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Intervista ad Enrico Fantoni




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Intervista ad Enrico Fantoni



Enrico Fantoni è un ex redattore di Sosta Forzata, è un acuto scrittore, è un appassionato di libri, è un padre, è un fratello, è un uomo che è arrivato alla consapevolezza dei suoi errori anche attraverso lo scrivere. In questa intervista dai toni informali abbiamo cercato di riflettere sul suo vivere in prima persona la scrittura in carcere.



All'interno della mia tesi intendo dimostrare come la scrittura venga in aiuto ai detenuti e al loro percorso riabilitativo. Lei che ha vissuto questa esperienza in prima persona, può spiegarci come ci si avvicina alla scrittura, quale è stato il suo approccio iniziale?


Innanzi tutto penso che la scrittura derivi dal leggere, non scrivi se non leggi molto.

La scrittura parte dalla volontà di dire il perché un uomo è arrivato a quel punto della vita, perché è finito in carcere; non tanto per scusarsi, ma per trovare motivazioni in se stesso del fatto che è diverso dagli altri, perché gli altri vanno a lavorare dal mattino alla sera, hanno una famiglia da mantenere, non si pongono il problema di essere stupidi o furbi se si alzano alle 6.15 del mattino e tornano a casa alle 7 di sera. La scrittura nasce dal cercare un confronto con se stessi, però è indispensabile senz'altro molta, molta lettura.


Quindi per lei scrivere è stato qualcosa di spontaneo?


Assolutamente sì. Io la prima carcerazione lunga la feci nel 1983, leggevo molto il giornale e rispondevo spesso a lettere al direttore sul Corriere della Sera, e molte di queste venivano pubblicate. Molte erano di tema politico, siccome ero inferocito con la magistratura perché ritenevo di essere stato condannato senza un minimo di prova, e non solo, ritenevo di aver ricevuto una condanna sproporzionata, e tuttora lo penso, alle mie responsabilità oggettive che avevo in quel determinato contesto. Non vedevo l'ora di attaccare qualche magistrato che commetteva qualche stupidaggine. Se sei in prigione ti rendi conto che i magistrati ne fanno tantissime, anche perché il "libero convincimento", che loro così definiscono, non è altro che totale arbitrio.

Lo leggiamo anche sui giornali, notizie su gente che viene scoperta innocente dopo anni di reclusione, per cui, con cosa sono stati condannati? solamente col libero convincimento.

Scrivevo molto e molte lettere mi venivano pubblicate. Poi cominciai a scrivere anche di me, scrissi una commedia in un atto che parlava di un magistrato che veniva sequestrato da un' entità, i personaggi coinvolti nella storia erano solo due: il magistrato, che veniva rinchiuso in una villa e l'altro personaggio che faceva da detenuto, guardia carceraria e giudice. Ogni volta che parlava con il magistrato il lessico si adeguava al suo status: il detenuto parlava in modo semplice, nello status di agente di custodia parlava in modo arrogante, quando parlava da magistrato usava termini veramente appropriati, con grosse nozioni di legge. Quel racconto venne molto lodato.

Tutto quello che si scrive in carcere è autobiografico, sempre per la volontà di dare una spiegazione a te stesso e agli altri del percorso che hai seguito, quasi per cercare non scuse, ma attenuanti, allo scempio che uno fa della propria vita. Un detenuto lo sa benissimo che fa uno scempio della sua vita, entrando ed uscendo dal carcere, oppure scegliendo una via sbagliata, più o meno consciamente si rende conto di ciò che sta facendo.

Specialmente quando arriva ad una certa età, fa un bilancio, vede che i tempi sono passati, che non riesce più ad inserirsi in qui contesti malavitosi in cui era inserito prima, perché cambiano anche quei contesti, c'è gente nuova. Per cui vede che è un pesce fuor d'acqua da tutte le parti.

Ognuno si fa un suo personale concetto di moralità, in cui ci si trova comodo: "questo non si fa perchè è brutto, mentre quest'altra cosa si può fare", ognuno si crea delle sue spiegazione, si auto-assolve in certi casi ,mentre in molti altri si condanna o si maledice come a volte faccio anch'io con me stesso.


Tornando alla  volontà di dare spiegazioni a te stesso e gli altri, hai utilizzato la scrittura anche per comunicare alla tua famiglia, per mantenere gli affetti?


Quando si intraprende una vita di "balorderie", chiamiamole così, fuori dal contesto della società, fuori da certi canoni, sei così preso da tutto quello che c'è all'esterno che è veramente difficile fare attenzione alla famiglia, dedichi quell'attenzione necessaria, che moralmente ritieni giusta, congrua: denaro e un minimo di presenza. Sei troppo preso da quei contesti malavitosi dell'esterno che non riesci a dedicarti ad altro, sei troppo lusingato dalle altre cose.

