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Un giallo insolito, ambientato tra le mura di un'abbazia,
dove il frate francescano Guglielmo da Baskerville (Sean Connery) si trova a
dover indagare su una serie di omicidi circondati da menzogne, mistero e superstizione.
Ispirandosi all'omonimo romanzo di Umberto Eco, Annaud ne semplifica trama e
risvolti filosofici in funzione di un intreccio più veloce e comprensibile da
tutti senza molto sforzo, rischiando a tratti di scivolare nella banalità (il
cattivo punito, o la seduzione del novizio).
Peccato, perché è un film dall'atmosfera inquietante e lugubre; con un fascino
che deve molto alla splendida fotografia (tutta orientata sui toni del marrone)
e alla scelta degli interpreti, a partire da un misurato Sean Connery per
passare a tutti gli altri frati, dall'aspetto mostruosamente conforme
all'ambiente in cui si muovono.
In un'abbazia benedettina dell'Italia del nord si verificano degli omicidi.
Viene incaricato delle indagini il monaco Guglielmo di Baskerville (Sean
Connery) insieme al novizio Adso da Melk (Christian Slater). Essi condurranno
un accurata indagine scoprendo i misteriosi retroscena, celati da una parvenza
di composta vita religiosa del monastero. Il film ripercorre fedelmente le
tappe del romanzo di Umberto Eco, ricreando l'atmosfera di fanatismo religioso
e di mistero che pervadono l'opera letteraria, ma purtroppo come tutte le
trasposizioni da romanzi non puo soddifarci appieno in quanto noi lo abbiamo
immagginato in modo diverso quando lo abbiamo letto. Il tutto e' impreziosito
dall'interpretazione dei due protagonisti. Prima di leggere il romanzo guardate
il film e non ne resterete delusi
Un film che mi ha stupito e soddisfatto come pochi altri hanno fatto. La storia
è quella di un giovane frate, che nel corso del film arriverà a confermare la
sua vocazione nel modo migliore, cioè toccando con mano quella che era la
realtà ecclesiale el suo periodo storico.
Nel sua viaggio spirituale si troverà contro esperienze reali ed immaginifere,
che gli mostreranno la corruzione del genere umano e del clero di quel tempo
(oppure di sempre?) lasciando però il giusto spazio alla speranza ed alla parte
buona che c'è nell'uomo e nella chiesa.
Interpretazione magistrale ed ambientazioni inquietanti fanno di questo film un
prodotto da non perdere, anche perchè è uno i quei film che esaltano il libro
da cui sono tratti; non ve lo faranno assolutamente rimpiangere.
Autunno 1372. Guglielmo da Baskerville, francescano ed ex inquisitore, giunge
ad una abbazia benedettina nel cuore dell'Italia per un'importante missione, su
incarico dall'Imperatore; con lui è il giovane benedettino Adso da Melk.
I due si troveranno invischiati in un misterioso intrigo di delitti che
sconvolgono il monastero, ma che proprio negli uomini e nella cultura di quel
sacro ambiente trovano fonte e fuoco.
Un raffinato lavoro di analisi, con una forte attenzione ai minimi indizi, li
porterà alla soluzione dell'oscura situazione
Un set gigantesco (il più vasto, in esterni, dai tempi di Cleopatra) e un cast
internazionale per un impegno finanziario di circa 32 milioni di dollari.
Nel film (di Jean-Jacques Annaud, discreto regista francese attento più alla
forza coinvolgente che al fascino interiore delle immagini) tutto scorre
veloce, per cui occorrono poche sequenze per proporre un concetto, bastano
calibrati effetti per chiarirne l'anima.
Tratto dall'omonimo romanzo di Umberto Eco, questo film di Jean-Jacques Annaud
è ambientato nel 1300 e narra la storia di un non ben identificato novizio
benedettito di nome Adso che viaggia accanto a frate Guglielmo di Baskerville
verso una abbazia dell'Italia meridionale. Frate Guglielmo sarà poi incaricato
di fare luce su una seria di strani delitti avvenuti in questa abbazia e che
ruotano attorno ad una misteriosa e labirintica biblioteca. Il film è
praticamente un poliziesco in chiave medioevale. Sia il film che il libro
offrono molti spunti e tematiche di discussione per gli appassionati del
genere.
Scorrono dunque davanti ai nostri occhi architetture e paesaggi medievali: la vita quotidiana di un'abbazia, gli amanuensi al lavoro nello scriptorium, intenti alla trascrizione dei codici, le raffinate miniature dal caldo impasto cromatico, il disegno fantastico dei bassorilievi. Le immagini ci richiamano la storia appassionante del 1300: i prestigiosi ordini monastici, lo spostamento della sede papale da Roma ad Avignone, i difficili rapporti tra Papato e Impero, i processi con i terribili inquisitori e le condanne degli eretici al rogo. Ovviamente, data la condensazione visiva propria del film, soltanto la lettura del romanzo ci fa apprezzare il fascino di certi ampi passaggi del discorso narrativo, quale ad esempio la lunga dichiarazione d'amore mistico-erotica del giovane Adso ad una fanciulla; soltanto la lettura può farci cogliere la trasparenza a volte maliziosa delle citazioni che danno al romanzo un'intonazione inconfondibilmente moderna (vedi la frase: Elementare, mio caro Adso! che richiama fonicamente e spiritosamente Elementary, mister Watson! di Sherlock Holmes). Tra le citazioni infatti, quelle tratte dal genere poliziesco sono le più evidenti: la serie delle morti inspiegabili, la figura dell'investigatore che svolge l'indagine, il senso di suspense, i colpi di scena, perfino l'oggetto misterioso costituito da un prezioso codice contenente il secondo libro della Poetica di Aristotele dedicato alla commedia, cioè al riso e che non deve essere conosciuto secondo la concezione tetra della cultura propria di padre Jorge, il quale nella sua follia conservatrice provocherà l'incendio dell'intera biblioteca.
