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Il dopoguerra: ritorno all'ordine, prosa, poesia




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Il dopoguerra: ritorno all'ordine, prosa, poesia




La prosa d'arte



Alla conclusione del primo conflitto mondiale furono in molti, tra i vociani, ad accorgersi che la guerra non ha di per se una diretta incidenza sulla cultura e sulla letteratura di una nazione; nel nostro caso specifico, furono piuttosto le condizioni in cui il nostro paese, esausto e deluso, venne a trovarsi subito dopo il " gran bagno di sangue", conclamato dai nazionalisti, a fa­vorire, in ogni campo, la ricerca di nuove vie.


Storicamente, le difficoltà di reinserimento dei soldati nella vita civile; le agitazioni sociali originate dagli squilibri economici, dallo spettro dell'inflazione e dall'iniquità del sistema tributario; il mutato quadro politico determinato dalle elezioni del '19 (forte affermazione dei socialisti ed avvento del cattolico Partito Popolare Italiano), costituirono, insieme alla crescente inquietudine dei ceti medi, all'orientamento della borghesia industriale verso una forza che fosse in grado di ristabilire l'ordine, le premesse per la nascita della dittatura fascista.


Letteraria­mente, i facili avanguardismi de "La Voce", le anarcoidi intemperanze futuriste, lo sperimentalismo d'ogni genere ed il moralismo che avevano caratterizzato il secondo decennio del secolo, ingenerarono in molti l'esigenza di un ritorno alla tra­dizione, ad una misura, cioè, e ad un equilibrio che restituissero all'arte ed alla poesia quello che essi consideravano il perduto decoro: ciò equivaleva alla nostalgia di una letteratura intesa come aristocratico isolamento nel regno dello stile.


Fu in tale clima che sorse a Roma, nell'aprile del 1919, la rivista "La Ronda", fondata da un cenacolo lettarario composto da Vincenzo Cardarelli, che ne fu il direttore, da Emilio Cecchi, Antonio Baldini, Riccardo Baccelli (autore del romanzo ciclico, in tre volumi, Il mulino del Po), Lorenzo Montano, Bruno Barilli ed Aurelio Saffi, ai quali si unirono i pittori Carrà e De Chirico; essa durò sino alla fine del 1922, ma un numero straordinario apparve nel dicembre del 1923.

Pur nella imprecisione del programma e nella difformità stilistica dei suoi re­dattori, La Ronda propugnava un ritorno ai classici, ma un ritorno che impli­cava, a suo giudizio, la continuazione di un discorso "avviato da tempo ed inter­rotto dagli avvenimenti"; nel primo numero si affermava: "Non sembrerà un para­dosso se diciamo che dai classici, per i quali, come noi, l'arte non aveva altro scopo che il diletto, abbiamo imparato ad essere uomini prima che letterati. Il vocabolo 'umanità' lo vorremmo scrivere nobilmente con l'h, come lo si scriveva ai tempi del Machiavelli, perché si intendesse il preciso senso che noi diamo o questa parola".


Tra i classici la preferenza assoluta veniva data a Leopardi, in particolare al Leo­pardi dello Zibaldone e delle Operette morali Capire il Leopardi significa capite la tradizione e la modernità ad un tempo", senonché questa modernità era da loro intesa, non in senso ideologico, ma in funzione della "teoria dell'eleganza" che tutti avevano fatto propria.

Ed a Leopardi veniva accostato Manzoni. In tal modo La Ronda accoglieva l'eredità di De Roberto (vedi "La Voce") ma se da un canto il suo conservatorismo, seppure modernizzato, si iscriveva al­l'insegna della "poesia pura" e della teoria crociana della lirica (come intuizione pura), dall'altro collimava con le contemporanee esperienze europee che nella lezione dei classici (vedi Apol­linaire e Valéry, per la poesia; Stravinskij per la musica; Picasso per la pittura) intravedevano una difesa dell'arte dall'irrazionalismo degli anni precedenti.

La restaurazione dei valori stilistici in piena autonomia da ogni altro valore politico, filosofico, morale, ha indotto più di un critico ad immaginare, a proposito degli scrittori rondisti, un "Aventino delle lettere", a somiglianza dell'Aventino scelto dagli uomini politici di fronte al prevalere dell'idea e del partito fascista: l'importanza storica della Ronda risiede principalmente nel fatto che con essa riaffiorava nuovamente la preoccupazione del "come" si debba dire, dopo il lungo predominio dei movimenti volti soltanto alla ricerca di "quello" che fosse più conveniente dire.

Ma tale preoccupazione incorse in un duplice errore: la fede eccessiva nella virtù della "parola isolata" portò ad un vero e proprio culto della forma, "ultimo residuo di un tenace dannunzianesimo" (U. Bosco); la riduzione della poesia a pura forma confluì nel concetto che ad accogliere il proprio mondo sentimentale, al poeta mo­derno fosse più atta la prosa lirica, che il verso.

Rifugiandosi nella "religione delle lettere", per usare l'espressione cara a Serra, ed in ossequio al concetto della "forma pura", i rondisti diedero vita a quella prosa d'arte, rarefatta e calligrafica, che trovò nei capitoli di Cecchi e Cardarelli la sua migliore espressione; tuttavia, non si può disconoscere l'azione di rinnovamento operata dalla rivista nell'ambito letterario del primo Novecento, perché la Ronda, "in un momento di grande disorientamento, richiamò al senso della tradizione, proclamò il pregio della finezza e nobiltà della nostra letteratura, e negli anni della frettolosa e spesso immotivata ricerca di novità e di 'immediatezza' espressiva, proclamò con chiarezza e fermezza che la letteratura, lo stile e la lingua sono forme di eredità culturali da conservare e svolgere, non impaccio e rèmora" (M. Sansone).






La lirica: poesia pura ed ermetismo



Alla fine della prima guerra mondiale, e precisamente nel 1919, appariva l'Al­legria di naufragi di Giuseppe Ungaretti (nell'edizione definitiva del '31 il titolo fu ridotto ad Allegria): con essa, e con le altre raccolte di questo poeta, si apre, per unanime consenso della critica, il nuovo corso della lirica italiana contemporanea.

Facendo tesoro dell'invito dei crepuscolari al ripiegamento interiore e del dinamismo della rivolta futurista, entrambi sintomi di una crisi che aveva coinvolto il concetto stesso e la funzione della poesia, questa prende ora a soggetto del proprio canto un'umanità dolente e trae motivo di ispirazione dalle cose e dai sentimenti, filtrati e purificati dalla essenzialità della parola.

Alle sue origini la nuova poesia è dichiaratamente polemica, perché rifiuta in maniera definitiva l'eloquenza oratoria carducciana, l'alessandrinismo dannunziano, l'effusione sentimentale pascoliana; ma anche la dimessa malinconia dei crepusco­lari e la fragorosa vacuità dei futuristi.


Muove dalla riconosciuta inutilità di ogni forma che non abbia la capacità di sentire ed interpretare la coscienza, e vuole esprimere quanto si agita nell'inconscio; ricerca, nella consapevole solitudine in cui si chiude, una mistica comunione del soggetto pensante e dell'oggetto evo­catore di immagini e di sensazioni, così da assomma re in un breve palpito lirico le voci del mondo interiore.

Essa riduce la propria fonte di ispirazione alla magia associativa di suoni, di silenzi, di pause cariche di mistero (da qui il voluto isolamento di più d'uno dei poeti in questo periodo cri­tico della storia e della cultura ufficiale, improntate alla retoricità ideale e politica della dittatura fascista), e tende a sfuggire all'aperta comunicazione con gli altri facendo uso di un linguaggio estremamente scarnito e spoglio di ogni elemento estraneo all'immediato sentire, un linguaggio consono alla improvvisa e frammentaria intuizione che il poeta ha della propria pena, della propria angoscia, della propria gioia.

