intellettuali che volevano conciliare il Vangelo con la scienza, volevano cioè conciliare due realtà profondamente antitetiche evoluzionismo e creazionismo].


Questo non significa però che Svevo intenda accostarsi all'oggettività naturalistica, né devono trarre in inganno i molti riferimenti oggettivi dei suoi romanzi (le piazze, i caffè, le banche, il porto di Trieste), in quanto tutti questi riferimenti concreti vengono presentati al lettore attraverso la coscienza dei personaggi. Essi sono, cioè, oggetto di una visione soggettiva e d'altro canto Svevo ebbe modo di criticare apertamente il naturalismo di Zola.

L'altro tema centrale della poetica di Svevo è quello della "malattia" del personaggio. Si tratta di una malattia dello spirito che determina l'incapacità del personaggio di aderire stabilmente alla realtà; il personaggio sveviano è preda di una malattia della volontà che prende il nome di inettitudine. Ha inizio, con Svevo, nella nostra narrativa del Novecento, quella tipologia dell'inetto destinata ad un grande avvenire, dal romanzo "Rubè" di Borgese (il critico che ha dato il nome ai Crepuscolari) a "Gli indifferenti" di Moravia, del 1929 (titolo che allude all'indifferenza morale dei personaggi, incapaci di reagire alla profonda corruzione della loro famiglia alto-borghese, che per Moravia altro non è che specchio del degrado morale della società fascista del tempo).

Il terzo motivo della poetica sveviana risiede nella razionalizzazione della malattia, che avviene dapprima attraverso la filosofia di Schopenhauer, e più tardi attraverso la psicoanalisi di Freud.


Svevo ci ha lasciato sia novelle che commedie, ma la sua fama è legata soprattutto ai tre romanzi: "Una vita" del 1892, "Senilità" del 1898 e "La coscienza di Zeno" del 1923, il suo capolavoro; si noti che dal secondo al terzo romanzo sono trascorsi ben 25 anni, sia per la guerra, sia per il fatto che nessuno lo considerava).

Questi tre romanzi prendono in esame tre tappe fondamentali della vita, tre momenti simbolici della vita dell'uomo: la giovinezza, la maturità, l'incipiente vecchiaia.


Una vita (1892)

In "Una vita" Svevo scrive la storia di Alfonso Nitti, un giovane che dalla campagna si trasferisce a lavorare in banca a Trieste (da notare che anche Svevo aveva lavorato in banca per un certo periodo) e si innamora della figlia del signor Maller (il proprietario della banca), Annetta corteggiata anche da Macario, giovane brillante e sicuro di sé. Alfonso coltiva interessi e sogni letterari, così come Annetta, e frequentandosi, nasce l'amore. Alfonso è il primo degli inetti sveviani, infatti egli non riesce a integrarsi nell'ambiente triestino, rimane un disadattato, e inoltre non ha il coraggio di portare fino in fondo la relazione con Annetta. Di fronte alle difficoltà di questo rapporto, finisce per approdare al suicidio; sentendosi incapace alla vita preferisce trovar scampo nella morte.

Una prima chiave di lettura del romanzo può essere quella darwiniana, nel senso che noi assistiamo al contrasto tra il debole Alfonso e uomini che lottano con tutte le loro forze per la vita, come Macario e il signor Maller. Per ora, questo contrasto fra il debole e i forti si conclude con la sconfitta del primo, Alfonso, che si suicida. L'inettitudine, dunque, è, per ora, causa di rovina, ma verrà poi il momento, nella poetica di Svevo, in cui la malattia diverrà sinonimo di salute e di vittoria. Questo romanzo suscitò qualche eco nell'ambiente triestino, e incoraggiò Svevo a cimentarsi in una seconda prova, "Senilità".


Senilità (1898)