Dopo la dinamica propria dell'azione filmica, la lettura attenta e meditata dei segni del testo ci permette di riconoscere il progetto di mondo, veicolato dalla trama degli enunciati verbali e forse rimasto un po' in ombra nel veloce succedersi delle sequenze visive. Sembra infatti proprio 'la parola' il tema dominante del racconto, annunciato fino dal titolo Il nome della rosa, presente con intonazioni diverse nei punti strategici della narrazione. In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio, leggiamo all'inizio del romanzo. I nomi sono segni di segni, con i quali l'uomo tenta di dare un ordine al mondo. Il semiologo Umberto Eco non ha scritto soltanto per divertirsi e divertirci con gli stereotipi del romanzo storico, poliziesco, fantastico. Ha scritto il romanzo filosofico della parola, della sua forza e dei suoi limiti e dell'uso negativo o positivo che l'uomo può farne. Nell'antica biblioteca medievale avviene la più alta celebrazione della parola scritta. E' un edificio dalla mole gigantesca, dove sono raccolti i codici di commento alle Sacre Scritture e tante altre preziose testimonianze della cultura greca, latina, araba, ebraica che il dotto padre Jorge da Burgos ha portato dai conventi della penisola iberica. Altro spiritoso richiamo fonico: Jorge-Borges, lo scrittore argentino, anche egli cieco, che ha scritto l'affascinante racconto La biblioteca di Babele.
Nutrimento dello spirito, la biblioteca è collocata nella parte più alta dell'edificio. In basso ci sono la cucina e il refettorio, dove si alimenta il corpo e si soddisfano i suoi istinti, ma da cui sale il calore indispensabile a riscaldare i gelidi ambienti soprastanti. Sia nel romanzo che nel film la biblioteca, alta e chiusa come una fortezza, assume connotazione negativa in quanto segno di isolamento, ambizione, lussuria della parola, fonte di corruzione. Essa è aperta soltanto a pochissimi iniziati, nonostante che alcuni monaci siano venuti da tanto lontano, per nutrire la loro mente con le meraviglie celate nel suo ampio ventre, come dice Bencio da Upsala che sarebbe pronto a prostituirsi, pur di superare la soglia proibita. Cultura aristocratica, chiusa, severa negatrice del riso che fa ridere la verità, incapace di apprezzare il mondo nuovo che è fuori, laggiù, nelle città operose, dove sta nascendo un modello di cultura laica che ha trovato nell'uso della lingua volgare lo strumento agile per una comunicazione più ampia. In questo paese il più grande filosofo del nostro secolo non è stato un monaco, ma uno speziale, dice Guglielmo da Baskerville, alludendo a Dante Alighieri. Padre Gugliemo e padre Jorge sono i duellanti, espressione di due opposte concezioni della cultura, che si fronteggiano con una raffinata e tagliente dialettica, mentre Adso esprime la forza poetica e intuitiva della giovinezza.
Il romanzo della parola ne sfiora anche un aspetto fantastico e perturbante. Certe profezie apocalittiche di sventura sembrano prendere corpo per la sola tragica forza evocativa delle parole, quasi non sia più possibile prevedere e arrestare lo sviluppo di un processo di distruzione, una volta che sia messo in moto da una intelligenza malefica. Romanzo e film ci mostrano al termine della vicenda il discepolo Adso, divenuto vecchio a sua volta, che utilizza gli occhiali ricevuti in dono dal suo maestro, per decifrare gli sparsi frammenti dei codici recuperati dopo la distruzione dell'abbazia. Romanzo e film concludono con la stessa citazione del verso esametro:
Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus
La rosa primigenia esiste nel nome, noi possediamo soltanto i nomi, citazione che nel testo letterario si connota maggiormente di profonda malinconia, derivante dalla consapevolezza dei limiti della nostra conoscenza.
Libera interpretazione del romanzo-fenomeno di Umberto
Eco, venduto in milioni di copie in tutto il mondo. Nel XIV secolo una coppia
di francescani (Connery e Slater) risolve l'intricata matassa di una serie di
misteriosi delitti avvenuti in una maestosa e solitaria abbazia. Il respiro
filosofico e la miriade di citazioni che caratterizzavano il romanzo si
smarriscono nella sua trasposizione cinematografica, che peraltro ne conserva
l'atmosfera cupa e rarefatta. Film calligrafico e dalla splendida fotografia,
eccellente nella caratterizzazione di personaggi e luoghi.