L'analogia, già tipica della poesia decadente, viene ora assunta a momento fonda­mentale, liberata anche dal nesso connettivo della similitudine rappresentato dal "come": così, ad esempio, quando Ungaretti dice "Tornano in alto /ad ardere le stelle" diventa difficile ricostruire "i passaggi di fantasia e di immagini che hanno fatto di quelle 'stelle' le 'favole', ma rimane viva e chiara la suggestione di lontananza, di sogno e di speranza (forse di 'favole' udite alla luce delle 'stelle' o di illusioni cadute che tornano a risplendere nel cielo della vita) che l'analogia, l'identificazione dei termini hanno voluto creare" (G. Bàrberi Squarotti).

L'essenzialità espressiva induce il poeta a conferire alla parola un valore asso­luto: restituendola all'originario significato che essa aveva nelle età primitive, quando ad essa era affidato l'immediato rapporto tra l'uomo e le cose (la "parola della tribù", secondo la definizione di Mallarmé); depurandola di ogni legame logico-sintattico e di ogni esteriore sovrapposizione o deformazione imposta dall'uso, egli intende realizzare un lirismo totalizzante, che nelle opere più genuine raggiunge esiti arti­stici di notevole valore, ed in quelle non sorrette dall'incanto formale e dalla profondità del contenuto, si traduce in un manierismo di scuola, in cui il linguaggio si carica di significazioni non facilmente comprensibili, e pertanto ermetiche.


A partire dagli anni successivi alla prima guerra mondiale, la lirica italiana acquista, infatti, una sua particolare tendenza all'uso di un linguaggio difficile e poco comunicativo che si manifesta nell'arco degli anni '30: aspetto fondamentale di questa tendenza, comunemente indicata con l'appellativo "ermetica", è l'impegno totale assunto dal poeta nei confronti della letteratura intesa come la parte migliore della vita o, per usare il titolo di un noto saggio di Carlo Bo, intesa "come vita".

Il termine "ermetico" fu adottato per la prima volta da Francesco Flora nel 1930 per indicare una letteratura volutamente difficile, una poesia rivolta quasi esclu­sivamente ad iniziati, ed ebbe un valore negativo per quanto riguarda la involuzione formalistica operante nella poesia del periodo intercorrente fra le due guerre, ma occorre non dimenticare che la presenza di Montale è la dimostrazione che nell'am­bito di questo manierismo i singoli poeti si mossero alla ricerca di una loro via ori­ginale.

La critica contemporanea, non a caso, recentemente ha escluso dalla cerchia dei poeti ermetici Montale, Saba e per alcuni versi persino Ungaretti. Per questi possiamo parlare più propriamente di "poesia e pura", una poesia che non esprime quindi contenuti politici, filosofici e altro, ma pure sensazioni, emozioni (si veda come esempio ante litteram "L'infinito" di Leopardi); essi non hanno mirato che ad esprimere se stessi con la maggiore limpidezza possibile, e se, come i poeti decadenti, non sono sfuggiti al proprio travaglio spirituale, lo hanno accettato senza ribellione, paghi soltanto di trovargli un qualche conforto nel canto.


Tornando al saggio di Carlo Bo, prima citato, e pubblicato nel 1938 su "Il Frontespizio" - una rivista fiorentina fondata da Piero Bargellini, di indirizzo programmaticamente cat­tolico - possiamo affermare che esso presenta una sintesi degli elementi costitutivi della nuova tendenza lirica, assurta a movimento poetico, tra i più importanti dopo quello del Futu­rismo.

Dall'impegno totale del poeta scaturisce una nuova concezione di vivere, che si può compendiare nella "assenza" del poeta stesso dalle manifestazioni più esteriori della vita, assenza necessaria alla percezione delle inquietudini del suo spirito ed all'istantanea risoluzione poetica attraverso la "parola", sottratta alla consunzione del linguaggio parlato, ed elevata "ad un'essenzialità in cui la poesia si attua come magia, come sortilegio che ci permette di cogliere, oltre le parvenze fenomeniche, la realtà nel suo universale" (G. Manacorda).

Negli ermetici la parola diventa allusiva, frequentemente allegorica, non ligia al nesso lessicale od alle regole grammaticali, e con essa si realizza quello che, a giudizio di Ungaretti, è o lo scambio costante e fulmineo di proprietà tra le diverse parti del discorso. Anche l'aggettivazione che l'accompagna sfugge alla precisione rappresentativa con un uso ripetuto di sinestesie - "urlo nero", "bianco silenzio" - e la metrica si svincola da ogni rigidità di tipo convenzionale.

Questa concezione della poesia come atto integrale di vita e questa fede illimitata nelle capacità di rivelazione della parola, si giovano della lezione artistica di Ungaretti e di Montale, ed approdano a risultati autonomi ed originali nel quadro del simbolismo europeo; esasperate nella tematica e nella tecnica, scadono facilmente in un manierismo che codifica moduli e stilemi, che trasforma in assoluto verbale l'assoluto metafisico dei simbolisti, e riduce la tensione interiore in tensione pura­mente letteraria: in questi casi è possibile parlare di una specie di petrarchismo ermetico, vale a dire di un'arida esercitazione su modelli esemplari, in analogia a quanto era stato fatto sul testo del cantore di Laura da molti poeti cinquecenteschi.

Va aggiunto che all'azione speculativa della vita interiore operata dalla poesia, si affianca quella della critica, la quale, come ancora afferma Carlo Bo nel succitato saggio, "non lavora esternamente su dei dati precisi e disegnati sulla pagina", ma, assolvendo il suo compito di ricerca dell'autenticità, "coglie i sentimenti e le sensazioni nel probabile loro punto di partenza e vi si affida con l'intensità necessaria a una ricreazione, che pertanto resta autorizzata e autonoma". Nasce così, accanto al folto gruppo di poeti ermetici, un altrettanto folto gruppo di critici che si colloca in posizione alternativa al crocianesimo allora imperante: fra essi, oltre al Bo, si segnalarono Luciano Anceschi e Gianfranco Contini, ai quali sono da aggiun­gere i poeti-critici, da Bigongiari a Luzi, a Gatto.


Gli ermetici fecero capo, in un primo momento, a "Il Frontespizio", poi alcuni di essi si raccolsero intorno a "Letteratura" - il titolo era polemico nel confronti della concezione crociana di poesia (secondo cui la poesia è intuizione pura e come tale è breve; quello che non rientra in tale definizione non è poesia ma letteratura), rivista nata nel '37 ad iniziativa di Alessandro Bonsanti, interrotta nel '43 a causa degli eventi bellici, ripresa nel dopoguerra e viva tuttora: tra i suoi collaboratori sono da annoverare Montale e Saba, Gadda e Solini, Vittorini e la Mancini.

Quelli che consideravano l'attività letteraria come unica via di salvezza individuale e civile in senso rigoroso, confluirono nel quindicinale "Campo di Marte", redatto da Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, ma esso durò un solo anno.

A tutti questi, toscani o toscanizzati, che assommano i caratteri formali e più appariscenti dell'Ermetismo, si debbono aggiungere quelli appartenenti a gruppi regionali diversi, come quello lombardo, in cui fa spicco Vittorio Sereni, quello genovese, con Adriano Grande ed Angelo Barile, quello romano, con Giorgio Vigolo e Libero de Libero.

Si ha così il quadro della notevole dimensione raggiunta dal movimento ermetico, il quale, se fu animato da una comune fede nel mezzo espressivo, presentò soluzioni artistiche diverse, in corrispondenza alle diverse esperienze di vita e di sentimento dei singoli poeti che ad esso, direttamente od indirettamente, appartennero.


Per quanti sostengono che il filone poetico (poesia pura o ermetismo) sia legato direttamente alle vicende italiane, ed in particolare al clima culturale del regime fascista, va ricordato che per quanto il fattore politico, la mancanza di libertà espressiva, abbiano potuto incidere, vi sono autori come Eliot in America che presentano molte analogie con i nostri scrittori, e che tuttavia hanno vissuto in un diverso clima politico.






