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Il femminismo in italia: sibilla aleramo




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IL FEMMINISMO IN ITALIA: SIBILLA ALERAMO





Biografia


Rina Faccio (riproduzione qui a fianco), conosciuta con il nome di Sibilla Aleramo, nasce ad Alessandria il 14 Agosto del 1876. A causa dell'attività lavorativa del padre cambiò spesso città fino a stabilirsi a Porto Civitanova Marche dove cominciò a lavorare presso uno stabilimento industriale. All'età di quindici anni è sedotta da un collega e per riparare al danno nel 1893 si sposano. Ciò segnò in modo indelebile la sua esistenza, proiettata magistralmente nel romanzo autobiografico Una donna, nel quale critica il rapporto coniugale definito oppressivo e frustrante. Nell'apice drammatico della sua esistenza finì con il tentare il suicidio e quando si riprese cominciò a concretizzare le sue aspirazioni umanitarie e socialistiche, iniziando anche a scrivere racconti e articoli giornalistici. Erano gli anni 1898-1910: Sibilla scrisse che il femminismo si concentrava ora nella letteratura e nella spiritualità, nella rivendicazione della diversità femminile; credeva infatti in una spiritualità femminile e cioè nel fatto che tra uomo e donna c'è una spiritualità diversa. Le donne sono intuitive e hanno un contatto più rapido con l'universo producendo così una poesia sconosciuta al mondo maschile. Nel 1899 si trasferisce a Milano dove dirige il giornale L'Italia femminile.

Nel 1902 la sua relazione amorosa con il poeta Damiani la spinse ad abbandonare la famiglia e a trasferirsi a Roma. Qui legò una nuova relazione con G. Cena, direttore di una rivista e animatore d'iniziative democratiche e unitarie. A Roma entrò in contatto con l'ambiente intellettuale e artistico .

Nel 1906 pubblicò Una donna che rappresentava un concentrato di tutti i modi positivi e negativi che lei nel corso della sua carriera modulerà in forme diverse; dall'autobiografismo pieno d'autocontemplazione. Intensificò la sua attività femminista e unitaria soprattutto promovendo l'istruzione del mezzogiorno (Agropontino, Maccarese ancora paludosi e malsani). Tra il 1913 e il 1914 si trovò a Parigi, dove entrò in contatto personalità di spicco della cultura internazionale, come Apollinaire e Verhaeren. Durante la grande guerra incontrò Campana, con cui ebbe una relazione tempestosissima.

Conobbe Emilio Cecchi, con il quale mantenne una grande amicizia, e poi Marinetti e D'Annunzio col quale instaurò una corrispondenza. Dopo la relazione con Cena ne ebbe altre più o meno lunghe per lo più con intellettuali e artisti fino a quando non incontrò il giovane Matacotta al quale restò legata dal 1936 al 1946. Narrò tutti i suoi amori nelle sue opere evidenziando il fatto che la vita e la letteratura fossero legate in modo inscindibile. Nel 1919 esce Il passaggio, una nuova tessera romanzesca aggiunta alla costruzione mitologizzante del proprio personaggio. Del 1921 è la prima raccolta di liriche, Momenti. Fra il '20 e il '23 è a Napoli, dove scrive un poema drammatico dedicato a D'Annunzio, Enmione. Aderisce al manifesto antifascista degli intellettuali promosso da Croce. Nel 1927 esce il romanzo epistolare Amo dunque sono. Del 1929 è la raccolta Poesie. Un anno pubblica un volume di prose varie, Gioie d'occasione. Parallelamente escono tra il 1932 e il 1938 un romanzo, Il frustino, e un'altra raccolta di poesie, Sì alla terra, così come una nuova serie di prose Orsa minore che ha per sottotitolo la frase indicativa di una non rimossa vena autobiografica, Note di taccuino.