Non dico sia una vita facile, perché non è una vita facile, però è senz'altro una vita di continui accadimenti, ogni volta c'è un problema nuovo, che ti distrae la mente da quello che può essere una famiglia, dagli affetti, diventando anche più cinico. Non dico che nella vita di una persona normale non succedano queste cose, la vita di una persona normale non l'ho provata per cui non sono sicuro che questo possa accadere. Ammesso e non concesso che vi siano persone normali.

Perciò non ho usato la scrittura per parlare ai miei cari, avevo la presunzione che dovessero capirmi, forse, ma solo adesso me ne rendo conto. Dal momento che riuscivo a mandare un figlio all'Università, o potevo mandarli al mare due mesi all'anno, io mi sentivo assolto. Stupidamente mi sentivo assolto invece non è solo quello che serve ai ragazzi, a una moglie o a una famiglia.


I rapporti con loro, quindi, erano mantenuto solo attraverso i colloqui?


Quando ero detenuto, i miei figli non è che li volessi vedere molto, scrissi, ma loro a fronte del fatto che io mi ero comportato così, non per farmela pagare, ma non mi risposero mai, risposero ad una lettera o due ma poi si disinteressarono, anche se pur dal carcere io mandavo costantemente a loro del denaro a casa per il mantenimento. Forse pensavano: "non c'è, ma non è che quando era qui lo vedevamo molto più spesso", non li condanno neanche per questo.

In ogni caso non è per loro che scrivevo, forse egoisticamente scrivevo per me stesso, perché ero ancora egoista, per dare una motivazione alla mia vita, per non arrivare al pensiero di aver commesso solo uno scempio e basta. In effetti ho commesso uno scempio, dei danni a me stesso che forse sono irreparabili, ma sarà il futuro a deciderlo.

Però c'è una bella lettera che mio figlio mi scrisse in carcere che poi Carla pubblicò sul giornale.

Siccome i figlio li ho tirati su con pochi soldi in tasca, perché molto denaro aveva fatto del male a me, mio figlio è cresciuto molto censore, laureato in matematica ligio al dovere, e mi scrisse in quella lettera che sarà il futuro a dire se mi merito fiducia. C'è una forma di incomunicabilità col figlio maggiore, il minore è molto più superficiale, è riuscitissimo nel mestiere di personal-trainer, body builder, a lui questo lavoro piace tantissimo, ha un fisico molto curato e si è realizzato così. Lui nella sua superficialità non ha mai espresso giudizi su di me, o almeno non li ha mai manifestati, solamente che in tutti gli anni di galera che ho fatto dall'83 al 99 mi hanno scritto una volta o due, e io mi arrabbiavo, e scrivevo a loro. Però è normale perché quando ero recluso non è che cambiava molto da quando c'ero perciò non posso arrabbiarmi con loro, devo arrabbiarmi solo con me stesso. E queste lettere a loro non le ho mai scritte, anche se avrei dovuto scrivere ugualmente, anche senza ricevere risposta ma dovevo farlo, anche per motivare me stesso, fargli sapere che volevo loro bene, ho sbagliato anche lì, ho sbagliato.


Hai mai scritto lettere amorose dal carcere?


Sai, io penso veramente di non essere stato mai innamorato di nessuna donna. La cosa mi preoccupa. Ho avuto qualche trasposto affettivo ma nulla di più. Innamorato per quello che intendi tu penso di non esserlo mai stato.

Ti racconto una cosa: quando ero in prima o seconda madia, ero molto "effervescente" così che la professoressa mandò a chiamare mia madre perché sospettava che io non fossi molto "normale". Allora mia madre preoccupatissima mi portò da uno psicologo, quello mi fece parlare, poi iniziando a parlare di storia vide che mi infervorai a spiegare di Annibale, Asdrubale, Spagna, etc. Alla fine lui disse che ero un ragazzino normalissimo.

Ma a volte mi torna in mente questa cosa, e mi chiedo, forse non sono normale totalmente? nel modo di travisare la vita? perchè io l'ho certamente travisata.

Non dovevo arrivare al punto di spenderla in quel modo, capisco che la vita di una persona normale ai miei occhi può essere monotona, sapere  precisamente dove sarai il 28 Settembre, che se non sarai in ferie allora sarai a lavoro in un determinato posto. Questo non lo accettavo.


Nella tua scrittura hai notato una progressiva consapevolezza verso te stesso?