Giuseppe Ungaretti



Collocando sotto un unico titolo, Vita di un uomo (1970), tutti i suoi libri di poesia, di critica, di viaggi, di traduzioni, GIUSEPPE UNGARETTI (1888-1970) ci ha suggerito il modo migliore per accostarci alla sua poesia, che è quella, ad un tempo, di un uomo e di un letterato.


Trasferitosi da Alessandria d'Egitto, dove era nato, in Francia, compì i suoi studi universitari alla Sorbona, ed ebbe contatti con gli ambienti culturali parigini e con i poeti simbolisti. Passò in Italia nel 1914 e parte­cipò alla prima guerra mondiale; nel 1920 si stabilì a Roma e dal 1939 al 1942 insegnò letteratura italiana all'Università di San Paolo in Brasile; qui ebbe la sven­tura di perdere il figlio Antonietto, di appena nove anni.

Tornato a Roma, fu nominato accademico d'Italia e docente, per chiara fama, di letteratura moderna. Mori a Milano, subito dopo il rientro da un viaggio negli Stati Uniti.


La poetica ungarettiana è tutta imperniata sulla scoperta della parola nella sua essenzialità e nella sua dimensione semantica ("Quando trovo/ in questo mio si­lenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso"), nonché sulla ri­scoperta dello stretto rapporto tra esperienza biografica e poesia, da lui considerata "alcuni vocaboli deposti nel silenzio come un lampo nella notte, un gruppo ful­mineo di immagini".


Ne è già prova l'Allegria (edizione definitiva 1931), in cui con­fluiscono le prime liriche pubblicate nel 1916 con il titolo di Porto sepolto: la data e il luogo di composizione di ogni poesia ne fanno un lirico diario di guerra, in cui la condizione dell'uomo "alle prese con la realtà delle cose, con il caos, con la morte" è resa in forma nuovissima (parola accostata a parola, scomposizione del verso fino ad essere ridotto ad una sola voce verbale o ad un solo monosillabo, abolizione della punteggiatura, uso insistito degli aggettivi possessivi); questa forma fu dettata, al dire dello stesso poeta, "da una realtà immediata che esauriva tutto nella sua pre­senza e nella sua tragicità, e da un rapporto tra l'uomo e la natura dato nella sua crudezza e terribilità". Sono brevi poesie, talvolta semplici notazioni, dalle quali, per i sopravvissuti al tremendo naufragio della guerra, emergono i richiami alla vita.


Significata è la prefazione alla raccolta "Considerazioni sull'allegria" che qui riportiamo perché illustra chiaramente la concezione stessa della poesia per Ungaretti (e quindi per i poeti a lui coevi che ne hanno seguito le orme in qualche modo).


Ci ripugnava fin alle radici del sangue il Decadentismo, quella scuola i cui maestri, e i ridicoli epigoni, si consideravano come gli ultimi superstiti d'una società da esaltare, come la stessa vita, con atteggiamenti neroniani[1].

Ci si renda ben conto di questo:era giusto che allora i giovani sentissero che il discorso fosse da riprendere dall'abbicì e che tutto fosse da recuperare. I Futuristi, in un certo senso avrebbero potuto non ingannarsi se non avessero rivolto l'attenzione ai mezzi forniti all'uomo dal suo progresso scientifico, invece che alla coscienza dell'uomo, che quei mezzi avrebbe dovuto moralmente dominare.

S'ingannavano perché avevano fatto proprie le più assurde illusioni derivate dal Decadentismo; immaginando che dalla guerra e dalla distruzione potesse scaturire qualche forza e qualche dignità.

Così immaginarono che anche la lingua fosse da mandare in rovina, per restituirle qualche attività e qualche gloria. (.)

La parola; che fosse travolta nelle pompose vuotaggini da un'onda oratoria o che si gingillasse in vagheggiamenti decorativi e estetizzanti, o che fosse prevalentemente presa dal pittoresco bozzettistico o da malinconie sensuali[2]; o da scopi non puramente soggettivi e universali mi pareva che fallisse al suo scopo poetico.

Ma fu durante la guerra, fu la vita mescolata all'enorme sofferenza della guerra; fu quel primitivismo[3], sentimento immediato e senza veli; spavento della natura e cordialità rifatta istintiva dalla natura; spontanea ed inquieta immedesimazione nell'essenza cosmica delle cose; fu quanto d'ogni soldato alle prese con la cecità delle cose, con il caos e con la morte, faceva un essere che in un lampo si ricapitolava dalle origini, stretto a risollevarsi nella solitudine e nella fragilità della sorte umana, faceva un essere sconvolto a provare per i suoi simili uno sgomento ed un'ansia smisurati e una solidarietà paterna - fu quello lo stato d'estrema lucidità e d'estrema passione a precisare nel mio animo la bontà della missione già intravista, se una missione avessi dovuto attribuirmi e fossi stato atto a compiere, nelle lettere nostre.

Se la parola fu nuda[4]; se si fermava a ogni cadenza del ritmo, a ogni battito del cuore, se si isolava momento per momento nella sua verità, era perché in primo luogo l'uomo si sentiva uomo, religiosamente uomo; e quella gli sembrava la rivoluzione che necessariamente dovesse in quelle circostanze storiche muoversi dalle parole. Le condizioni della poesia nostra e degli altri paesi allora, non reclamavano del resto altre riforme se non questa fondamentale.



Quindi sono qui delineate alcune caratteristiche fondamentali della poesia di Ungaretti: parola essenziale, primitivismo, recupero dei valori della vita e dei valori umani contro il mito del progresso, della macchina, nonché contro l'esaltazione della guerra.

Inoltre, emerge una volontà di far proprio il desiderio di rinnovamento delle Avanguardie, ma di guardare oltre e "ricostruire", proprio in funzione dell'uomo.

E' questa quindi una sorta di normalizzazione, di ritorno all'ordine, di recupero della "forma" anche in campo poetico, della sintassi, della metrica, rinnegate dal Futurismo.

Questo aspetto sarà ancora più evidente in poeti come Montale o Saba.


In Sentimento del tempo (1933) si ha, dopo un attento studio della tradizione italiana, una restaurazione metrica con il ritorno all'endecasillabo ed al settenario (con riferimento a modelli della tradizione, in particolare del Seicento), ritenuti connaturali alla nostra stessa lingua; si osserva nella raccolta un più profondo scavo interiore, che consente all'autore di stabilire un colloquio diretto con l'umanità intera sui temi del tempo, del dolore, della morte, di Dio; un più intenso e più sofferto rapporto tra caducità ed eternità, che si risolve nel passaggio dell' "uomo di pena" all'uomo in cerca di un approdo certo e sicuro, la fede, che lo aiuti a superare la tensione esistenziale.

La carica religiosa è qui più scoperta e costante, tanto che l'ultima sezione della raccolta (La morte meditata) può essere considerata "la finale conclusione del cammino dalla terra a Dio" (F. Portinari); il linguaggio si fa più prezioso e più alto, ed in esso l'ag­gettivo ed il superlativo acquistano una importanza del tutto nuova; la tecnica del­l'analogia viene spinta all'estremo, così da costituire, con l'istantanea associazione di realtà lontanissime tra loro, una prima esemplificazione dell'Ermetismo di ma­niera.


Ne Il dolore (1947) Ungaretti raggiunge i suoi più validi esiti artistici: vi sono ripresi, nuovamente in forma di diario poetico (la prima delle due sezioni è per l'ap­punto intitolata Giorno per giorno), i momenti di grande dolore e di meditazione derivati dalla sventura personale (morte del figlio) e dalia pubblica sventura (occu­pazione di Roma durante la guerra): l'una e l'altra si integrano a vicenda nella consa­pevolezza del poeta che entrambe fanno parte di un comune destino di sofferenza, e questa consapevolezza sfocia in accenti di struggente umanità e di alto compianto, sottolineati dalle acquisizioni linguistiche e dall'urgenza di assoluto e di infinito delle raccolte precedenti (vedi la lirica Mio fiume anche tu).


