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ITALIANO: Primo Levi, memoria e testimonianza
La memoria dell'offesa ne "I sommersi e i salvati"
Nel primo capitolo de "I sommersi e i salvati" (saggio scritto nel 1986, ultimo lavoro dell'autore), un'analisi dell'universo concentrazionario che l'autore compie partendo dalla personale esperienza di prigioniero del campo di sterminio nazista di Auschwitz ed allargando il confronto ad esperienze analoghe della storia recente, intitolato La memoria dell'offesa, Levi inizia a trattare dell'argomento principale del libro: la memoria. Parte dal presupposto che la memoria umana è fallace, condizionata da ciò che si sente successivamente e da ciò che si legge. E se per gli oppressori la memoria può essere facilmente cancellata, è per gli oppressi che il ricordo delle torture subite non riesce a scomparire.
La memoria dell'uomo è uno strumento bellissimo, ma che può sbagliare; infatti i ricordi, con il passare degli anni, tendono a cancellarsi: spesso subiscono modifiche o addirittura vi si inseriscono dei particolari estranei. Più si rievoca un ricordo, più questo rimane vivo, ma talvolta si cristallizza e così si ricorda ciò che si è rievocato e non il fatto stesso.
Ricordare un dramma crea disagio sia alla vittima sia all'oppressore
Di fronte alla domanda "Perché lo hai fatto?", l'oppressore spesso mente ed è cosciente di farlo, ma il più delle volte si costruisce una realtà di comodo che gli permette di convincere se stesso e gli altri della sua buona fede: "L'ho fatto perché mi è stato comandato, perché sono stato educato all'obbedienza assoluta, sono stato ubriacato di slogan e di manifestazioni; non solo mi era vietato decidere, ma ne ero incapace".
Come si può capire, queste risposte sono forme di autoinganno: uno stato totalitario può esercitare sull'individuo una pressione paurosa ma non irresistibile, specialmente in un periodo di tempo relativamente breve. Pertanto, la fallacità della memoria può essere usata a proprio favore: molti sono gli oppressori che si sono, volutamente, inventati un'altra memoria, cancellando quanto avevano fatto e riducendolo in semplici azioni senza alcuna colpa. Questo è il modo con cui Levi afferma che molti complici dello sterminio si siano salvati dai loro stessi sensi di colpa. Ma anche coloro che hanno subito tendono a ricrearsi una nuova memoria: non per sfuggire a ciò che hanno fatto - poiché, come si è detto, sono loro che hanno subito - ma per sfuggire a quel ricordo, per dimenticare quanto hanno subito, i dolori e le ingiustizie.
Questo libro, come gli altri dell'autore, ha lo scopo di dare una testimonianza, una voce nella storia e nel corso della lettura possiamo trovare numerosi passi che spiegano al lettore il motivo dell'importanza della memoria al fine di responsabilizzare le generazioni future, per esempio:
"Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli. Si prova la tentazione di torcere il viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve opporre."
(pag. 39)
Il grande timore che traspare è che il tempo cancelli o alteri la memoria di quanto accaduto, si rischia la semplificazione o lo stereotipo e si tratta di una "difficoltà o incapacità di percepire le esperienze altrui, che è tanto più pronunciata quanto più queste sono lontane dalle nostre nel tempo, nello spazio o nella qualità
È compito dello storico scavalcare questa spaccatura, che è tanto più ampia quanto più tempo è trascorso dagli eventi studiati." (pag. 128)
La conclusione di Levi non è affatto tranquillizzante riguardo al genere umano.
"È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto. Non intendo né posso dire che avverrà; come ho accennato più sopra è poco probabile che si verifichino di nuovo, simultaneamente, tutti i fattori che hanno scatenato la follia nazista, ma si profilano alcuni segni precursori. La violenza, "utile" o "inutile", è sotto i nostri occhi, serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come illegalità di Stato, in entrambi quelli che si sogliono chiamare il primo ed il secondo mondo, vale a dire nelle democrazie parlamentari e nei paesi dell'area comunista. Nel terzo mondo è endemica od epidemica. Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono "belle parole" non sostenute da buone ragioni". (pag. 164)
Ad un ultimo quesito infine Levi cerca di dare una risposta: chi erano gli "aguzzini", di che tempra erano fatti?
Erano "della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male." (pp.166-67).
Levi evidenzia come sia pressoché illimitato il potere di educazione, propaganda e informazione in un regime totalitario e come sia quindi possibile manipolare l'opinione pubblica, appiattirla e istupidirla come accadde ai tedeschi che accettarono e seguirono il loro Fuhrer (per orgoglio nazionale, pigrizia mentale, stupidità, calcolo miope).
Ai primi di Gennaio del 1946 - meno di tre mesi dopo il suo lungo e faticoso ritorno a casa narrato nella "Tregua" - Levi scrisse una poesia, intitolata Shemà', che ha conosciuto una grande notorietà in quanto, priva di questo titolo, è stata riportata all'inizio di "Se questo è un uomo".
Shema' [Ascolta]
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Il compito del testimone è di affermare con la parola: i miei occhi hanno visto quello che i vostri non hanno potuto scorgere. In un certo senso si potrebbe sostenere che il suo scopo è di trasformare in occhi gli orecchi altrui.
Tuttavia, vi è una profonda differenza tra la testimonianza processuale e quella del reduce. Essa non consiste tanto nel fatto che in quest'ultimo caso il testimone si presenta anche come giudice. La vera diversità sta piuttosto nel presentarsi di quella testimonianza come di una voce imperativa per tutti coloro che l'ascoltano. Non fortuitamente, è proprio in relazione alla sfera del comando che la parola "laica" di Primo Levi ritrova una parentela con il linguaggio biblico. Vi è una frase che i sopravvissuti allo sterminio nazista hanno ripetuto senza posa: "è successo, potrebbe accadere di nuovo". Il senso di tale monito è di certo il seguente: "è accaduto, potrebbe avvenire un'altra volta, ma non deve più capitare, tuttavia accadrà di nuovo se voi non presterete ascolto alla nostra voce." Non si tratterà esattamente della stessa catastrofe, sarà, però, qualcosa ad essa particolarmente simile.
Non si va lontano dal vero sostenendo che il testimone è una specie di profeta del nostro tempo e che la sua parola viene vanificata quando non è accolta come imperativa. Egli è tenuto a comunicare l'accaduto, ma è proprio questo a porre lui stesso e i suoi ascoltatori nell'orizzonte impegnativo della responsabilità. Se il testimone resta muto, "il mondo non saprà di che cosa l'uomo è stato capace, di che cosa è tuttora capace: il mondo non conoscerà se stesso", e senza tale conoscenza sarà più esposto al ripetersi di simili eventi (Primo Levi). Il racconto del superstite ha uno scopo: che dalla memoria derivi un mutamento nei modi di pensare e di agire.
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