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IL TEATRO D'ARTE
Nel 1925, dopo vicissitudini economiche e organizzative che ne ritardarono l'apertura annunciata, debutta anche il Teatro d'Arte di Luigi Pirandello302. Il progetto, denominato anche Teatro degli Undici dal numero degli aderenti (tra cui figuravano Stefano Landi, figlio del drammaturgo, Orio Vergani303 e Massimo Bontempelli), trova una sede nel Teatro Odescalchi, ricavato nelle scuderie del palazzo berniniano in via SS. Apostoli, resosi disponibile dopo che Vittorio Podrecca aveva trasferito all'estero i suoi
"piccoli". Per Tilgher la riapertura dell'Odescalchi nella nuova veste assegnatagli da Pirandello rappresentava «il fatto più sugoso di cinque anni di intenso travaglio drammatico»304; D'Amico, non perdendo l'occasione per screditare ironicamente l'antagonista Bragaglia, commentò che non vi si respirava «l'approssimazione e l'improvvisazione, ma la cura amorosa, la consumata esperienza, la finitezza e lo scrupolo»305.
Il rinnovamento della sala e la ristrutturazione del palcoscenico è affidato anche in questo caso a Virgilio Marchi, il quale recupera decoro all'ambiente allargando, per quanto possibile, gli spazi di servizio e accogliendo reminiscenze barocche nell'andamento curvilineo e "musicale" degli interni. In un ambiente piccolissimo - un palcoscenico di sette metri per cinque, poco più grande di quello degli Indipendenti, e meno di quattrocento persone tra platea e balconata - l'architetto livornese riesce inoltre a installare un moderno impianto elettrico:
Stabilimmo di abolire per la prima volta in Italia l'altezza tradizionale dei palcoscenici dal piano della platea, avanzo d'antiche abitudini sociali che dalle prime file di poltrone impedisce la vista completa dell'attore; di innalzare un piano di scena alto novanta centimetri e quindi sufficiente all'eliminazione della pendenza da calcolarsi invece in quella della sala; di creare un impianto elettrico proporzionato alle dimensioni del teatro ma rispondente in tutto alle esigenze della nostra produzione modernissima, con funzionamento della cabina nel sottopalco mediante fili di manovra; di impiantare quattro panorami colorati scorrevoli per aumentare le possibilità di fondo, e nella impossibilità di impiantare altri organismi mobili costosi e ingombranti306.
Ma il principale oggetto delle cure di Pirandello, secondo quanto racconta Marchi, è «la triplice conformazione del golfo mistico, che poteva assumere l'aspetto tanto di una ribalta chiusa con scalinata centrale, come a gradinate laterali uscenti da un displuvio, o di un golfo mistico vero e proprio che alla curva armonica per l'orchestra - situata nel sottopalco - univa le due gradinate a compluvio»307. La possibilità di collegare la platea e la zona del palcoscenico, di cui intende servirsi fin dallo spettacolo inaugurale - la sua Sagra del Signore della Nave, di cui si parlerà più avanti - era un preciso desiderio di Pirandello, in merito al quale dovette valere anche il giudizio del
suo primo assistente, Guido Salvini, reduce da un soggiorno a Berlino alla corte di Max Reinhardt308.
In effetti, al rapporto sala-palcoscenico e alla funzionalità di quest'ultimo, unitamente ai problemi luminotecnici, l'architetto rivolge insieme a Pirandello le sue maggiori attenzioni. Da una intervista rilasciata da Marchi in corso d'opera nel dicembre del 1924 si hanno notizie ancora più precise riguardo all'impianto elettrico realizzato dall'ingegnere Albertini, cui erano stati affidati pochi anni prima gli aggiornamenti luminotecnici al Teatro alla Scala, comprendenti anche l'installazione della Cupola Fortuny. La lunga e accurata recensione che Corrado Alvaro dedica allo spettacolo inaugurale del Teatro d'Arte recupera e sintetizza le testimonianze che precedono l'evento, descrivendo con attenzione particolare la dotazione tecnica:
Sono abolite le luci della ribalta, e l'illuminazione affidata a una serie di riflettori a resistenza e a cinque colori, posti fuori della scena e sulla scena. Le luci provenienti da questi meccanismi sono come un bagno di colore nel quale è tuffato il palcoscenico. Si possono ottenere, con delle sapienti gradazioni, effetti di distanza e di vicinanza sorprendenti. L'attore non è illuminato in pieno da una luce senz'ombre come qualche cosa di staccato, simile alle figurine degli stereoscopici, ma è immerso in una luce calda e fusa che può mutar tono attraverso gradazioni minime e impercettibili. [.] Il congegno delle scene è fatto per indizii. Un velario tessuto a un solo telo, detto panorama, copre in giro le tre pareti del palcoscenico. Su questo, che la luce dei riflettori può tingere in diversi toni, sono posti alcuni rudimenti di scena; quello che forma il carattere
dell'ambiente. Questo è un sistema largamente adottato nei teatri d'arte esteri309.