Questo romanzo racconta la storia di Emilio Brentani, uomo che vive una vita ritirata nell'ombra materna della sorella Amalia, ma, nonostante ciò, egli possiede una carica vitale più viva di quella di Alfonso, il protagonista di "Una vita". Emilio, infatti, coltiva l'amicizia con Stefano Balli e almeno una volta scende a patti con l'amore per la splendida e sensuale Angiolina, della quale egli si fabbrica una immagine angelica del tutto lontano dalla realtà. In effetti, Emilio è un inetto che, non avendo il coraggio di affrontare le situazioni, si autoinganna, si crea degli alibi tranquillizzanti. Egli è dunque un personaggio inattendibile, ma interviene il narratore eterodiegetico (terza persona) a smascherare gli autoinganni, presentando Emilio nella sua pochezza, nella sua fragilità. Se l'abulico Emilio è riuscito a vincere per qualche tempo la paralisi della volontà e a mostrare qualche segno di vitalismo, le avversità determinate dalla rottura con Angiolina e dalla morte della sorella lo rinchiudono definitivamente nel cerchio della sua apatia. Egli si adagia, allora, in un equilibrio spirituale fantastico, fondendo, appunto, con la fantasia e l'immaginazione, la dolcezza della sorella con la bellezza di Angiolina. Egli ripensa spesso alle due donne della sua vita e trova pace proprio nella dimensione dell'immaginazione. Il romanzo può essere letto in chiave freudiana come esempio di antagonismo tra Eros e Thanatos, cioè tra il principio vitalistico dell'amore e il principio distruttivo della morte. Il contrasto si conclude con la vittoria di Thanatos, che però non comporta per Emilio la privazione della vita (a differenza di Alfonso), bensì un prudente aggiramento delle istanze vitalistiche, che portano il personaggio ad aggirare le istanze vitali e ad adeguarsi allo stadio esistenziale più basso, che è quello puramente vegetativo dell'Emilio delle ultime pagine.


La coscienza di Zeno (1923)

"La coscienza di Zeno" è la storia di una autoanalisi. Zeno Cosini, giunto alle soglie dei 60 anni, intende capire le motivazioni della nevrosi di cui soffre, che si traduce anche in malattie psico-somatiche che gli provocano balbuzie e claudicamento. Il "dottor S.", lo psicanalista da cui è in cura, lo invita a scrivere una sorta di diario della sua vita, andando indietro nel tempo il più possibile, perché è nell'infanzia che si pongono le premesse delle future nevrosi. Ad un certo punto, tuttavia, dopo aver ripercorso gli eventi di fondo della sua vita, Zeno interrompe l'analisi, insoddisfatto della diagnosi del "dottor S.", che vede la causa delle sue nevrosi nel solito complesso di Edipo. Per Zeno quella diagnosi è insufficiente: c'è in lui una crisi profonda che, a suo parere, va ben oltre il fatto di aver amato la madre e odiato il padre. Dunque Zeno abbandona l'analisi e il "dottor S.", per vendicarsi pubblica il romanzo, che è poi quello che noi leggiamo. Quanto a Zeno, costretto dagli eventi a muoversi con le sue sole forze, egli è costretto a tirar fuori le unghie, riuscendo a diventare un finanziere di successo e a superare anche le sue "malattie". "La coscienza di Zeno" non è un romanzo sulla psicanalisi, anche perché Svevo inserisce elementi che dal punto di vista psicoanalitico sono delle eresie, come per esempio l'autoanalisi. Zeno è sicuramente un inetto, anche se è stato definito un inetto "per troppa grazia", poiché possiede in partenza molte attitudini, ma non sa scegliere quale assecondare e sviluppare per realizzarsi in una unica direzione precisa. Si abbandona allora a un comodo disimpegno, lasciando che siano gli altri che scelgano per lui (ad esempio la moglie Augusta). Da aggiungere, però, che le non-scelte di Zeno, l'abbandonarsi al caso, si rivelano singolarmente felici (è il caso del suo matrimonio con Augusta). Certo, Zeno è un personaggio meno infelice di Emilio e di Alfonso (i protagonisti degli altri due romanzi), in quanto l'appartenenza borghese fa sì che il bel mondo triestino gli perdoni le sue molte stranezze. L'abulia (il non-volere) di Zeno ha sicuramente una componente inconscia e deriva dal forte contrasto con il padre, uomo solido e di poche ma solide certezze (mentre lui di certezze non ne aveva nemmeno una). Il suo odio verso il padre si rivela in modo clamoroso nel momento in cui questi muore, dopo avergli dato un terribile schiaffo; Zeno ricorrerà al solito autoinganno (alibi) per mascherare a se stesso l'odio del padre nei suoi confronti: il dottore aveva detto di tenerlo a letto, di non farlo muovere perché era molto malato, ma lui poco prima di morire si è ribellato, si è alzato a sedere e gli ha mollato uno schiaffo, ecco perché è morto. Zeno si  fingeva buono col padre malato, e credeva di fare il suo bene tenendolo fermo a letto, ma in realtà, egli ha compreso benissimo che lo schiaffo è la reazione paterna all'odio reciproco, dissimulato per tutta la vita, e quel gesto rimarrà indimenticabile nella coscienza di Zeno. In ogni caso, la malattia lascia trasparire in questo romanzo tutte le sue possibilità di salvezza: non solo Zeno non si uccide (come ha fatto Alfonso), ma riesce a diventare un abile commerciante, e a superare le manifestazioni esteriori del suo disagio interiore, spirituale (le malattie psico-somatiche). La spiegazione di questa "guarigione" va ricercata, ancora una volta, nella psicanalisi: guarire, infatti, poteva significare perdere la parte più autentica di sé, cristallizzarsi in una parte (v. Pirandello), rinunciare al "principio di piacere" a cui l'uomo aspira, per adattarsi al "principio di realtà", cioè alle convenzioni e alle regole sociali (come dice Pirandello: "accettare le trappole dell'esistenza", i sistemi sociali che imprigionano l'uomo e lo privano della sua originalità).