Nel dopoguerra Sibilla si iscrive al PCI e abbandona il filone letterario dedicato ad un autobiografismo leggendario e affabulatorio, per dedicarsi ad un impegno politico e sociale sempre più intenso, un impegno che la porterà a fare lunghi viaggi nei paesi dell'Est e a collaborare con Case del Popolo e circoli ricreativi. Iniziano in questo periodo le collaborazioni all'Unità ed a Noi donne. Nel 1947 pubblica tutte le sue poesie nel volume Selva d'amore, cui fa seguire nel 1956 la nuova raccolta Luci della mia sera, in cui grandeggia l'enfasi della nuova militanza, in una dimensione tutta corale. In quegli ultimi anni, in cui cerca di dimenticarsi e mimetizzarsi nella folla dei destini minimi, annota nel suo diario un pensiero quasi testamentario con sconsolata ironia: 'Ho fatto della mia vita, come amante indomita, il capolavoro che non ho avuto così modo di creare in poesia'. Dopo una lunga malattia, morì a Roma il 13 gennaio 1960.


UNA DONNA

Sintesi:

Il romanzo di Sibilla Aleramo 'Una donna' inizia col ricordo della fanciullezza della protagonista, che fu libera e spensierata, infatti ella rivede la bambina che era, e le sembra quasi un sogno tanto era bello quel periodo.
Per parecchio tempo, nell'epoca buia della sua vita, rivivendo quei momenti le viene da pensare alla vera felicità. Era la maggiore di quattro fratelli, la preferita dai genitori. All'età di dodici anni si trasferì con la famiglia da Milano in una cittadina del Mezzogiorno perché il padre aveva ottenuto la direzione di un'industria chimica. Dopo pochi anni che si trovava nel nuovo paese, la protagonista interruppe gli studi e venne impiegata regolarmente nella fabbrica diretta dal padre e da qui inizia il suo periodo di solitudine; non aveva amiche perché restava tutto il giorno a lavorare, le donne del paese riferivano cose orrende sul suo conto perché non badava alle faccende di casa e occupava un ruolo che al tempo era riservato ad un uomo. Inoltre, non aveva più accanto a sé la mamma, che la trascurava parecchio perché non condivideva le scelte della figlia. Il paese dove viveva la famiglia non offriva svaghi, la madre della protagonista si era piano piano chiusa in se stessa, dato che non aveva amiche e stava tutto il giorno in casa a leggere; un giorno però presa dalla depressione, si gettò dal balcone e miracolosamente si salvò.                             Quando le cose sembravano essersi sistemate nella famiglia della protagonista, proprio quest'ultima venne a sapere dei continui tradimenti del padre verso la madre. Ma come poteva essere possibile che il tanto adorato padre tradisse la madre con una ragazza poco più grande della figlia? Il mondo
improvvisamente le cadde addosso ed ella perse la fiducia che aveva nell'uomo e mai più riuscì a riacquistarla. A risistemare un po' le cose per la giovane arrivò l'amore, un ragazzo di venticinque anni, suo collega d'ufficio. Le chiacchiere in paese si diffusero subito, in quanto lei aveva solo sedici anni, lui invece venticinque, ma col passare del tempo si placarono. Il tempo passava e la protagonista trovò nel fidanzato un uomo geloso e incolto che lei però voleva amare ugualmente. Arrivò così il matrimonio che fu infelice da subito; la ragazza rimase incinta, ma perse subito il bambino e pensava che se aveva perso il bambino era perché Dio capì che il bimbo non avrebbe vissuto in una famiglia felice come invece era stata la sua.

