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Se il movimento romantico significò per molti popoli europei, da poco costituitisi in entità nazionale (quello tedesco) o profondamente rinnovatisi (quello francese ed inglese), un ritorno alle tradizioni patrie per contrapporle a quelle classiche, divenute, per assuefazione umanistica e retorica, « codice di regole e testo di esempi », per il popolo italiano ebbe il valore di conciliazione dell'antico con il moderno, meglio, di contemperamento dei grandi valori acquisiti nel passato, ma liberati dalle sovrastrutture umanistiche e retoriche, con la nuova sensibilità scaturita da una più attenta valutazione dei problemi civili, sociali, politici del presente.
Oltre alla divulgazione, nella penisola, delle opere della Staël, nonché di Goethe, Schiller, Chateaubriand, Byron, Scott, attraverso traduzioni, prima in francese, e poi in italiano, fu un articolo di M.me de Staël, tradotto da Giordani e pubblicato nel gennaio del 1816 sul primo numero della Biblioteca italiana; a dare l'avvio alle accese polemiche sul nuovo indirizzo dell'arte in genere, della poesia in particolare.
Era, la Biblioteca italiana, una rivista mensile diretta dal mantovano Giuseppe Acerbi e sussidiata dall'Austria: distogliendo gli Italiani dall'esaltazione del loro glorioso passato ed accostandoli alle nuove fiorenti letterature straniere, questa pensava di spegnere nei loro animi ogni eventuale interesse per le questioni politiche e per la perduta libertà: di qui la benevola accoglienza, nel primo fascicolo, all'articolo della Staël,. Quando però s'accorse che il raffronto della sterile letteratura italiana con l'esuberante letteratura d'oltr'alpe ad altro non serviva che a sollecitare il risveglio della coscienza nazionale, impresse alla rivista un carattere rigorosamente classico.
Nell'articolo menzionato, intitolato Sulla maniera e la utilità delle traduzioni, la Staël, invitava i nostri scrittori ad uscire dal loro isolamento letterario, causa prima della loro decadenza culturale: traducendo dall'inglese e dal tedesco, accostandosi alle moderne letterature europee non «per vestire fogge straniere ma per conoscerle », non per diventarne imitatori ma per liberarsi da tutte le viete usanze che tornano a pregiudizio della naturale schiettezza, come la mitologia, il vuoto accademismo, l'erudizione a sé stante, essi avrebbero avuto modo di ritrarne vantaggi sia relativamente alla forma che al contenuto delle loro opere.
La risposta alle affermazioni dell'illustre scrittrice francese, accusata di voler misconoscere il_nostro glorioso passato, non si fecero attendere: tutta la schiera dei vecchi letterati insorse sdegnosamente, vuoi perché identificava nell'indirizzo classicista lo stesso stesso onore nazionale, vuoi perché avversava ostinatamente oni forma di novità, vuoi ancora perché giudicava il Romanticismo una letteratura popolata di maghi e di streghe che si dilettava soltanto del macabro e dell'orrido.
Non mancarono però gli strenui difensori della Staël,, la quale, ribadendo la necessità che la cultura italiana si rimettesse alla pari con la progredita civiltà europea, aveva controbattuto con molto buon senso e moderazione alle critiche degli avversari: «Restate pure italiani, ma studiate. La stessa ispirazione, questo miracolo del cielo, s'opera sulla terra per la estensione e varietà delle cognizioni».
Molti letterati italiani, accomunati dal desiderio di rendere più umana, cordiale e popolare la nostra letteratura, misero in evidenza l'anacronismo delle dottrine classicistiche, ne rilevarono il diminuito interesse presso un'accresciuta schiera dei lettori moderni.
Essi condannarono l'ostinata volontà di continuare, con una inutile esercitazione stilistica, l'ormai arida imitazione dei modelli antichi.
Occorreva, invece imparare dagli antichi il modo di accostarsi alla letteratura con spontaneità: non imitarli, ma emularli « nello spaziare generosamente e grandiosamente per la immensità del cuore umano ».
Il tono moderato e conciliante di questi, teorici delle dottrine romantiche, di fronte alla tradizione classica è tanto più apprezzabile se si pensa all'irragionevolezza degli avversari.
E Conciliatore si intitolò il periodico bisettimanale (detto comunemente « foglio azzurro » dal colore della carta) sorto in contrapposizione alla Biblioteca italiana per difendere le nuove idealità letterarie: fondato dal conte Federico Gonfalonieri e dal conte Luigi Porro Lambertenghi, riunì attorno a sé uomini di diverse classi sociali e opinioni, come precisa il motto Rerum concordia discors posto sulla testata.
Principale redattore ne fu Silvio Pellico; ne furono collaboratori, fra gli altri, Visconti, Berchet, Borsieri.