Con questo film, liberamente tratto dal libro omonimo di Umberto Eco, ci troviamo catapultati in pieno Medio Evo col suo oscurantismo religioso, superstizioni, credulità popolare, inquisizione, ignoranza e paura dell'ignoto e dell'inspiegabile.
La Chiesa ha passato nel Medio Evo un lungo periodo buio, pieno di crudeltà ed ignoranza in cui gli alti prelati affogavano nella ricchezza e i più poveri morivano di fame assillati dalle tasse; l'inquisizione mandava a morte e sottoponeva ad atroci torture molti innocenti accusati di stregoneria e culto satanico; molti religiosi conducevano vita corrotta, ipocrita, colpevoli dei più ignominiosi delitti; il desiderio di istruirsi era considerato sintomo di eresia e la voglia di prendere con gioia la vita e di sorridere era stimata pericolosa per la fede e quindi bandita drasticamente nelle comunità.
La tematica del film in questo senso è caustica e poco obiettiva nei confronti della Chiesa in un periodo senz'altro poco glorioso per essa ma pur sempre transitorio.
Dobbiamo riconoscere al regista il merito di essersi servito di una fotografia eccezionale, di scenografia e costumi ineccepibili, di aver ben riprodotto la figura dell'inquisitore con la sua cieca intransigenza e chiusura mentale e i suoi metodi disumani. Bella l'ambientazione nel monastero con le sue trappole, trabocchetti, botole, labirinti, passaggi segreti, oscurità più o meno profonde; felice la scelta dei personaggi: Guglielmo (l'abile attore Sean Connery) unico uomo razionale e disincantato al di sopra delle parti che alla grettezza medioevale oppone il suo orgoglio intellettuale e la sua capacità di studioso alla ricerca della verità.
Indovinati gli altri protagonisti orrendi, deformi, malati, cinici, brutali, delicati, mistici, venali, opportunisti, ipocriti. Il film è denso di rimandi storici, religiosi e filosofici: senza dubbio è valido artisticamente ma incompleto, e, a volte, superficiale o scabroso (la seduzione di Adso da parte della ragazza).
Contro 'Il nome della rosa'
1. La trama
Nel novembre 1327 si incontrano, presso una imprecisata ma ricca abbazia benedettina dell'Italia Settentrionale, per una disputa sulla povertà di Cristo e della Chiesa, una delegazione francescana - di cui fa parte il protagonista, Guglielmo da Baskerville, che è accompagnato dal giovane novizio Adso da Melk - e una legazione pontificia guidata dall'inquisitore domenicano Bernardo Gui. Nell'abbazia sono rifugiati due ex eretici della setta estremista dei dolciniani, che conducono vita sregolata e di notte fanno entrare nel convento una ragazza del vicino villaggio, che finirà per sedurre il giovane Adso. La vita dell'abbazia è sconvolta da una serie di oscuri delitti su cui indagano, con metodi diversi, Guglielmo da Baskerville e Bernardo Gui. L'inquisitore identifica i responsabili nella ragazza, che scambia per una strega, e nei due ex dolciniani. Nel romanzo questi presunti colpevoli vengono condotti da Bernardo Gui verso Avignone, e di loro non si sa più nulla; il film mette invece in scena - presso l'abbazia stessa - la loro condanna e immediata esecuzione sul rogo, seguita da un'improbabile rivolta di contadini - in cui l'inquisitore trova la morte -, che riesce a salvare almeno la ragazza. Nel frattempo Guglielmo da Baskerville - in una notte di tregenda, in cui l'abbazia è distrutta da un incendio - scopre il vero assassino: è il vecchio monaco cieco Jorge, che ha ucciso per impedire che venisse alla luce il perduto libro secondo della Poetica di Aristotele, un'opera pericolosa per la Chiesa perché vi si esalta l'umorismo che 'uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede. Senza la paura del demonio non c'è più la necessità del timore di Dio' (2).
L'Inquisizione viene presentata nel romanzo come un tribunale ideologico, inteso a reprimere ogni possibile discussione di una serie di tesi razionalmente insostenibili, che potevano essere imposte solo con la forza delle armi e dei roghi, seminando il terrore attraverso la continua denuncia e perfino la 'creazione' di un nemico. 'Spesso - osserva Adso - sono gli inquisitori a creare gli eretici'. E un tribunale ideologico non può che condannare sempre e comunque: 'Sarai dannato e condannato se confesserai - dice Bernardo Gui al suo imputato -, e sarai dannato e condannato se non confesserai, perché sarai punito come spergiuro!' (10). Lo spoglio statistico delle sentenze dell'Inquisizione, da cui si ricava la bassa percentuale di condanne, ha ormai dimostrato che questa tesi è falsa. Ma non meno falsa è la sua premessa: l'Inquisizione nasce tardi, verso la fine del Medioevo propriamente detto, non a fronte di eretici immaginari ma come reazione agli eccessi reali e concreti di movimenti come i catari, portatori di un 'totalitarismo della morte' apologista del suicidio e dell'omicidio degli oppositori, e - più tardi - come i dolciniani, impegnati a mettere a ferro e a fuoco i villaggi in nome di un'utopia comunistica. Senza escludere deviazioni ed errori tipici di ogni tribunale umano, non si può che concludere che l'Inquisizione dei secoli XIII e XIV 'è stata il modo necessario di affrontare un antigene sociale molto pericoloso' (11). Affermare il contrario significa liquidare un secolo di studi scientifici sull'Inquisizione per tornare al museo degli orrori dei romanzi di appendice del secolo scorso.