La Terra promessa comprende frammenti scritti tra il 1935 ed il 1953, e sarebbe dovuta risultare un poema scenico, con accompagnamento musicale, incentrato sulla vicenda di Enea e sul recupero del mito di Didone: la ricerca dell'assoluto e la vanità di ogni sforzo umano collegano questa all'ultima opera, Taccuino del vecchio (1960), in cui la vita appare come "il turbinio continuo/ dei vani mutamenti".




Giuseppe Ungaretti: selezione antologica


Da L'allegria



Veglia


Un'intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d'amore


Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita


Sono una creatura

Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
cos' totalmente
disanimata
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo


I Fiumi


Mi tengo a quest' albero mutilato

abbandonato in questa dolina

che ha il languore

di un circo

prima o dopo lo spettacolo

e guardo

il passaggio quieto

delle nuvole sulla luna.


Stamani mi sono disteso

in un' urna d' acqua

e come una reliquia

ho riposato.


L' Isonzo scorrendo

mi levigava

come un suo sasso.


Ho tirato su

le mie quattr 'ossa

e me ne sono andato

come un acrobata

sull' acqua.


Mi sono accoccolato

vicino ai miei panni

sudici di guerra

e come un beduino

mi sono chinato a ricevere

il sole.


Questo è l' Isonzo

e qui meglio

mi sono riconosciuto

una docile fibra

dell' universo.


Il mio supplizio

è quando

non mi credo

in armonia.


Ma quelle occulte

mani

che m' intridono mi regalano

la rara

felicità


Ho ripassato

le epoche

della mia vita.


Questi sono

i miei fiumi.


Questo è il Serchio

al quale hanno attinto

duemil anni forse

di gente mia campagnola

e mio padre e mia madre.


Questo è il Nilo

che mi ha vista

nascere e crescere

e ardere d' inconsapevolezza

nelle estese pianure.


Questa è la Senna

e in quel suo torbido

mi sono rimescolato

e mi sono conosciuto.


Questi sono i miei fiumi

contati nell' Isonzo.


Questa è la mia nostalgia

che in ognuno

mi traspare

ora che è notte

che la mia vita mi pare

una corolla

di tenebre.


Fratelli


Di che reggimento siete

fratelli?


Parola tremante

nella notte


Foglia appena nata


Nell'aria spasimante

involontaria rivolta

dell'uomo presente alla sua

fragilità


Fratelli



Mattina


M'illumino

d'immenso.





San Martino del Carso


Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro


Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto


Ma nel cuore

nessuna croce manca


E' il mio cuore

il paese più straziato


Soldati


Si sta come

d'autunno

sugli alberi

le foglie.





Da Sentimento del tempo


La madre


E il cuore quando d'un ultimo battito

Avrà fatto cadere il muro d'ombra,

Per condurmi, Madre, sino al Signore,

Come una volta mi darai la mano.


In ginocchio, decisa,

Sarai una statua davanti all'Eterno,

Come già ti vedeva

Quando eri ancora in vita.


Alzerai tremante le vecchie braccia.

Come quando spirasti

Dicendo: Mio Dio, eccomi.


E solo quando m'avrà perdonato,

Ti verrà desiderio di guardarmi.


Ricorderai d'avermi atteso tanto,

E avrai negli occhi un rapido sospiro.


Quiete


L'uva è matura, il campo arato,

Si stacca il monte dalle nuvole,


Sui polverosi specchi dell'estate

Caduta è l'ombra.


Tra le dita incerte

Il loro lume è chiaro

E lontano.


Colle rondini fugge

L'ultimo strazio


Sentimento del tempo


E per la luce giusta,

Cadendo solo un'ombra viola

Sopra il giogo meno alto,

La lontananza aperta alla misura,

Ogni mio palpito, come usa il cuore,

Ma ora l'ascolto,

T'affretta, tempo, a pormi sulle labbra

Le tue labbra ultime.










Da Il Dolore


Non gridate più


Cessate di uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete udire,
Se sperate di non perire.
Hanno l'impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell'erba,
Lieta dove non passa l'uomo.



Eugenio Montale



E' sufficiente aprire Ossi di seppia per comprendere il tono della poesia di EU­GENIO MONTALE la dolorosa e pessimistica vibrazione dovuta all'impossibilità di intendere che cosa sia la vita e il mondo (eco pascoliana del mistero che ci sovrasta al pari di "una muraglia invalicabile, rasente la quale noi passiamo come viandanti senza speranza") si risolve, o si dissolve, in una "arida" impassibilità contemplativa del ritmo incessante della vita umana, la quale si scompone e si ricompone indefi­nitamente come la risacca del mare, ed al termine di ogni suo ciclo evolutivo lascia dietro di sé null'altro che "ossi", ossi di seppia.

La tristezza del poeta scaturisce dalla legge impenetrabile che lo condanna a soffrire "impietrato" senza nome, lo respinge lontano dal corso della "fiumara del vivere", lo sottrae alla immobilità dell'attesa della morte, ne fa confondere dal vento la polvere mortale con la "cenere degli astri".

Riconoscerci, assumere un volto prima che l'onda degli eventi ci travolga, stabilire un lungo monologo con noi stessi in questa cosciente atmosfera di annientamento, affacciarci dalla "finestra che non s'illumina" per contemplare "la vita che dà barlumi", cioè il vasto ed indefinito quadro delle nostre illusioni: questo il mondo poetico di Montale, che alle fratture, alle pause, alla tipica asintatticità ungarettiana preferisce un dettato pressoché calmo e logico.


Non si può affatto parlare in tal senso di ermetismo, ma di poesia pura


Montale nacque a Genova nel trascorse l'infanzia e la giovinezza in Liguria, e partecipò alla prima guerra mondiale senza che questa abbia avuto per lui, come per Jahier ed Ungaretti, una determinante risonanza psicologica. Dopo alcuni anni trascorsi a Torino, durante i quali pubblicò Ossi di seppia nelle edizioni del "Baretti", si trasferì nel '27 a Firenze ed assunse l'incarico di direttore del Gabinetto di lettura di Viesseux, incarico dal quale venne allontanato nel per la sua opposizione al fascismo. Nel '47 si trasferì a Milano e si dedicò all'attività giornalistica, in qualità di redattore, presso il " Corriere della Sera "; nel '67 venne nominato senatore a vita e nel '75 ebbe il riconoscimento ufficiale dei suoi meriti letterari con l'assegnazione, del premio Nobel. E' morto nel



Il suo itinerario poetico si apre con Ossi di seppia (1925), in cui sono riunite le liriche di quasi un decennio, ed in cui si precisano già i caratteri essenziali d suo modo di intendere e di rappresentare la vita.

Rifacendosi alla tecnica analogica dei simbolisti, Montale si differenzia dagli ermetici mettendo sempre in correlazione oggetti, elementi paesaggistici, particolari situazioni, con la singola emozione che essi suscitano nel suo animo, così da trasformarli in linguaggio simbolico di quella stessa emozione: in tal modo il mare, ad esempio, assume il significato emblematico della vita, dell'innocenza, dei sogni dell'infanzia; la terra, quello dei ricordi infranti, dell'elegia, del rimpianto.

E questo quello che viene definito "correlativo oggettivo", che riprende e a tratti esaspera la poetica dell'oggetto tipica di poeti decadenti (si veda Pascoli) e che porta all'oggettivazione degli stati d'animo:


Spesso il male di vivere ho incontrato: stato d'animo


era il rivo strozzato che gorgoglia,    

era l'incartocciarsi della foglia              oggettivazione di quello stato d'animo:

riarsa, era il cavallo stramazzato.     per far comprendere quel sentimento il poeta lo mette in correlazione con delle immagini


Nel dissidio di questi elementi si ha oggettivazione artistica del dramma interiore del poeta, dramma costituito essenzialmente da un'attesa senza fine, senza soluzione, senza speranza.