L'assemblaggio coerente delle attrezzature e la "virtualità" del palcoscenico, in grado di rispondere rapidamente ai comandi elettrici determinando un rapporto osmotico tra sala e scena, sono i cardini dell'intesa fra l'architetto-scenografo e il drammaturgo-"regista". Come scrive Giovanni Isgrò, si tratta di «una creazione fuori canone, paragonabile a quella di una piazza in festa, nella quale un'intera collettività conduce il gioco della trasformazione degli spazi», in cui cioè si cerca di recuperare un criterio archetipale di comunione tra la platea e il palcoscenico, «non a caso abbassato
rispetto agli standard tradizionali»310. Vero è che nell'inedito ruolo di direttore
di compagnia, Pirandello costituisce «per quanti limiti teorici e metodologici gli si accreditano, un vero terminus post quem nella scarna e sparuta storia della nostra regia teatrale»311.
Sfortunatamente la compagnia del Teatro d'Arte calca questo palcoscenico per soli 63 giorni in tutto (portando in scena un repertorio per gran parte pirandelliano: circa la metà dei testi rappresentati), costretta dalle difficoltà economiche a lunghe tournées mondiali e a un nomadismo che compromette fin da subito la sua ambizione di "stabile"312. Tuttavia il "teatrino di Pirandello" - come ebbe a chiamarlo Massimo Bontempelli313 - ha due elementi di novità particolarmente incidenti e destinati a sortire un effetto notevole sulla pratica scenica successiva: lo stile recitativo della sua primattrice
Marta Abba e le scenografie di Virgilio Marchi.
La recitazione della Abba si posiziona fin dagli esordi in opposizione alle abitudini declamatorie inveterate: senza concedersi al ritmo "naturale" del parlato o alla vivacità della cadenza dialettale, la giovane attrice fa della distanza e dello scarto un'alternativa solida e inconsueta, adatta agli effetti di discontinuità e ambiguità che si rinvengono con tanta frequenza nelle
didascalie pirandelliane che "ritraggono" i personaggi314. Ovvio che questa piccola rivoluzione sia forgiata su un tipo di donna dalle caratteristiche assai diverse dalle primattrici che l'avevano preceduta, efebica, strutturalmente meno solida, e non predisposta all'emulazione dei virtuosismi operistici. Le cronache riportano di una precoce attitudine ad un recitato impetuoso, caricato con foga e con avvincente, se non esuberante, padronanza315. Ma generalmente incertezza e diffidenza caratterizzano i giudizi critici sulla Abba; la sua vocalità calda e amabile aveva incontrato il favore di Marco Praga316, ma non quello di Silvio D'Amico, che la trovava «strascicata, cantilenata, senza accortezza di gradazioni né di sfumature, senza vigore logico né lirico»317. Alberto Cecchi le rimproverò una certa staticità nell'interpretazione, oltre a evidenti difetti nella dizione318. Eugenio Bertuetti volle associare alla Abba le qualità del vetro:
«[.] trasparenze gelide. Spicco di particolari, architetture precise, sinuosità iridescenti e scivolose, culmini taglienti, spigolature crudeli, e dentro ci dev'essere una fiamma - lo vedi, lo senti -, ma il calore non c'è»319.