Fuorviante è poi, nel romanzo, l'elemento di supporto della trama, cioè il desiderio della Chiesa di occultare un volume che - con l'autorità di Aristotele - avrebbe pericolosamente legittimato, insieme con la commedia, l'umorismo, nemico della fede perché può liberare dalla paura su cui la religione si fonda. La tesi non è minimamente plausibile. I benedettini del Medioevo hanno salvato con amore anche il legato del mondo classico relativo alla commedia, pure spesso moralmente discutibile. Come ha mostrato Hans Urs von Balthasar, il Medioevo - oltre la critica rigida della patristica - ha dato inizio alla rivalutazione del teatro (12). Nella Summa Theologiae di san Tommaso si afferma, nella questione 168 della Secunda Secundae, che, se l'umorismo vano e malizioso deve essere evitato, l'umorismo di suo costituisce una manifestazione della razionalità umana che può essere perfino virtuosa. Di più: nella mancanza di senso dell'umorismo - 'in defectu ludi' - si trova 'un qualche peccato', perché 'tutto quanto è contro la ragione nelle cose dell'uomo è vizioso', e mancare di umorismo significa spesso rivelarsi poco ragionevoli, 'molesti agli altri', 'duri et agrestes' secondo l'espressione dello stesso Aristotele (13). Sono questi i medioevali de Il nome della rosa: cupi, tetri, in perenne quanto morbosa attesa di disastri apocalittici?
2. Un romanzo ideologico
Il nome della rosa è essenzialmente un romanzo ideologico a tesi, che intende indurre il lettore a scegliere come giusta una delle due posizioni in conflitto nel secolo XIV nella disputa sulla povertà - la Armutsstreit, come la chiama la storiografia tedesca - fra una parte dell'ordine francescano e la curia pontificia di Avignone. Nel film la disputa viene ridotta al semplice quesito se Cristo fosse o meno proprietario delle proprie vesti. Qualche spettatore della pellicola potrà quindi stupirsi nell'apprendere che uno dei massimi storici del diritto viventi, Michel Villey, ha visto nella Armutsstreit 'uno degli eventi capitali nella storia della filosofia del diritto', sia privato che pubblico (14). In realtà la posta in gioco nella disputa era la nascente ideologia della modernità - la tesi di cui si vuole convincere il lettore de Il nome della rosa - nelle sue tre principali dimensioni, cioè quelle filosofica, giuridica e politica.
a. Guglielmo da Baskerville è la figura abbastanza trasparente - quando parla di filosofia - di un altro Guglielmo francescano, inglese e nemico di Papa Giovanni XXII, Guglielmo di Occam, di cui nel romanzo si dice amico e discepolo. La filosofia di Guglielmo di Occam è il nominalismo relativista secondo cui si conoscono soltanto le realtà individuali - questo cavallo, quest'uomo -, mentre i presunti 'universali' - l'uomo, il cavallo - sono semplici segni che servono a connotare - cioè a 'notare insieme' - gruppi di realtà individuali, di cui esprimono - peraltro in modo incerto e impreciso - qualche generale rassomiglianza. Il metodo di Guglielmo da Baskerville è certamente quello di Sherlock Holmes - il suo nome fa riferimento al romanzo holmesiano Il mastino dei Baskerville e Adso assona con Watson -; ma già il filosofo marxista Ernst Bloch aveva considerato il metodo 'detettivo' del romanzo poliziesco come figura popolare della logica moderna, il cui frutto più maturo sarebbe appunto il marxismo (15). All'inizio del romanzo, in una scena tipicamente holmesiana, Guglielmo stupisce i suoi interlocutori descrivendo nei più minuti particolari, da qualche tenue traccia, un cavallo che non ha mai visto; quando Adso-Watson gli chiede come ha fatto, risponde con una lezione di occamismo, spiegando che 'tra la singolarità della traccia e la mia ignoranza, che assumeva la forma assai diafana di un'idea universale', ha scelto la traccia singola, senza correre dietro alle idee universali che sono 'puri segni', ed è così pervenuto alla 'conoscenza piena', che è 'l'intuizione del singolare' (16). È grazie alla nuova logica di Occam che Guglielmo da Baskerville risolve gli enigmi dell'abbazia, mentre il tomista Bernardo Gui, che ragiona per universali, segue piste false; ed è con un motto nominalista che il romanzo si chiude: 'Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus', 'La rosa originaria - la presunta essenza della rosa - consiste in un nome, noi non abbiamo che nudi nomi'.