Da qui il valore metafisico della parola-immagine in Montale: essa ne traduce l'intuizione corrosiva della realtà ("ciò che non siamo, ciò che non vogliamo"), la constatazione dell'impotenza dell'uomo in una vita concepita come un'irta ed invalicabile muraglia ("una muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia"), i ripetuti conati di evadere dal "male di vivere", di trovare "una maglia rotta nella rete/ che ci stringe", che però si riducono immancabilmente in una sconfitta.

Nessun abbandono sentimentale, nessuna fiducia nella funzione consolatoria della "poesia messaggio", dignitosa e virile accettazione della realtà, indagata e verificata con un continuo scavo della ragione, in una problematica esistenziale ancor più ricca di quella riscontrabile in Ungaretti.

La raccolta si chiude con la lirica Riviere, tutta pervasa dall'aspirazione di potere, con la riconquista del proprio destino e della propria libertà, per sciogliere un inno alla pienezza del vivere, anziché compiangerne elegiacamente la sconfitta ("sentire /noi pur domani tra i profumi e i venti / un riaffiorar di sogni, un urger folle / di voci verso un esito; e nel sole / che v' investe, riviere rifiorire! "). Non era però difficile prevedere che tale inno non si sarebbe mai concretato.

La tematica degli Ossi di seppia si amplia nella raccolta successiva, Le occasioni (1939), perché, alla poetica degli oggetti, si affianca ora la poetica della memoria "l'aspra pietraia degli Ossi di seppia, presa a simbolo di tutta la natura che ci opprime nel suo continuo disfacimento, cede il posto al vasto paesaggio, anch'esso ribollente e malfido, della vita interiore; in qualunque modo si muova il poeta si vede determinato da mille cose passate, e presenti legate al passato; ma soprattutto dagli incontri che egli ha sollecitato o subìto: le occasioni della vita. Luoghi, persone, oggetti; un mondo, in sostanza, altrettanto tumultuoso e dissonante da quello un   tempo osservato dalle scogliere della sua Liguria" (G. Spagnoletti).

Il poeta cerca invano di trattenere, nel ricordo, cose e creature, soprattutto femminili, ma il tempo, senza pietà, le dissolve, e la vita gli si ripresenta di nuovo come "un discendere /fino al vallo estremo, / nel buio" (Noi non sappiamo

Così le occasioni, da illusoria ripresa di contatto con il ritmo incessante del mondo, si trasformano in conferma amara del nostro non-essere e del nostro non-sapere, ed inducono il poeta a rinchiudersi in un simbolismo sempre più sottile e sempre più impenetrabile, tanto da fargli avvertire la necessità di rapide notazioni per consentire al lettore di cogliere i profondi significati allusivi.


Il "male di vivere" si colora storicamente ne La bufera e altro (1956), che ha per oggetto l' "ora della tortura e dei lamenti", vale a dire il tempo della seconda guerra mondiale: la violenza scatenata dagli uomini e l'assurda carneficina operata dai tiranni ingenerano nel poeta angoscia ed orrore, e provocano l'intensificazione della sua inquietudine religiosa, in un continuo raffronto della propria con la condizione degli altri, nella drammatica ricerca di una qualche luce che brilli oltre le tenebre e lo strazio di quegli anni, nell'esaltazione della creatura femminile, sia essa Clizia o Diotima o Iride, cui è affidata, nuova donna-angelo, una funzione redentrice nei rapporti fra l'uomo e Dio.


Il quarto tempo della poesia montaliana è rappresentato da Satura (1971), che raccoglie poesie scritte tra il '62 ed il '70, e che deve il titolo, di derivazione latina, alla miscellanea di temi ripresi dalla cronaca, dalla memoria, dalla riflessione su esperienze personali. Nonostante il tono diverso, ora apparentemente ironico ed ir­ridente sulla mediocrità politica della nuova democrazia instauratasi in Italia, nei confronti della quale assume un atteggiamento di distacco e di rifiuto (Botta e risposta 1, La storia); ora di colloquio affettuoso con la moglie morta (Xenia); ora di ripiegamento riflessivo sulla propria vicenda esistenziale, il poeta rimane, concettualmente, ancorato alla iniziale visione del mondo e della vita, un mondo fenomenico che rinchiude l'uomo come in una prigione, a liberarsi dalla quale occorrerebbe un qualche cosa di miracoloso, improbabile ed imprevedibile.


Nel 1977 è apparso il Quaderno di quattro anni che contiene un centinaio di poesie, scritte prevalentemente tra il 1973 ed il 1977: in esse il poeta torna spesso ai ricordi della sua adolescenza, delle Cinque Terre, della prima guerra mondiale.

Ma non mancano le liriche nelle quali riafferma la vanità della ricerca del vero, la sua religione del nulla e la miseria estrema della condizione umana, nello stile lapidario e fulmineo che solo è suo e che ritroviamo per la prima volta negli Ossi di seppia. Sulla natura dell'ispirazione e sul mestiere del poeta può essere considerato conclusivo il lungo ed acuto discorso sviluppato nel saggio La poesia


Le molte pagine di prosa che accompagnano la sua lunga attività poetica furono ­raccolte da Montale nel volume La farfalla di Dinard (1960): sono racconti brevi ricordi dell'adolescenza e di luoghi a lui familiari (il retroterra selvaggio della sua Liguria), descrizioni di tipi e di persone, caratterizzate da buon gusto e da eleganza stilistica, tanto da assumere un loro proprio ad autonomo valore artistico, il quale, a giudizio di Cesare Segre, potrebbe situarsi su un livello che non è più di autobio­grafia, ma non è ancora del tutto di poesia.          


Non è infine da dimenticare l'acuta penetrazione del critico, al quale si deve la scoperta e la riabilitazione di Svevo, e tutta una serie di giudizi illuminati sui contemporanei: il volume Auto da fé che può essere considerato "un atto di fede nell'uomo e nella sua cultura", lo colloca in una posizione di prim'ordine fra i critici militanti.





Eugenio Montale: selezione antologica



Da Ossi di seppia




I limoni


Ascoltami, i poeti laureati

si muovono soltanto fra le piante

dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.

Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi

fossi dove in pozzanghere

mezzo seccate agguantano i ragazzi

qualche sparuta anguilla:

le viuzze che seguono i ciglioni,

discendono tra i ciuffi delle canne

e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.


Meglio se le gazzarre degli uccelli

si spengono inghiottite dall'azzurro:

più chiaro si ascolta il susurro

dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,

e i sensi di quest'odore

che non sa staccarsi da terra

e piove in petto una dolcezza inquieta.

Qui delle divertite passioni

per miracolo tace la guerra,

qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza

ed è l'odore dei limoni.


Vedi, in questi silenzi in cui le cose

s'abbandonano e sembrano vicine

a tradire il loro ultimo segreto,

talora ci si aspetta

di scoprire uno sbaglio di Natura,

il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,

il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

nel mezzo di una verità.


Lo sguardo fruga d'intorno,

la mente indaga accorda disunisce

nel profumo che dilaga

quando il giorno più languisce.

Sono i silenzi in cui si vede

in ogni ombra umana che si allontana

qualche disturbata Divinità.


Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo

nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra

soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.

La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta

il tedio dell'inverno sulle case,

la luce si fa avara-amara l'anima.

Quando un giorno da un malchiuso portone

tra gli alberi di una corte

ci si mostrano i gialli dei limoni;

e il gelo del cuore si sfa,

e in petto ci scrosciano

le loro canzoni

le trombe d'oro della solarità.



Meriggiare pallido e assorto


Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra fondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'e' tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.


Spesso il male di vivere.


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il vivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.


Forse un mattino.

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.









Da Le occasioni



Non recidere, forbice, quel volto,

Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala Duro il colpo svetta.
E l'acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.




Da La bufera


L'Anguilla

L'Anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma finché un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d'acqua morta
nei fossi che declinano
dai balzi d'Appenino alla Romagna;

l'anguilla, torcia frusta,
freccia d'Amore in terra
che solo i nostri botri o i disseccati
ruscelli pirenaici riconducono
ai paradisi di fecondazione;

l'anima verde che cerca
vita là dove solo
morde l'arsura e la desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto pare
incarbonirsi, bronco seppellito;

l'iride breve, gemella
di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli
dell'uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?