Assolutamente sì. Non solo, ma anche attraverso la lettura. Lettura e scrittura ribadisco che sono complementari. La scrittura nasce dalla lettura. Leggevo, arrivando, a volte, a capirne il 2%, il 3%, a seconda del grado di maturazione che avevo in quel momento. Leggevo anche testi impegnativi, per esempio San Agostino, ed elaboravo quei concetti che trovavo, cercavo di elaborarli. Non è molto ma sono arrivato alla determinazione che ho fatto veramente un danno.


Nelle tue scrittura di te, hai visto un cambiamento per quanto riguarda la profondità di riflessione, da quando hai incominciato fino a questi ultimi anni nel quale hai anche partecipato ai primi numeri di Sosta Forzata?


Senz'altro sì, anche perché non leggevo solo quello che scrivevo io, ma leggevo anche di altri, e paragonavo le situazioni sociali, paragonavo gli altri a me stesso, e ancora una volta, mi rendevo conto di essere partito con un bagaglio maggiore, e di essere, per questo motivo, ancora più colpevole. Facendo un confronto nelle scritture che leggevo, pensavo "Ma questo ragazzino è andato rubare perché non aveva da mangiare, perché non aveva un letto, perchè in famiglia non riuscivano ad apparecchiare il tavolo, a me non è successo questo". Allora con questi paragoni, davo maggiore condanna a me stesso.

Comunque ogni volta che scrivevo e mi rileggevo, era uno stimolo per andare avanti a scrivere, perché capivo che con lo scrivere potevo scrutarmi meglio.

Mettendo nero su bianco e poi rileggendomi, ogni volta era un gradino in più che salivo per cercare di arrivare a capire che cosa ho combinato. Adesso non so a che punto della scala sono arrivato, non lo so ancora visto che non è finita, c'è questa speranza di poter riscattare qualche cosa, di poter riscattare tutti i disastri che ho combinato, tutte le macerie che ho lasciato dietro di me. [1]


Quindi non era uno scrivere ad una persona, era uno scrivere a te stesso, oppure a un tu generico?


Sì, a un tu generico per motivare me stesso, per dire: perché hai fatto queste stupidaggini? come ci sei arrivato? Sotto qualche aspetto, forse inconsciamente, per cercare attenuanti al mio comportamento.


Stai continuando a scrivere anche adesso che non sei più detenuto?


Adesso, mi sono un attimo fermato. Durante la giornata ho delle precise impellenze, dato che sono fuori dal carcere ma tutti i giorni devo firmare . Il mio progetto era andare via da Milano, ma a causa di questo obbligo non posso muovermi da qui. Mi sento un po' inutile adesso, andare a lavorare con mia sorella in negozio, aiutarla, non mi appaga. Prima anche se nelle "balorderie", mi inventavo qualche cosa, la facevo, la portavo a complimento e questo mi dava soddisfazione economica e mi dava stimoli. Vendere i vestiti non è per niente appagante, vedere che taglia ha il cliente non mi appaga, anche se è la normalità dato che un sacco di persone vendono vestiti per tutta la vita. A fronte delle emozioni che provavo una volta capire la taglia di un cliente e convincerlo a comprare un vestito non è il massimo della vita, però bisogna cercare di adeguarsi.


Cosa scatta dentro a un detenuto quando dalla totale assenza di scrittura inizia a scrivere della sua vita?


Io incominciai a scrivere nel 1983. Un amico di Don Luigi aveva un ristorante ed io andavo spesso lì a mangiare, quando entrai in carcere mi venne a trovare e mi portò una Bibbia. Iniziai in quel momento a leggere, anche prima lo facevo, ma molto distrattamente. Incominciai a leggere la Bibbia, e la lessi molto velocemente, due o tre volte durante quella carcerazione.

Un altro testo che mi ha sempre appassionato è I Promessi Sposi, lo avrò letto 7, 8, 10 volte, ogni tanto apro il libro in un punto qualsiasi e lo rileggo. Ogni volta a fronte della maturazione che avanza scopro qualcosa di nuovo che non avevo intravisto prima. Questo testoi ps penso siano anche psicologia, molto sottile. Quello che mi sono sempre chiesto è come Manzoni, che avrebbe dovuto essere una persona molto metodica, timorata di Dio, potesse analizzare ciò che aveva in mente l'Innominato, capire i suoi patimenti e i suoi travagli. Mi viene da pensare che forse Manzoni ha trovato nella sua vita questi travagli per esprimerli e descriverli in modo così perfetto, perché i travagli dell'Innominato per certi versi posso averli provati anch'io. Questo mi stupisce, scrivi e parli di ciò che sai e conosci generalmente, Manzoni come poteva conoscere questi travagli interiori?


Ti capita di rileggere più volte quello che hai scritto tu?