Le conseguenze del nominalismo occamista sono di straordinaria gravità: se si conosce soltanto l'individuale, ogni presunta verità che vada al di là dell'individuale singolare e provvisorio è del tutto malferma; ultimamente, la verità non esiste. Guglielmo da Baskerville non sfugge a questa conclusione; e anzi la esprime nei termini brutali del 'pensiero debole' del secolo XX: 'Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare', 'l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità' e perfino 'il diavolo è [] la verità che non viene mai presa dal dubbio. Il diavolo è cupo perché sa dove va' (17). Il primo arcano della modernità svelato dal romanzo di Umberto Eco è il relativismo scettico: fuori dal relativismo vi è solo 'la passione insana per la verità', chi 'sa dove va' è un 'diavolo' che si esprime nell'intolleranza e nei roghi e che deve essere a ogni costo combattuto.
b. Sul piano del diritto, come ha mostrato in particolare Michel Villey, dal relativismo occamista deriva il positivismo giuridico, 'prodotto del nominalismo. E della dottrina di Guglielmo di Occam' (18). Se non esiste la verità, non esistono neppure le verità: non esiste un ordine naturale che possa essere fonte di un diritto naturale, ma fonti del diritto sono soltanto le espressioni positive di una volontà individuale. Sul piano del diritto privato si rovescia la nozione di jus, che non è più id quod iustum est, la 'parte' o porzione giusta assegnata a ciascuno secondo equità, ma è - per Guglielmo di Occam - il 'diritto soggettivo', già in senso moderno, il potere concesso da qualche norma positiva di far valere la propria potestà. Questa autentica rivoluzione giuridica nasce proprio dalla disputa sulla povertà dei francescani, i quali affermano di non avere la proprietà ma solo l'uso di tutti i loro beni, come aveva - dicono - lo stesso Gesù Cristo. Ma - afferma Papa Giovanni XXII - la separazione fra proprietà e uso è una finzione, almeno per i beni che i francescani godono in perpetuo e per i beni consumabili come il cibo e le vesti: non si può avere l'uso del pezzo di formaggio che si mangia senza averne anche la proprietà. Se per jus si intende 'la parte dei beni che ci viene attribuita secondo giustizia', il Pontefice ha ragione, e lo stesso san Francesco aveva un diritto di proprietà sul pane che mangiava; per contraddire questa tesi 'bisogna cambiare la nozione di jus, darle un significato più ristretto e in qualche modo peggiorativo; bisogna ridurre il diritto a strumento di coercizione materiale, al potere di difendersi davanti al giudice'. È a questo potere di difendere i beni che i francescani - e già Cristo e gli Apostoli - hanno - secondo Occam - rinunciato; ma il diritto di proprietà consiste appunto in questo. Questioni pedanti e superate? Tutt'altro: il mutamento della nozione del diritto di proprietà, e del diritto in genere, comporta 'una vera e propria rivoluzione copernicana nella storia della scienza del diritto'. Siamo 'di fronte alla frontiera che divide due mondi diversi' (19): il mondo del diritto naturale classico e cristiano e la modernità, di cui il positivismo giuridico - con la separazione del diritto dall'ordine morale - costituisce, dopo il relativismo, il secondo arcano rivelato da Il nome della rosa.
c. Gli effetti del positivismo giuridico sono particolarmente gravi sul piano del diritto pubblico, dove nasce lo Stato moderno, sovrano assoluto nel senso di solutus ab, 'sciolto da' qualunque controllo o vincolo superiore alla sua volontà. Se non esistono verità e valori, non vi è nessun criterio o istanza superiore in base a cui giudicare lo Stato e le sue leggi. E lo Stato certamente non può essere giudicato dalla Chiesa: Guglielmo da Baskerville e i suoi amici vogliono una 'Chiesa povera', ma non nel senso - come pretende ingenuamente il film - di una Chiesa che rinuncia alle sue ricchezze e le distribuisce ai poveri. Non è questo tipo di riforma ecclesiastica che interessa Guglielmo da Baskerville: 'Povera - precisa - non significa tanto possedere o no un palazzo, ma tenere o abbandonare il diritto di legiferare sulle cose terrene'. La 'Chiesa povera' dei 'teologi imperiali' è una Chiesa confinata in sacrestia, che rinuncia a giudicare la politica e le leggi: 'Il dominio temporale e la giurisdizione secolare nulla hanno a che vedere con la chiesa e con la legge di Cristo Gesù'. 'I minoriti - Guglielmo lo ammette - fanno il gioco imperiale' di Ludovico IV il Bavaro, una figura chiave nella genesi dell'Europa moderna, il primo imperatore che si fa incoronare a Roma non dal Pontefice ma da un laico, e per di più da quello Sciarra Colonna che era stato uno dei responsabili dello schiaffo di Anagni, l'oltraggio alla Chiesa che, con la sua carica simbolica, aveva posto fine - secondo molti storici - al Medioevo propriamente detto. Poiché poi nel secolo XX gli imperatori, anche se laicisti e miscredenti, non sono più di moda, Guglielmo da Baskerville si premura di dichiarare che - una volta garantita la laicità dello Stato - lui e il suo amico Marsilio da Padova preferirebbero alla monarchia imperiale una 'assemblea generale elettiva', per cui però sfortunatamente 'i tempi non sono maturi' (20). Ma in realtà il problema non consiste tanto nella forma dello Stato quanto nella estensione dei suoi poteri. Lo Stato laico moderno non si emancipa solo da possibili rischi di prevaricazioni clericali; si emancipa da qualunque controllo e limite e pone le premesse del totalitarismo, secondo un processo che è stato colto da autori cattolici ma anche da un maestro del neoliberalismo come Friedrich August von Hayek (21). Il nome della rosa mette in scena - è il terzo arcano della modernità - il momento sorgivo dello statalismo moderno. Lo statalismo non può che essere contro la Chiesa, perché una Chiesa libera si sentirà libera di criticare l'autorità politica, ed è una sfida che il potere totalitario non può tollerare. Lo afferma - sulla scia di Marsilio da Padova - Guglielmo da Baskerville: 'Se il pontefice, i vescovi e i preti non fossero sottomessi al potere mondano e coattivo del principe, l'autorità del principe ne verrebbe inficiata' (22).