Umberto Saba



Scorrendo a caso il Canzoniere del triestino UMBERTO SABA ( ci può assalire il dubbio, come ha osservato Giacomo Debenedetti, che esso appartenga ad un poeta del secondo Ottocento, tanto la sua poetica si accosta, nelle apparenze esteriori, alla generica poetica del Verismo, ma la sua formazione culturale in una città "periferica" - così definisce il poeta stesso la sua Trieste - ed il " fondo di fanciullo e di popolano" rimasto in lui inalterabile con il passare degli anni, stanno a dimostrare l'originalità del suo temperamento artistico, volto a ricondurci alla umanità di ogni giorno ed a discoprirci i sentimenti più comuni che si celano in essa.

La sua voce, inizialmente sommessa ed a sfondo autobiografico, si fece via via di più ampio respiro, fino ad abbracciare l'intera storia di un uomo ed il "colore caldo" di una città, l'uno e l'altra avvivati dalla luce che promana da una realtà umile e dl­messa, che può farci pensare a Gozzano, ma che si differenzia da quella del poeta crepuscolare per l'adesione sentimentale e la simpatia con cui viene rappresentata.


Saba ebbe un'infanzia triste e poverissima: rinunziò al cognome del padre, Poli, quale rivalsa contro di lui per aver abbandonato la madre in quanto ebrea, ed assunse quello di Saba, che in ebraico significa "pane". Non poté compiere studi regolari e fu costretto ad imbarcarsi, come mozzo, su navi di piccolo cabotaggio per procurarsi da vivere: con i risparmi riuscì ad aprire nella città natale una libreria antiquaria, che gli procurò una certa agiatezza e che soprattutto gli consentì di tra­scorrere una vita chiusa al mondo esterno, ma aperta agli amici ed alla cultura. Le leggi razziali lo costrinsero prima a rifugiarsi a Parigi, poi a vivere clandestinamente a Roma ed a Firenze. Nel rientrò a Trieste, e qui trascorse gli ultimi anni della sua vita, spentasi a Gorizia.


Alcuni versi della lirica Il borgo sintetizzano la sua poetica: "La fede avere / di tutti, dire / parole, fare / cose che poi ciascuno intende, e sono / come il pane e il vino, / come i bimbi e le donne i valori di tutti". Ciò corrisponde alla poesia delle cose, espressa in una forma che è ridotta essa pure all'essenzialità dei poeti ermetici, ma rifugge dall'analogia largamente usata da questi (frequente è infatti l'uso della similitudine), e si serve di un lessico e di una sintassi "normale" inseriti nei metri e nelle rime tradizionali, le sole capaci, a suo giudizio, di conferire liricità ad un contenuto di per sé "prosastico".

Se poi si aggiunge che in un noto scritto del (Quello che resta da fare ai poeti) Saba contrappone l'"onestà" di Manzoni, il quale aveva fatto "versi mediocri ed immortali", alla "disonestà" di D'Annunzio, autore di "magnifici versi per la più parte caduchi", si comprende la sua istintiva propensione, contro la tendenza letteraria e gli sperimentalismi del tempo, verso una poesia concreta e ricca di umanità, anche se comportante il rischio di incorrere nella prosasticità formale.

"Se leggi questi versi e se in profondo / senti che belli non sono, son veri" (Quasi un racconto, Saba rimase costantemente fedele in tutta la sua produzione poetica a questo tipo di poesia, nella quale sono compresenti la realtà che lo circonda e la proiezione di se stesso nel canto attraverso tale realtà, in un'ansia di partecipazione alla vita ed alla comunione con gli uomini che si traduce in confessione autobiogra­fica, e che trae origine dall'angosciosa consapevolezza della inconsistenza e della incomprensibilità del vivere umano. Da qui la sottile vena di malinconia che lo contraddistingue.


La produzione poetica di Saba inizia con Poesie che al loro primo apparire destarono più di una perplessità sotto il punto di vista formale, a fronte della poesia dannun­ziana e crepuscolare, e continua via via fino a Ulime cose Mediterranee Uccelli - Quasi un racconto riunite tutte in un solo volume con il titolo di Canzoniere la cui terza edizione definitiva è del ne sono temi, cose ed affetti familiari, il porto e la città di Trieste, le stagioni, l'amore, i viaggi, rivolgimenti storici e, prevalentemente, minimi fatti della vita, quali un incontro, un ricordo, un'impressione.

Caratteristica è la frequente identificazione dell'uomo nelle forme elementari della vita animale (vedi A mia moglie, e La capra) e l'attenzione ai particolari.

Della sua poesia, sotto lo pseudonimo di Giuseppe Calimandrei, egli stesso ci ha fornito una illustrazione ed un imparziale giudizio, quasi a sottolineare di esserne il solo interprete autorizzato, in Storia e cronistoria del Canzoniere, opera che, insieme al volumetto di prose Scorciatoie e raccontini rivela in Saba la presenza dello scrittore, oltre che del poeta.

Il suo messaggio umano e poetico, nel quale si condensano l'inquietudine, l'amarezza, la tensione spirituale dell'uomo moderno, ne fanno uno dei lirici più rappresentativi del primo Novecento.





Umberto Saba: selezione antologica



Da Casa e Campagna


A mia moglie


Tu sei come una giovane

una bianca pollastra.

Le si arruffano al vento

le piume, il collo china

per bere, e in terra raspa;

ma, nell'andare, ha il lento

tuo passo di regina,

ed incede sull'erba

pettoruta e superba.

È migliore del maschio.

È come sono tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio,

Così, se l'occhio, se il giudizio mio

non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,

e in nessun'altra donna.

Quando la sera assonna

le gallinelle,

mettono voci che ricordan quelle,

dolcissime, onde a volte dei tuoi mali

ti quereli, e non sai

che la tua voce ha la soave e triste

musica dei pollai.


Tu sei come una gravida

giovenca;

libera ancora e senza

gravezza, anzi festosa;

che, se la lisci, il collo

volge, ove tinge un rosa

tenero la tua carne.

se l'incontri e muggire

l'odi, tanto è quel suono

lamentoso, che l'erba

strappi, per farle un dono.

È così che il mio dono

t'offro quando sei triste.


Tu sei come una lunga

cagna, che sempre tanta

dolcezza ha negli occhi,

e ferocia nel cuore.

Ai tuoi piedi una santa

sembra, che d'un fervore

indomabile arda,

e così ti riguarda

come il suo Dio e Signore.

Quando in casa o per via

segue, a chi solo tenti

avvicinarsi, i denti

candidissimi scopre.

Ed il suo amore soffre

di gelosia.


Tu sei come la pavida

coniglia. Entro l'angusta

gabbia ritta al vederti

s'alza,

e verso te gli orecchi

alti protende e fermi;

che la crusca e i radicchi

tu le porti, di cui

priva in sé si rannicchia,

cerca gli angoli bui.

Chi potrebbe quel cibo

ritoglierle? chi il pelo

che si strappa di dosso,

per aggiungerlo al nido

dove poi partorire?

Chi mai farti soffrire?


Tu sei come la rondine

che torna in primavera.

Ma in autunno riparte;

e tu non hai quest'arte.


Tu questo hai della rondine:

le movenze leggere:

questo che a me, che mi sentiva ed era

vecchio, annunciavi un'altra primavera.


Tu sei come la provvida

formica. Di lei, quando

escono alla campagna,

parla al bimbo la nonna

che l'accompagna.


E così nella pecchia

ti ritrovo, ed in tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio;

e in nessun'altra donna.


La capra


Ho parlato a una capra.

Era sola sul prato, era legata.

Sazia d'erba, bagnata

dalla pioggia, belava.


Quell'uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi, prima

per celia, poi perché il dolore è eterno,

ha una voce e non varia.