Gli anni passano e la protagonista riuscì di nuovo ad avere un figlio, era felicissima, ma dopo poco tempo dovette darlo nelle mani di una nutrice perché non aveva più latte per nutrirlo. Per il malinteso, la protagonista fu giudicata male da tutto il paese e per la vergogna, anche se non aveva commesso niente, decise di togliersi la vita bevendo del veleno, ma per fortuna il suo gesto fu interrotto dall'arrivo del marito, giunto appena in tempo per salvarla. Da quel giorno la giovane donna decise di cambiare completamente vita, iniziando a migliorare il rapporto col marito. Seguì poi un periodo intenso nel quale ella visse solo di letture, meditazioni e dell'amore del figlio. In seguito partecipò ad un movimento femminista che si sviluppò nel capoluogo della sua provincia che sosteneva era stata, fino a quel momento, trattata come una schiava ed ignorata. Iniziò un nuovo lavoro in una casa editrice di Roma, la città in cui si era trasferita da poco con la famiglia. Era entusiasta di questa nuova vita, aveva perfino iniziato a frequentare i teatri, i musei ed aveva un gruppo di amiche. Sembrava veramente rinata. Divenne ben presto amica e consigliera del suo principale, una donna che all'apparenza sembrava avere tutto: soldi, carriera, famiglia, ma che in realtà soffriva tremendamente, e alla protagonista sembrava di rivedere se stessa qualche anno prima.

Alla fine dell'inverno il figlioletto di appena cinque anni si ammalò gravemente. La malattia del bimbo durò alcuni mesi, alla fine dei quali la famiglia si concesse una vacanza in montagna per permettere al piccolo di ristabilirsi. Quando tornarono il marito si trasferì nuovamente nel paese d'origine, nella casa che in precedenza era stata del suocero, a dirigere la fabbrica di quest'ultimo; lei restò a Roma col figlio e una domestica. In quei giorni di assenza del marito, la protagonista capì di non averlo mai amato, e di averlo sposato perché ormai le chiacchiere in paese erano troppe e se lei non avesse compiuto quel passo, sarebbe stata definita una ragazza facile e una poco di buono. Dopo pochi giorni il marito tornò e la donna le propose una separazione amichevole, pensando che lui accettasse. La sua reazione invece fu tremenda, la gettò in terra ed iniziò a percuoterla mentre ella si dibatteva, allora lei si rassegnò e chiese perdono dicendogli che aveva pensato alla separazione in un momento di depressione, ma che era stata una pessima idea. Chiarite le cose il marito ritornò al paese e la protagonista continuò a soffrire in silenzio e a piangere per non essere riuscita a mettere fine alla storia una volta per tutte. Dopo poco tempo raggiunse il marito, trovò l'uomo cambiato, affettuoso, non più rude come era stato per anni. Nel paese non c'era più nessuno della sua famiglia, i genitori e due fratelli erano tornati a Milano e la sorella si era sposata ed era andata a vivere nel Veneto. Era sola, suo figlio era l'unico compagno. In quei giorni le passò davanti tutta la sua gioventù: le corse in giardino, alla fabbrica, le ore passate con la mamma e sempre in quei giorni trovò nella soffitta delle vecchie lettere che la madre scrisse al proprio padre dicendogli che soffriva a causa del marito, ma che non l'avrebbe lasciato per amore dei figli; la protagonista capì allora che doveva continuare a stare col marito, anche soffrendo, per amore del piccolo. Le liti col marito intanto continuavano, ma la giovane teneva duro per cercare di far crescere il figlio in una famiglia unita. Dalle liti però si passò alle botte e la ragazza stremata decise di partire, ma quando lo comunicò al marito, lui disse che avrebbe acconsentito purché il piccolo fosse rimasto con lui. La donna partì e tornò a Milano con la speranza che nel giro di pochi giorni avrebbe fatto in modo che suo figlio la raggiungesse. I giorni passarono e pure i mesi e gli anni, ma il suo piccolo a Milano non venne. Le lettere che la madre gli scriveva non ebbero mai una risposta, la protagonista allora, soffrendo in silenzio, scrisse un libro di modo che le parole contenute in esso lo raggiungessero.