Ma a stupire e sconcertare fu soprattutto il suo modo di porsi in scena,
spesso decisamente sopra le righe, quasi uno sfogarsi senza controllo: modernità e naturalezza erano gli attributi che la Abba assegnava a se stessa320; petulanza, meccanicità, addirittura sgradevolezza quelli che le furono attribuiti. Una pagina di Ezio D'Errico chiarisce i motivi di questi riscontri e conferma come lo stile della Abba, pieno di appoggiature e spezzature, potesse considerarsi la quintessenza dell'estro pirandelliano, confacente al pathos e all'instabilità dei suoi personaggi:
Questa bella e strana attrice recitava in un modo del tutto personale e inusitato per quel tempo, passeggiando concitatamente attraverso il palcoscenico come una belva in gabbia, rintanandosi in un angolo, spalle a una quinta, per far fronte all'antagonista, poi scattava come una molla, e ogni tanto si passava tra le fulve e scompigliate chiome una mano bianca in un gesto di disperazione che magari andava al di là della battuta, ma che mi faceva trasalire, come se con quel gesto l'attrice avesse afferrato per i capelli anche me che seguivo anelante l'azione, abbrancato ai braccioli della poltrona. Oggi recitare spettinate alla Monica Vitti, non meraviglia nessuno, ma a quel tempo solo Marta Abba poteva permetterselo, come poteva "gettar là" in modo convulso le battute, con quella voce fuori registro un po' metallica e un po' soffocata, che quindici anni dopo fu definita sexy per la divulgazione che ne fece Marilyn Monroe. Nel 1920 le attrici ancora flauteggiavano con la bocca a cuore, e le rauche invettive della "figliastra" nei Sei personaggi, sbigottirono lo spettatore medio, più per la voce frustante della Abba che non per il loro contenuto. [.] In questa "situazione", come in molte altre, Marta Abba sapeva cogliere l'essenza spettacolare di quello che poi fu chiamato il "pirandellismo", senza tener conto del pubblico, pro o contro che fosse, con un intuito che andava al di là della pur notevole tecnica recitativa, per raggiungere effetti di vera e propria illuminazione interiore. Recitava a sbalzi, come il combattente che avanza sotto il fuoco nemico, e ogni tanto si fermava quasi smemorata, guardando verso il buio della platea coi grandi occhi stupefatti
nei quali lampeggiava un briciolo di follia [.]321.
La Abba recita in 37 dei 50 spettacoli portati in scena all'Odescalchi, sempre impiegata nei testi contemporanei e protagonista assoluta di alcuni dei drammi scritti appositamente da Pirandello nel triennio 1925-1928, come
Trovarsi, Come tu mi vuoi, Diana e la Tuda. A proposito di quest'ultimo testo, come non leggere nella didascalia che presenta la modella Tuda, dal corpo della quale il giovane scultore Sirio Dossi trae ispirazione per una sua statua di Diana, un ritratto della stessa Abba?:
È giovanissima e di meravigliosa bellezza. Capelli fulvi, ricciuti. Occhi verdi, lunghi, grandi e lucenti, che ora, nella passione, s' intorbidano come acqua di lago; ora, nella serenità, si fermano a guardare limpidi e dolci come un' alba lunare; ora, nella tristezza, hanno l' opacità dolente della turchese. La bocca ha spesso un atteggiamento doloroso, come se la vita le desse una sdegnosa amarezza; ma se ride, ha subito una grazia luminosa, che sembra rischiari e avvivi ogni cosa322.
Per quel riguarda Virgilio Marchi, non è un caso che entrambi i locali descritti, e immancabilmente nominati in ogni studio che torni sul periodo qui considerato, abbiano visto la sua partecipazione come architetto e scenografo (o meglio, scenarchitetto)323. Architetto per formazione e futurista per vocazione, Marchi è l'artefice di alcune delle più celebrate messinscene del decennio, contribuendo a spostare gradualmente l'attenzione verso l'aspetto visuale dello spettacolo. «Il giovane semidio dell'architettura scenica»324, come arrivò a definirlo Alberto Spaini, terminato il decennio, migra verso il cinema come molti altri professionisti della scena, non tornando al teatro che per occasionali allestimenti, in particolare nell'ambito lirico e operistico.
La saldezza del sodalizio tra Pirandello e Marchi si legge nei circa venti spettacoli del Teatro d'Arte che trovarono la propria veste scenografica grazie al lavoro dello scenarchitetto; tra i più apprezzati La nuova colonia, Così è (se vi pare), e il memorabile Enrico IV interpretato da Ruggero Ruggeri. Secondo la descrizione che ne diede Alvaro la sala del trono con i suoi immensi tendaggi d'oro tempestati di nere aquile «sembrava un pozzo lucido e fastoso
nel quale s'era calata la pazzia medievale di Enrico»325, vestito di una tunica di
seta viola, bordata d'un largo fregio d'oro, incrociata sul petto alla bizantina, disegnata da Marchi stesso. Il dislivello tra il proscenio e il trono era quasi
abissale: la verticalità risultò molto più accentuata della profondità. Un effetto di horror vacui che lo stesso Marchi attribuì in parte alla propria inesperienza nel confrontarsi con un palcoscenico di così vaste proporzioni: «un vano enorme da riempire con una espressione plastica mi destava preoccupazione, mista a quella specie di sgomento metafisico che danno i teatri solitari e abbandonati: la metafisica del vacuo»326.
In questi spettacoli, come nelle numerose idee rimaste allo stato embrionale (come quelle per Lazzaro), ritorna, vera e propria cifra stilistica di Marchi, la prospettiva diagonale, oggetto di una ricerca rigorosa che si propone di drammatizzare lo spazio scenico attraverso la forzatura di linee e piani senza perdere i significati logici che derivano dai nessi e dalle norme visive.
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