Questa voce sentiva

gemere in una capra solitaria.


In una capra dal viso semita

sentiva querelarsi ogni altro male,

ogni altra vita.






Salvatore Quasimodo



Ancora il senso della solitudine, ma avvivato dalla suggestione di un mondo ideale identificato nella mitica ed agreste Sicilia, dove trascorse gli anni della fan­ciullezza, anima la poesia di SALVATORE QUASIMODO

Nato a Modica, trascorse la sua infanzia in varie località di provincia, via via che il padre, caposta­zione, vi veniva trasferito, fino a giungere a Messina due soli giorni dopo il terre­moto (quello spettacolo di morte e di rovina rimase poi indelebile nel suo animo).

Compiuti gli studi medi in questa città, si trasferì a Roma e si iscrisse alla facoltà di Ingegneria, ma dovette abbandonare l'Università per ragioni economiche. Dive­nuto funzionario del Genio Civile, risiedette in varie regioni d'Italia per motivi di lavoro; nel si stabilì a Milano, entrò nel giornalismo, e dopo qualche anno, consolidatasi la sua fama di poeta, fu chiamato ad insegnare letteratura italiana al Conservatorio di Brera. Nel venne insignito del premio Nobel, e morì ad Amalfi quasi allo scadere di un decennio da questo riconoscimento internazionale.


La parabola della poesia di Quasimodo si apre con un'adesione all'Ermetismo, da intendere però limitata al raffinato gusto formale ed ai miti prestigiosi dell'animo che contraddistinguono la nostra lirica nello spazio intercorrente fra le due guerre, anche se dell'Ermetismo egli si considerava l'iniziatore con le poesie di Oboe sommerso si estende ad una stagione al centro della quale sta la tematica, pervasa di nostalgica elegia, della sua isola nativa; si conclude con una tensione drammatica - originata dagli orrori della guerra - che si risolve in un impegno etico e civile.


La sua prima raccolta di versi, Acque e terre del '30 e vi si possono ancora incontrare echi e movenze di ascendenza pascoliana e dannunziana, ma già vi si avverte la tendenza a ridurre l'ispirazione alla sua essenzialità, pur nella chiarezza dell'espressione. Questa chiarezza cede al gusto intellettualistico della parola in Oboe sommerso ed in Erato e Apollion in cui la sua volontà di scarnificazione e di essenzialità si concreta attraverso un analogismo oscuro. È il momento più appariscente dell'ermetismo di Quasimodo, determinato dalle suggestioni analogiche che gli provenivano da autorevoli modelli, quali Un­garetti e Montale (tuttavia irripetibili ed inimitabili), e che egli, in un tentativo di natura provinciale, intendeva superare: tale tentativo lo portò alla esasperazione dei moduli espressivi, all'impreziosimento dell'immagine, a nessi fortemente ellittici, fino "alla scomposizione surreale del corpo lirico" (M. Tondi).

Da qui l'equivoco di un Quasimodo responsabile, o maggior esponente, del movimento ermetico.

Ciò, tuttavia, non lo indusse ad abbandonare il tema della tristezza esistenziale, il quale, mitizzandosi nel ricordo della giovinezza isolana, sovrasta artisticamente i limiti stessi della poesia ermetica (" Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera").


In Nuove poesie Quasimodo ritorna ad un maggiore equilibrio formale e stilistico, dovuto in gran parte alle traduzioni dei lirici greci, dei poeti latini, di qualche poeta straniero, e con l'equilibrio stilistico ritorna il ricordo della sua isola, tradotto questa volta in evocazione di sentimenti, così che il paesaggio siciliano si tramuta nel paesaggio interiore del poeta, i luoghi dell'infanzia assumono la colorazione di un mondo perduto nel tempo, e questi luoghi si popolano di presenze umane che, nella solitudine e nella tristezza del presente, originano una specie di malinconica mitizzazione del passato (si vedano Vento a Tìndari, Ride la ragazza, Strada di Agrigentum, Ora che sale il giorno).

La raccolta entrò a far parte, con quelle precedenti, di Ed è subito sera che risultò una riedizione, rivista e corretta nell'ambito della raggiunta maturità poetica, delle poesie di Quasimodo.


Nelle successive raccolte Giorno dopo giorno La vita non è sogno Il falso e vero verde c'è l'irrompere della sanguinante e dolorosa vicenda della guerra, ma non si opera una frattura con la poesia precedente: istintivamente portato a farsi "cantore" del sentimento, la sua meditazione sul dolore esistenziale si arricchisce di una maggiore disponibilità all'incontro con il dolore degli altri uomini: la sua tematica oscilla tra lo sgomento provocato dagli orrori dei bombardamenti, dei fiumi d'incendi, dei morti per le strade, e la speranza alimentata da una fede che non viene meno, nonostante l'assenza di Cristo e di ogni umana pietà; i suoi orizzonti si ampliano in una accettazione e partecipazione ai valori etici e civili della nuova realtà storica sorta dalla Resistenza. La forma si fa più sciolta, il ritmo più cadenzato, il linguaggio più aperto e comunicativo, anche se la tensione emotiva sfocia ora in nobile oratoria, come nelle epigrafi dedicate ai partigiani uccisi; ora in immagini atroci ("la piana di Kutno/ con le colline di cadaveri che bruciano/ in nuvole di nafta"); ora in modulazioni di tipo prosastico e cronachistico.


Con La terra impareggiabile Quasimodo ritorna alla sua isola ("Da tempo ti devo parlare d'amore"), quasi a ripercorrere il lungo cammino poetico percorso: vi si trova il mito greco, la sua Sicilia, la cronaca politica e civile, corredata frequentemente di conclusioni con valore di sentenze, ma soprattutto vi si ritrova il perdu­rare dei contrasti, delle intenzioni, delle sperimentazioni che contraddistinguono tutto il suo canto.

Questa specie di consuntivo, nel quale ritorna con maggiore fre­quenza il tema della morte, raggiunge accenti di alta poesia nella lirica Al padre, che può essere considerata come suo testamento morale e come una delle sue espres­sioni artistiche più valide.


Salvatore Quasimodo: selezione antologica


Da Acque e terre - (Ed è subito sera)

Ed è subito sera

Metro: si alternano liberamente, nell'unica strofa, un doppio senario, un novenario e un settenario

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.


OSSERVAZIONI: Tre soli versi, poche sillabe, eppure tale è la densità di significato.
Ci sono due livelli di lettura: uno 'di superficie' e uno profondo.

In superficie i tre versi hanno un'evidenza figurativa: noi vediamo un essere solitario, al centro di una vastità sconfinata, illuminato da l'ultimo raggio di sole che poi all'improvviso si dilegua, per lasciar posto all'oscurità della sera.
 A livello profondo però, non soltanto ogni verso, ma quasi ogni parola ha una carica semantica intensa. Ognuno: cioè ognuno di noi, ogni essere che vede la luce, sta solo, perché la solitudine è connaturata alla condizione umana, in ogni tempo e in ogni luogo. L'uomo sta sul cuor della terra, in mezzo alla vita pulsante, ma escluso da un'autentica comunione con gli altri.

Un raggio di sole lo trafigge: anche la luce, la vita, è dolore. E dopo la vicenda di solitudine e di sofferenza della giornata, ecco, di colpo, la sera, l'annularsi di tutto nel buio. Il componimento è dunque un'allegoria della vita dell'uomo, risolta nel breve giro di tre versi in cui le parole assumono un significato universale.
La lirica costituiva originariamente le conclusione di una composizione più lunga, di sei strofe, intitolata Solitudini. Nella redazione definitiva le prime cinque strofe, pur belle, sono state eliminate, in vista di una più forte concentrazione espressiva: Quasimodo aveva accolto la lezione della 'poesia pura' di Ungaretti.













L'eucalyptus

Non una dolcezza mi matura,
e fu di piena deriva
ad ogni giorno
il tempo che rinnova
a fiato d'aspre resine.