3. Un romanzo iniziatico
Si sa che Umberto Eco è un grande appassionato di enigmi e di enigmistica, e Il nome della rosa è un romanzo insieme enigmistico ed enigmatico. Enigmistico, perché - come afferma la stessa manchette del volume - contiene una serie di 'giochi' da risolvere, fra cui un 'giallo di citazioni' non denunciate come tali. Esula dalle mie intenzioni seguire fino in fondo il gioco, anche se alcuni degli enigmi sono interessanti, perché rivelano citazioni occulte di autori fra i più radicalmente anticattolici del nostro secolo come Georges Bataille - a cui si deve la tesi secondo cui il suppliziato sperimenta un'estasi del dolore paragonabile alla mistica (23) - e Roger Peyrefitte, dal cui romanzo Le chiavi di San Pietro è tratta quasi letteralmente la pagina sulle false reliquie (24). Il romanzo è insieme enigmatico perché alcune tesi possono non emergere a una prima lettura del testo e si rivelano progressivamente: si può quindi parlare anche di romanzo iniziatico (25).
Quando il retto uso della ragione va perduto, l'errore può manifestarsi come razionalismo o come irrazionalismo. Il proprium della modernità consiste nel fatto che razionalismo e irrazionalismo si manifestano insieme, come due facce della stessa medaglia. Alla 'corrente fredda' razionalista e positivista della modernità si accompagna una 'corrente calda' che fa della Rivoluzione una religione atea, che si esprime in simboli e miti; così la massoneria, vestale della modernità, coniuga il più estremo razionalismo e il più improbabile irrazionalismo esoterico, il comunismo è insieme materialismo e religione secolarizzata come adorazione filosofica del divenire, e così via. La distinzione fra le due correnti, calda e fredda, è di Ernst Bloch e le citazioni implicite di Bloch ne Il nome della rosa abbondano; sua è la tesi del 'filo rosso' che legherebbe le speculazioni di Gioachino da Fiore, le eresie medioevali, il dipanarsi della modernità e il marxismo. La 'corrente calda' della modernità coincide, sostanzialmente, con quella che il cardinale de Lubac ha chiamato 'la posterità intellettuale di Gioachino da Fiore': una posterità che, in diversi modi, secolarizza l'aspirazione mistica del monaco calabrese verso una prossima aurea 'età dello Spirito Santo' trasformandola in mito rivoluzionario (26). Per intendere il senso occulto de Il nome della rosa può essere utile distinguere fra una posterità speculativa di Gioachino da Fiore - nel romanzo rappresentata da Ubertino da Casale -, che legge l'età dello Spirito Santo come meta di una storia in progresso animata da Dio, ma vorrebbe mantenere una apertura alla trascendenza e conservarsi ancora cattolica, e una posterità rivoluzionaria, che trascrive il sogno gioachimita dall'eternità escatologica al futuro politico (27). Nel romanzo di Umberto Eco il gioachimismo speculativo, che vuole ancora salvare la trascendenza, si rivela perdente di fronte al gioachimismo rivoluzionario. È vero: Guglielmo da Baskerville disapprova il gioachimismo utopistico delle bande dolciniane che vogliono imporre il comunismo con il ferro e con il fuoco. Ma il suo giudizio lucido e spietato sulle eresie utopistiche è desunto, quasi letteralmente, da Ernst Bloch. Il gioachimismo utopistico degli eretici è il grido dei 'lebbrosi', dove per 'lebbrosi' si intendono le masse subalterne del proletariato Lumpen, 'cencio': gli 'esclusi, poveri, semplici, diseredati'. 'Tutte le eresie sono bandiera di una realtà dell'esclusione. Gratta l'eresia, troverai il lebbroso'. 'I semplici [] hanno ragione perché posseggono l'intuizione dell'individuale, che è l'unica buona' - naturalmente in una prospettiva occamista -, 'ma questa intuizione, da sola, non basta': lasciata a sé stessa 'l'esperienza dei semplici ha esiti selvaggi'. Per raggiungere il suo scopo il gioachimismo rivoluzionario dovrà passare 'dall'utopia alla scienza'; ci penserà - e qui Guglielmo mette in scena le profezie di un altro suo maestro, Ruggero Bacone - una 'nuova scienza della natura', una 'grande impresa dei dotti per coordinare, attraverso una diversa conoscenza dei processi naturali, i bisogni elementari che costituivano anche il coacervo disordinato, ma a suo modo