Ma la velata polemica antiaustriaca dei molti articoli e l'accento schiettamente liberale e patriottico insospettirono presto la censura: dopo l'ennesimo invito di questa a moderare il tono politico del periodico, il quale sempre più apertamente denunciava le tristi condizioni in cui versava l'Italia, Pellico decise di sospenderne la pubblicazione. Era il 18 ottobre 1819, ed il Conciliatore era giunto al suo centodiciottesimo numero. Allorché, nel 1821, l'Austria cercò di soffocare, con processi e sentenze capitali, il sentimento nazionale in Lombardia, si ritrovò di fronte a parecchi collaboratori del periodico: Pellico, Confalonieri, Borsieri, Maroncelli conobbero le atrocità del carcere; altri, come Berchet, dovettero rifugiarsi all'estero.
Quest'ultimo era stato al centro della polemica fra classicisti e romantici italiani per via di un libretto arguto) e vivace, pubblicato subito dopo l'articolo della Staël e intitolato Sul « Cacciatore feroce » e sulla « Eleonora » di G. A. Bürger, Lettera semiseria di Grisostomo: in esso il Berchet propugnava, ma con ben altro calore, quell'accostamento della nostra alle altre letterature europee in precedenza caldeggiato dalla illustre scrittrice francese, e se egli non riuscì a coordinare organicamente il pensiero dedotto dagli scritti di Schlegel, Herder, e degli altri teorici stranieri del Romanticismo, ciò non toglie che la sua possa essere considerata l'opera che diede il primo e vigoroso impulso alla battaglia romantica in nome della sincerità, della libertà e della popolarità dell'arte, tanto da essere comunemente giudicata il « manifesto » del Romanticismo italiano.
La lettera si definiva « semiseria » perché, dopo aver combattuto le unità aristoteliche, l'uso della mitologia, l'imitazione degli antichi, alla fine muta tono, e scherzosamente afferma di aver voluto fare tutto ciò « a spese dei novatori ».
Vi si immagina che un buon padre di famiglia, Grisostomo, invii al proprio figlio in collegio, avendoglielo richiesto, la traduzione in prosa di due famose ballate del Bürger; tale finzione offre al Berchet la possibilità di parlare, sia delle liriche del poeta tedesco, sia della poesia popolare in genere.
Compito di questa è commuovere l'anima e colpire la fantasia della gran massa di cittadini, che non sono rozzi e spiritualmente inerti come gli ottentotto, e neanche raffinati come i parigini, ma «pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono sentono le passioni tutte ». Gli uomini hanno tutti insita la « tendenza alla poesia », sebbene diversamente distribuita secondo i diversi strati sociali. Spetta al poeta rendersi interprete dei loro sentimenti e delle loro aspirazioni, incombe al letterato l'alto ufficio di intrattenerli, in quanto ignari delle regole astratte e degli schemi tradizionali, sulle cose presenti, non sulle cose antiche e d'altri.
La poesia non deve essere volta « a piaggiare un Mecenate, a gratificarsi un Augusto, a procurarsi un seggio al banchetto dei grandi » (poesia libera quindi e non più cortigiana), ma « a migliorare i costumi degli uomini, a farne gentili gli animi, a contentare i bisogni della fantasia e del cuore ».
Se di fatto essa è l'espressione della natura viva, deve in conseguenza essere «viva come l'oggetto ch'ella esprime, libera come il pensiero che le dà moto, ardita come lo scopo a cui è indirizzata ». Siano quindi i poeti italiani, al pari di quelli tedeschi, « coevi » al loro tempo, e non ai « secoli seppelliti »; facciano di piacere al loro popolo, investigandone l'animo e pascendolo «di pensieri e non di vento »; non lamentino la mancanza di unità nazionale, perché « se noi non possediamo una comune patria politica » ben possiamo crearci una comune patria letteraria « a conforto delle umane sciagure ».
Se poi essi sapranno rinnovare, oltre che il contenuto, anche il mezzo espressivo servendosi di un linguaggio più semplice, più umano, più diretto, la letteratura diventerà veramente uno strumento efficace di educazione nazionale e di rigenerazione politica.
A distanza di tempo si possono scorgere numerose antinomie nelle dottrine enunciate da Berchet, ed in seguito più autorevolmente dal Manzoni nella Lettre à M. Chauvet e nella Lettera al D'Azeglio: assegnando un compito educativo all'opera d'arte, implicitamente se ne infirmava il principio dispontaneità; imponendole un determinato contenuto (esaltazione della patria, sentimenti cattolici, ritorno al Medioevo) ed una determinata forma (popolare), se ne invalidava il principio di libertà. Ma ai primi romantici importava soprattutto svecchiare la nostra letteratura, liberarla da ogni superstite accadeismo.
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