C'è una linea poetica, allora, che da Svevo porta a Pirandello: per entrambi la vita è un fluire continuo dell'essere, che l'uomo cerca di contrastare, per bloccarsi in una "forma", in un essere immutabile; ma in quello stesso momento l'uomo segna la sua condanna: rinuncia al suo essere più autentico per adeguarsi alle convenzioni della realtà.

Nel romanzo "La coscienza di Zeno", le figure di successo (i cosiddetti integrati) sono soggetti al fallimento, il contrario di quanto accade nel primo romanzo "Una vita": Guido, infatti, si suicida in modo sciocco e la bella Ada vede sparire la sua bellezza a causa di una deturpante malattia. Invece Zeno, il debole, l'inetto, riesce ad adeguarsi agevolmente ai cambiamenti della realtà proprio perché non ha legami profondi con essa, risultando alla fine vincitore. Gli integrati, quelli che apparentemente hanno vinto la lotta per la vita, rimangono invece spiazzati dal cambiamento della realtà ed entrano in crisi.

In conclusione, il significato della malattia (l'inettitudine) nel romanzo "La coscienza di Zeno" si ribalta rispetto a quello del primo romanzo, divenendo sinonimo di salute, salute originale finché si vuole, ma pur sempre salute, in un mondo dominato a tal punto dall'imprevisto che i progetti più sapienti vanno incontro alle più sorprendenti smentite e sconfitte. Ha allora ragione il critico che ha scritto che questo romanzo non è tanto la storia di un tentativo di guarigione, ma piuttosto è il racconto di una resistenza alla salute perché guarire, accettare la diagnosi del "dottor S.", vuol dire adattarsi al principio di realtà e quindi alienarsi: rifiutando il "principio di realtà", appaio agli altri una persona stramba, ma salvo la mia salute.

Se per il singolo la salute è possibile, essa però non lo è per l'umanità. Svevo, infatti, conclude il romanzo con una pagina apocalittica nella quale prospetta una distruzione globale del mondo: è la vita che è malata, non il singolo uomo; i germi della malattia si trovano dappertutto e solo una gigantesca esplosione potrà liberare la Terra dai parassiti e dalle malattie.

Per quanto riguarda il piano stilistico, il romanzo è omodiegetico: il narratore è il protagonista, che parla di sé con una coincidenza tra io-narrante e io-narrato. Zeno però è un narratore inattendibile che ricorre a degli autoinganni, a degli alibi (si pensi, ad esempio, all'episodio della morte del padre).

Lo stile prevalente è il monologo interiore, che è stato erroneamente accostato allo "stream of consciousness", che è la trascrizione immediata di tutto ciò che passa nella coscienza del personaggio, senza ordinamento logico-sintattico (si pensi al monologo di "Molly", nell'"Ulisses" di Joyce). Il monologo interiore, invece, è costituito dalle espressioni immediate dei pensieri del personaggio, che non vengono introdotti da alcun verba dicendi o verba cogitandi.

Il romanzo è suddiviso in sei lunghi capitoli, oltre al prologo e all'epilogo, posti non in successione cronologica, ma come in parallelo tra loro, con un continuo alternarsi tra passato e presente (tempo misto); uno stesso particolare può tornare alla luce in diversi punti del romanzo, visto da angolazioni diverse, a seconda dell'evoluzione psicologica di Zeno.

Al centro del romanzo sta, dunque, la memoria, così come al centro del romanzo di Proust "Alla ricerca del tempo perduto", che Proust iniziò a pubblicò nel 1921. La concezione del tempo come "tempo della coscienza", come memoria, (sull'influenza del filosofo francese Bergson) ha profondamente influenzato questa letteratura memoriale. C'è però una profonda differenza tra i due scrittori: per Proust il passato recuperato dalla memoria è un mito luminoso e intangibile, mentre il passato di Svevo appare problematico. L'io-narrante giudica le vicende con occhi diversi da quelli di un tempo, di quando, cioè, visse quelle vicende: il passato, insomma, viene giudicato dalla coscienza, dalla mente di Zeno, sul filo di una concezione della vita che è vista come assurdo, come follia (v. Pirandello).


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