Sì, mi capita, e non cambierei proprio una virgola di quello che ho scritto. Vedo che era un analisi molto lucida, anzi a volte mi stupisco e dico: ma è possibile che l'abbai scritto io? Ho messo per iscritto tutte quelle sensazioni che ritengo vere, e le leggo con piacere e mi rifletto veramente, anche perché quando scrivo generalmente cerco sempre di dire la verità, che mi sia anche sgradita ma cerco di dirla. Scrivendo parlavo a me stesso, non so a che altro tipo di auditorio pensassi, non la famiglia, non gli altri, forse volevo trasferire a qualcuno la mia esperienza, parlare dei miei errori, più o meno consciamente. Quando sei in prigione vedi delle persone che commettono tali stupidaggini che vorresti fargli capire che innanzitutto fanno del male a se stessi. Da un punto di vista di convenienza non hanno alcuna possibilità di farla franca, per cui ti spiace che la gente si distrugga la vita in questo modo.




Hai fatto sempre leggere quello che scrivi o hai qualcosa che non hai mai fatto leggere a nessuno?


C'è qualche cosa che non ho fatto leggere a nessuno, ma io sono molto distratto, non conservo queste cose, le ho buttate giù per me, per rivedermici dentro, per confrontarmi. Molte cose sono andate perse, le ho distrutte , le ho dimenticate. Non perché non valessero, ma valevano in quel preciso momento in cui le ho scritte.


La scrittura ti ha aiutato anche a capire il perché hai preso quella strada?


Sono piccoli i gradini che uno deve fare, sono progressivi, bisogna fare un gradino alla volta per arrivare in cima, senza saltare passaggi. Se no non capisci. non hai abbastanza maturità, non hai fatto i passi precedenti

Ho scritto qualcosa per rispondere alla domanda che possono fare tutti e cioè il perché ho iniziato a delinquere. Io ricordo che andavo a trovare mio padre in prigione a S.Vittore, lui era un modesto ladro, e vedevo le guardie carcerarie che aprivano e chiudevano le porte e io pensavo che fossero loro a tenere lì dentro mio papà, che fossero loro i responsabili. Allora mi nacque un senso di rivolta verso tutto ciò che era potere costituito, tutto ciò che era divisa, i vigili che vedevi passare, per esempio, polizia e carabinieri, li guardavo così, nella mia ottica di bambino. Non capivo che alla fine quello era il risultato del comportamento di mio padre, ovviamente da bambino non potevo attribuire a lui le colpe, allora avevo un senso di rifiuto verso l'ordine costituito, verso tutto ciò che aveva una divisa per me era una minaccia. Nessuno me l'ha instillata questa logica, mio padre non parlava mai di queste cosa, mi si era creata andandolo a trovare, per cui ho acquisito questo rifiuto per la società a fronte anche della vita che avevo vissuto.


* *


Le parole di Enrico rivelano come quest'uomo possieda un notevole spessore culturale, che traspare dai suoi discorsi, dalle sue riflessioni e dalla sua capacità di sviscerare a fondo ogni cosa, compreso sé stesso.

Nelle sue carcerazioni ha avuto modo di confrontarsi e paragonarsi con gli altri detenuti, ha avuto la possibilità di fermarsi a riflettere sulla sua vita e sul suo modo di viverla, la lettura e la scrittura sono state fedeli compagne in questo processo di maturazione.

Le risposte date alle mie domande sembrano andare ad arricchire e confermare ciò che è stato affermato nei precedenti capitoli, la scrittura ha offerto a Enrico la possibilità di rileggere la sua vita, di riflettere su di essa scoprendo ogni volta qualcosa che prima rimaneva nascosto dalle forti emozioni ed effimere sensazioni della vita malavitosa, usando le sue stesse parole: "Mettendo nero su bianco e poi rileggendomi, ogni volta era un gradino in più che salivo per cercare di arrivare a capire che cosa ho combinato. Adesso non so a che punto della scala sono arrivato, non lo so ancora visto che non è finita, c'è questa speranza di poter riscattare qualche cosa, di poter riscattare tutti i disastri che ho combinato, tutte le macerie che ho lasciato dietro di me."










Questa frase è stata messa in evidenza per le parole estremamente significative, in questa riflessione Enrico sembra confermare in sintesi tutto ciò che abbiamo sostenuto fino ad ora.

Enrico non è più detenuto grazie al beneficio dell'indultino, il quale condona, in tutto o in parte, la pena definitiva, ma l'obbligo di firmare ogni giorno nella questura della sua città, fa si che venga negata la sua libertà di viaggiare, di muoversi in altre città, di allontanarsi da Milano per più di poche ore.

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