vero e giusto, delle attese dei semplici. La nuova scienza, la nuova magìa naturale' (28). Scienza e magia, ma soprattutto gnosi: nel gioachimismo secolarizzato alla Ernst Bloch - che implica certamente un salto rispetto a Gioachino da Fiore, ma un salto che diventa quasi inevitabile nel gioco intrecciato delle sue posterità - emerge il classico tema gnostico dell'avvento del nuovo eone, verso il quale svolgono opera di guida gli iniziati alla gnosi, soli competenti a interpretare le attese confuse dei semplici (29). Non manca neppure, in questa verità ultima del romanzo - e della modernità -, l'estremo arcano della gnosi - antica e moderna -, cioè la riduzione di Dio a un'unità originaria indistinta che, in ultimo, coincide con il nulla. Sul finire della storia Adso chiede a Guglielmo: 'Che differenza c'è allora tra Dio e il caos primigenio?'. Sostenere che non esiste la verità, e quindi che da Dio non scaturisce un mondo ordinato ma un fascio infinito di possibili, 'non equivale a dimostrare che Dio non esiste?'. Guglielmo non lo nega, ma si limita a rispondere ambiguamente: 'Come potrebbe un sapiente continuare a comunicare il suo sapere se rispondesse di sì alla tua domanda?'. Qualche pagina dopo Adso conclude 'Gott ist ein lautes Nichts', 'Dio è un grande nulla', con una proposizione che trae dalla mistica renana ma che interpreta inequivocabilmente in senso gnostico, perché afferma di non credere più in un Dio personale ma solo in una 'divinità silenziosa e disabitata' come abisso in cui 'andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza' (30).
Che cosa può imparare il mondo cattolico dalla grande operazione propagandistica realizzata attraverso Il nome della rosa? Certamente una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del fatto che qualcuno ritiene assolutamente necessario sottoporre le folle a periodici bagni di menzogne sulla civiltà cristiana medioevale, insistendo sempre sugli stessi temi - i monaci, l'Inquisizione -, tanto più oggi a fronte del grave rischio che la nuova medievistica scientifica giunga, sia pure lentamente, a conoscenza del pubblico dei non specialisti e smantelli mitologie a cui certe forze sono straordinariamente attaccate. Il film, 'mini-museo antireligioso posto dall'altra parte di una cortina di ferro sempre presente' (31), costituisce una facile iniziazione offerta a tutti affinché varchino la soglia ed entrino nel mondo del romanzo, dove si svelano gli arcani della modernità nella loro verità ultima, nichilista e gnostica. Lo scopo di Umberto Eco consiste certamente nel temprare 'lo scettro a' regnatori', esaltando lo Stato laico moderno e la sua ideologia; ma talora - involontariamente, e sta qui l'occasione positiva offerta al mondo cattolico - anche 'gli allòr ne sfronda' e 'svela di che lacrime grondi e di che sangue' il potere svincolato dalla religione e dalla morale e sostenuto da filosofie relativiste o da miti gnostici. Se ne potrà ricavare, per diametrum, che la verità, e una politica che si lasci giudicare dalla verità, fa libero l'uomo, mentre la negazione dell'esistenza di una verità che si imponga anche ai principi - si tratti di Ludovico il Bavaro o del 'moderno principe', come Antonio Gramsci chiamava il partito comunista - lo rende schiavo dei potenti di turno. Se poi la lettura de Il nome della rosa indurrà qualcuno a meditare seriamente, sia pure a partire da Gioachino da Fiore, sull'azione dello Spirito Santo nella storia, gli si potrà consigliare - in alternativa all'immensa posterità spirituale gioachimita, rivoluzionaria o 'moderata' - la lettura dell'enciclica Dominum et vivificantem, dove l'intervento dello Spirito nella storia viene presentato nella sua forma corretta, radicalmente antiprogressistica, nel senso che la terza persona della Trinità - ben lungi dal venire a certificare la storia come progresso necessario verso una crescente 'liberazione' - viene a 'convincere il mondo quanto al peccato' anche nella sua dimensione storica. Si comprenderà allora che l'arcano ultimo della modernità come ideologia è il rifiuto di Dio, la 'resistenza allo Spirito Santo' che trova 'specialmente [.] nell'epoca moderna la sua dimensione esteriore' (32).