In me un albero oscilla
da assonnata riva,
alata aria
amare fronde esala.

M'accori, dolente rinverdire,
odore dell'infanzia
che grama gioia accolse,
inferma già per un segreto amore
di narrarsi all'acque.

Isola mattutina:
raffiora a mezza luce
la volpe d'oro
uccisa a una sorgiva.





Da Giorno dopo giorno



Alle fronde dei salici[6]

Il messaggio: La poesia come impegno civile, per 'rifare' l'uomo, abbrutito dagli orrori della guerra e reso incapace di parola e di poesia.

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

tra i morti abbandonati nelle piazze

sull'erba dura di ghiaccio, al lamento

d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.


- con il piede: è una metafora: con l'esercito tedesco che aveva occupato l'Italia.
4- sull'erba dura: con i morti abbandonati sull'erba, resa dura dal ghiaccio.
4-5- al lamento d'agnello: alle innocenti voci di lamento dei bambini: nei riti di purificazione dei popoli antichi l'agnello era la vittima innocente.
5-7- urlo nero. telegrafo: SINESTESIA. Urlo disperato, di morte; l'urlo disperato della madre che, impazzita, corre verso il figlio crocifisso su un palo di telegrafo.
8-10- Alle fronde vento: anche le cetre dei nostri poeti, simbolo della poesia, erano appese, impotenti, smarrite, ai rami dei salici, per una promessa di silenzio. C'è un riferimento storico: il Salmo CXXXVI della Bibbia rievoca la deportazione degli ebrei a Babilonia: 'Abbiamo appeso ai salici le nostre cetre Come potremmo cantare in terra straniera?'.

Interpretazione:

Il testo è breve, costituito da una sola strofa, i versi sono sciolti e della stessa misura: hanno tutti undici sillabe (endecasillabi).


I periodi, che rispettano le regole della sintassi, sono due:

il primo è una lunga interrogazione;

il secondo è una rapida dichiarazione.


L'uso della punteggiatura è regolare. Il registro lessicale è alto, letterario, solo poche parole sono di uso comune, vicine al parlato.


Il testo è ricco di figure retoriche:

cantare: uso figurato del predicato;

con il piede straniero: metafora;

sopra il cuore: metafora;

erba dura: analogia;

lamento d'agnello: analogia;

urlo nero: sinestesia;

nostre cetre: metafora;

triste vento: metafora.

Le immagini sono potenti, dure, crude; i temi principali sono:

i mali della guerra: l'occupazione di una terra non propria, gli omicidi, le deportazioni, i genocidi, la distruzione di cose;

la poesia come impegno civile, per 'rifare l'uomo', stimolando in lui l'esercizio della ragione e l'amore.


Uomo del mio tempo[7]

Il messaggio: L'invito ai giovani a non commettere gli stessi errori dei padri, per costruire un mondo nuovo fondato sull'amore, sul rispetto, sulla pace.

Sei ancora quello della pietra e della fionda,

uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,

con le ali maligne, le meridiane di morte,

- t'ho visto - dentro il carro di fuoco, alle forche,

alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

quando il fratello disse all'altro fratello:

- Andiamo ai campi. - E quell'eco fredda, tenace,

giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue

salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.


Sei ancora: l'uomo di oggi non è diverso dall'uomo primitivo; ha solo costruito armi più perfette.

carlinga: parte di un aereo destinata ad alloggiare l'equipaggio, o anche il carico.

meridiane di morte: armi perfette che proiettano intorno a sé ombre di morte, di rovina. La meridiana è un orologio solare formato da un complesso di linee orarie tracciate su di un muro o pavimento, ove lo gnomone proietta la sua ombra durante le varie ore del giorno.

carro di fuoco: carro armato.

persuasa.: utilizzata solo per atti di distruzione.

E questo sangue: si riferisce all'omicidio di Abele ad opera di Caino, il fratello, narrato nell'antico testamento. Con questo omicidio, Caino diede inizio ad una interminabile serie di delitti e di follie. Le stragi di oggi hanno la stessa brutalità del primo omicidio fraterno.

E quell'eco fredda: le menzogne, le discordie, l'odio fratricida sono ancora presenti nei pensieri e nelle azioni della nostra vita di ogni giorno.

o figli: o giovani.

le loro tombecenere: i resti dei vostri padri sono ormai cenere; anche le loro tombe a poco a poco scompaiono. O giovani, non commettete gli stessi sbagli dei vostri padri; non fate ricorso alle discordie, all'odio, all'intolleranza.


Interpretazione

La lirica è costituita da un'unica strof.A I versi sono liberi, di varia misura. La costruzione sintattica segue le regole grammaticali. Le parole sono accalorate, vibranti, accorate, in particolar modo quelle adoperate nei versi quattordicesimo e quindicesimo, con le quali il poeta invita i giovani a dimenticare gli errori dei loro padri, per costruire un mondo nuovo fondato sulla fratellanza, la pace, la democrazia. Le parole tratte dal gergo (ambito militare e scientifico) sono tre: carlinga, meridiane, scienza esatta.


Le immagini sono crude e realistiche:

quello della pietra e della fionda;

Eri nella carlingadentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura;

quando il fratello disse al fratello: andiamo ai campi;

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.


A partire dal settimo verso, il tono si fa incalzante, la tensione cresce, per quell'odore di sangue che fuoriesce dalla memoria di tanti delitti; le immagini diventano macabre e feroci.


Le figure retoriche adoperate sono:

con le ali maligne: metafora;

le meridiane di morte: metafora;

dentro il carro di fuoco: metafora;

senza Cristo: metafora;

E questo sangue odora come il giorno quando il fratello disse all'altro fratello: andiamo ai campi: analogia;

nuvole di sangue: metafora;

gli uccelli neri, il vento, coprono i loro cuori: metafora





Superomismo, estetismo

sono criticati qui Pascoli e D'Annunzio nelle parti più appariscenti della loro poesia, nonché futuristi e crepuscolari

Il primitivismo, inteso adesione immediata, elementare alla vita, al di fuori della retorica, è una conseguenza dell'esperienza stessa della guerra che consente all'uomo di riscoprire la propria umanità.

Essenziale, spoglia di ornamenti e di retorica.

Irma Brandeis, italianista americana, da lui conosciuta dopo il matrimonio con Drusilla Tanzi, e che ispirerà una parte importante della sua poesia.

Nel settembre 1943 l'Italia risultava divisa in due parti. Nella parte meridionale, controllata dagli Alleati, era stata restaurata la monarchia, sotto il re Vittorio Emanuele III. Nella parte centro-settentrionale, occupata dai tedeschi, Mussolini aveva creato la Repubblica sociale italiana.Dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l'esercito di liberazione condusse una lotta senza esclusione di colpi contro i tedeschi e i fascisti, che rispondevano con rastrellamenti, deportazioni e veri e propri massacri. Particolarmente feroci furono quelli di Boves, in Piemonte, di Marzabotto, in Emilia, dove le SS sterminarono l830 civili, e di Roma, dove i nazisti come rappresaglia a un attentato partigiano, che era costato la vita a 32 soldati tedeschi, uccisero 335 prigionieri italiani. Di fronte agli orrori, ai mali della guerra, i poeti non potevano cantare, scrivere versi, ma solo agire come gli antichi ebrei schiavi a Babilonia, che appesero le loro cetre ai rami dei salici.



La storia e il progresso, afferma Quasimodo, non sono riusciti a cambiare l'uomo. Egli è ancora, sotto certi aspetti, quello primitivo, quello delle caverne: la stessa violenza irrazionale e assassina guida le sue azioni. Rispetto all'uomo primitivo ha solo inventato strumenti di distruzione e di sangue più efficienti, più efficaci, più sofisticati, più 'intelligenti'. L'uomo di oggi persiste ancora nella sua follia. A chiusura del testo il poeta invita i giovani a non continuare a scrivere pagine di discordie, di morti, di crudeltà: le pagine già scritte dai loro padri.


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