CONSIDERAZIONI:


Il libro Una donna di Sibilla Aleramo è uno dei primi libri femministi usciti nel nostro paese ed è una testimonianza della condizione femminile nella prima metà del XX secolo nell'Italia del Sud. Attraverso la narrazione, l'autrice esprime dei concetti molto forti sul ruolo della donna nella società, ma molto più nella famiglia e nella vita privata. Non diario, non romanzo, né autobiografia, Una donna potrebbe forse definirsi "esercizio d'autoanalisi" in forma letteraria: probabilmente una severa, a tratti spietata, riflessione sul proprio vissuto e su come avrebbe potuto o dovuto essere. La protagonista, privilegiata per nascita, più colta e più ricca delle sue coetanee, dopo un'infanzia serena e un'adolescenza vivace, trasferitasi con la famiglia in un paesino del meridione si trova, suo malgrado, invischiata nella logica del matrimonio "obbligato" con un ottuso e tracotante "ragazzetto" del luogo che l'aveva insidiata e di cui lei stessa, per un tempo brevissimo, s'era ritenuta innamorata. Da questo matrimonio subito rivelatosi tragicamente sbagliato, nasce il figlio che per dieci anni sarà, a suo dire, l'unico vincolo che la tiene legata alla vita. La solitudine, la repulsione per la cruda e animalesca sessualità del marito, la soffocante atmosfera del paese, la spingeranno a ritenere se stessa già quasi morta e, infine, dopo il tentato suicidio, a trovare conforto nella scrittura. I destini familiari la condurranno a Roma dove, giovane redattrice di una rivista velleitariamente femminista, inizierà il suo doloroso percorso d'autocoscienza. Quando si trasferisce a Roma, scopre la lettura, la pratica della scrittura, i conflitti sociali, ma anche il mondo politico e culturale delle donne: 'Per la prima volta sentivo intera la mia indipendenza morale'. Infine, ritornata al paese con il marito colpito da una malattia "infamante", ma pur sempre deciso a soggiogarla e a reprimerne le richieste di separazione, prenderà la decisione della fuga verso il nord, sola, senza il figlio amato. In questa storia, a tratti limpida ed emblematica narrazione di un percorso di coscienza storica e di liberazione personale, si innestano le figure di un padre apparentemente illuminato, libero pensatore, dai caratteri fascinosi e moderni, che delega alla figlia appena adolescente una parte non marginale della direzione della fabbrica e di un marito che si comporta con la moglie, né più né meno di qualsiasi uomo della sua epoca: egoista e cieco di fronte alla sua disperazione e al destino oscuro che l'attende dopo il volontario esilio nella follia. Vi é poi la figura della madre stessa ("e per la prima volta ella mi era apparsa come una malata: una malata cupa che non vuol essere curata, che non vuol dire nemmeno il suo male") paradigma femminile in disfacimento, senza ombra di riscatto dalla propria debolezza, che trova rifugio nel progressivo oblio della ragione. La madre rappresenta infatti ciò che lei non vuole essere, ma che purtroppo è destinata a diventare se non interrompe la strada che tutte le donne sono destinate a seguire. Infine, il marito: ottuso, incolto, legato indissolubilmente ai rituali della violenza e del possesso, incapace, per carattere e tradizione, di superarli se non per qualche sporadico e confuso momento. E la protagonista, sempre più consapevole della propria alterità, assiste attonita e impotente alla repressione d'ogni suo impulso vitale, quindi, attraverso l'osservazione, pur confusa e superficiale, delle vite diverse degli operai della fabbrica paterna, della miserabile esistenza delle popolane romane e dei movimenti delle classi lavoratrici, rialza il capo e trova il coraggio di fuggire per ritrovare se stessa e dare corpo ai propri ideali. Dalla narrazione, così prepotentemente intimista e universale ad un tempo, traspare il vero motore della scelta finale d'affrancamento: il bisogno di quell'autodeterminazione che in ogni creatura, maschile o femminile, consente l'espressione di un'esistenza appagante che nulla deve spartire con il senso di semplice, doverosa sopravvivenza. " Povera vita, meschina e buia, alla cui conservazione tutti tenevan tanto! Tutti si accontentavano: mio marito, il dottore, mio padre, i socialisti come i preti, le vergini come le meretrici. Ognuno portava la sua menzogna, rassegnatamente. Le rivolte individuali erano sterili o dannose, quelle collettive troppo deboli ancora, ridicole quasi, di fronte alla paurosa grandezza del nostro atterrare".


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