Che da un libro già famoso (troppo?) come Il nome della rosa di Umberto Eco sarebbe uscito un film famoso, nel bene e nel male, era già chiaro da quando il regista Jean-Jacques Annaud rivelò la sua cocente passione per il romanzo: ''Cominciai a leggere. Arrivato a pagina 200, telefonai al mio agente e gli dissi di aquistarne i diritti. A pagina 350 questi richiamò per dirmi che erano già acquistati dalla Rai. A pagina 400 lo chiamai e gli chiesi di organizzare un incontro con Eco ed uno con la Rai. Quando ero ormai a pagina 450 gli appuntamenti erano fissati Ero convinto che una sola persona potesse fare un film e quella persona sono io.'' Certo per chi non ha letto il libro e per chi non è affatto interessato ai rapporti culturali tra opera originale e trasposizione cinematografica il discorso può apparire sfizioso, eppure Ricordiamo intanto la trama: siamo nell'autunno del 1372 e Guglielmo da Baskerville, francescano ed ex inquisitore, giunge ad una abbazia benedettina nel cuore dell'Italia per un'importante missione, su incarico dall'Imperatore; con lui è il giovane benedettino Adso da Melk. I due si troveranno invischiati in un misterioso intrigo di delitti che sconvolgono il monastero, ma che proprio negli uomini e nella cultura di quel sacro ambiente trovano fonte e fuoco (!). E torniamo dunque all'inderogabile confronto libro-film: non si pu trascurare, in primo luogo perché il portare sullo schermo un romanzo di successo (1 milione e 50 mila copie vendute) è già di per sé un astuto passo commerciale: potrà anche esserci la stroncatura critica, ma è probabile che i lettori del libro vorranno verificare di persona il valore dell'operazione In partenza ecco allora un set gigantesco (il più vasto, in esterni, dai tempi di Cleopatra) e un cast internazionale per un impegno finanziario di circa 32 milioni di dollari (l'opulenza cinematografica è di per sé una garanzia?). In secondo luogo per il diverso impianto linguistico e di fruizione dei due media contrapposti (in parole povere la diversa filosofia con cui si costruisce un libro/un film pensando al consumatore): in letteratura sono il ritmo, lo stile, il mistero del gioco delle parole a creare il fascino dell'opera. Lo stesso vale per il gioco delle immagini, ma su un piano assai diverso. Qqui entrano in campo la bravura dei vari coautori (oltre al regista, gli attori, i fotografi, i costumisti), qui lo spettatore subisce certe sensazioni immediate dovute alla concretezza dell'impianto scenico proiettato sullo schermo, senza bisogno del tramite intimo della creazione fantastica personale (come avviene per il testo scritto): non per niente l'opera-film si conclude in circa 2 ore, l'opera-romanzo in questione dura (alla lettura) almeno 25. Tutto questo per dire che cosa? Per far capire a chi vede 'a nudo' il film che nel romanzo (di Umberto Eco, grande studioso di semiologia, cioè scienza dei segni con cui l'essere umano comunica) c'era sotto ben di più, che il poliziesco-medioevale era solo un percorso di lettura che si accompagnava a tanti altri: quali la filologia (studio della lingua e del linguaggio!), la storia, la psicologia, l'ironia. Percorsi talvolta stimolanti, talvolta tediosi, tutti tesi comunque a costruire un alone di fascinosa intellighenzia (il sapere intellettuale, per capirci) tra storia e mistero. Nel film (di Jean-Jacques Annaud, discreto regista francese attento più alla forza coinvolgente che al fascino interiore delle immagini) tutto fila veloce secondo la logica della scorciatoia dello schermo, per cui occorrono poche sequenze per proporre un concetto, bastano calibrati effetti per chiarirne l'anima. Così la magica biblioteca-labirinto del monastero si svilisce nel groviglio di scale piene di ragnatele e nel suggestivo contrappunto di luci-ombre, campi-controcampi; la fanciulla messaggera di miseria e di sensualità riesce qui addirittura a sfuggire alle oscure trame dell'ingiustizia e, banalmente, il sottile rimando alla detective-story si esplicita, senza risparmio, nel fatidico ''elementare Adso''. Come si è letto da qualche parte: del fascino de Il nome della rosa si sente appena l'Eco e.l. Cineforum in CARCERE - marzo 94
Recensione (tratta da 'Il Mereghetti - Dizionario dei film 2002 ©' di Paolo Mereghetti, ed. Baldini & Castoldi)
Nell'autunno del 1327, il francescano Guglielmo di Baskerville (Connery), accompagnato dal novizio Adso da Melk (Slater) arriva in un monastero dove francescani, domenicani e delegati pontifici dovranno chiarire alcuni misteri di fede. Ma l'atmosfera è insanguinata da una serie di misteriosi delitti che l'inquisitore Bernardo Gui (Murray Abraham) pensa di risolvere mandando al rogo due frati e una povera ragazza. Naturalmente la verità è un'altra, legata alla labirintica biblioteca del convento, e verrà scoperta da Guglielmo.
Tratto dall'omonimo bestseller di Umberto Eco, il film riprende la struttura narrativa del giallo (semplificandone la trama, riducendo i delitti ma «giustiziando» alla fine il cattivo inquisitore) e ne sfrutta la suggestiva ambientazione medioevale, ma sacrifica l'apparato filosofko e culturale che facevano la vera originalità del romanzo. Ottima la fotografia di Tonino Delli Colli (quasi completamente impostata sui toni del marrone, del rosso e del giallo) e le scenografie di Dante Ferretti. Connery, anche sotto la tunica, è grandioso come sempre
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