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IL DISAGIO NELLA LETTERATURA DELL'EPOCA INTERPRETATO DA ITALO SVEVO
Molti intellettuali italiani analizzano con lucida consapevolezza il disagio umano nella difficile età di passaggio tra il tramonto degli ideali risorgimentali e l'affermarsi di uno stato unitario, gravato da problemi di amministrazione e dagli incalzanti ritmi produttivi imposti dall'industrializzazione. Tra questi Italo Svevo, uno dei maggiori narratori italiani del Novecento, che tramite l'analisi dell'inettitudine e della malattia dei suoi personaggi, trascrive a livello narrativo la coscienza della crisi storica ed esistenziale, dell'alienazione e della solitudine dell'uomo moderno. Italo Svevo (il cui vero nome è Ettore Schmitz) nasce nel 1861 a Trieste, allora fiorente porto mercantile dell'Impero austro-ungarico, da una famiglia di origine ebraica. Il padre, un agiato commerciante di vetrerie di origine tedesca, indirizza il figlio a studi che agevolino il suo inserimento nell'azienda di famiglia; Ettore viene mandato a imparare il tedesco (la lingua ufficiale dello stato asburgico) e a concludere gli studi superiori nel collegio di Segnitz in Baviera, dove resta fino al 1877.
Ritornato a Trieste, si iscrive all'Istituto superiore commerciale 'Revoltella' (un'università privata) e inizia a scrivere alcuni testi teatrali, rimasti poi incompiuti (Ariosto governatore, Il primo amore), che già rivelano un interesse per la scrittura drammaturgica che persisterà per tutta la vita.
Nel 1883, a causa del fallimento della ditta paterna, è costretto ad abbandonare gli studi e a trovarsi un impiego in banca. Ma nel tempo libero coltiva con passione la vocazione letteraria: legge i classici italiani e i naturalisti francesi, allarga i suoi interessi alla filosofia (Schopenhauer e Nietzsche) e alla scienza (si interessa alla teoria dell'evoluzione di Darwin). Collabora come critico letterario e teatrale al quotidiano in lingua italiana 'L'indipendente', su cui appare nel 1890 il suo primo racconto, L'assassino di via Belpoggio, firmato con lo pseudonimo E. Samigli. Nel 1892 pubblica a proprie spese il romanzo Una vita, che ottiene una mediocre accoglienza di critica e pubblico; un insuccesso che si ripete con Senilità (1898) che approfondisce il tema dell'inettitudine a vivere.
Il romanzo è nuovo perché si risolve nell'analisi della psicologia contorta del protagonista Emilio Brentani, in parte una proiezione autobiografica dell'autore. E' tradizionale perché resta il meccanismo del narratore esterno che 'riferisce' quanto sa dei protagonisti e 'garantisce' la verità di ciò che afferma. Emilio cerca il riscatto dalla sua vita incolore, segnata da una breve gloria letteraria cioè dalla notorietà raggiunta per un romanzo, con un'avventura amorosa. La donna è Angiolina, di costumi disinvolti. Lui lo sa, e vuole convincersi che da questa avventura lui, l'uomo scettico e spregiudicato, non si farà coinvolgere emotivamente. La donna sarà per lui un divertimento o poco più. In questo Emilio ha come modello un amico pittore, Stefano Balli, temperamento forte, sicuro di sé, incantatore di donne. Ma Emilio è diverso dal suo modello: la sua psicologia è contorta e pensieri, propositi, intenzioni, azioni si accavallano e si contraddicono continuamente. Emilio è in uno stato di perenne dissociazione ('due individui che vivevano tranquilli l'uno accanto all'altro'). Il narratore razionalizza, spiega questa condizione, quando dichiara che Emilio è malato perché attaccato alla propria tranquilla inettitudine, e perciò cerca compensi nella fantasia più che nella realtà, la quale turberebbe quella inettitudine: sogna, ma si spaventa non appena il sogno può diventare realtà. La senilità è la malattia di Emilio, che vecchio non è: vorrebbe la gioventù (forza e pienezza di vita, come l'amico - rivale Balli) ma si sente incapace a viverla, perciò se ne difende istintivamente, cercando una compensazione nell'avventura. Ma per vivere questa realtà più nella fantasia che veramente, mette in atto 'tutta una serie di autoinganni, autocensure che costituiscono l'aspetto più caratteristico della sua indole. Con Emilio Brentani è ormai iniziato quel processo di dissoluzione del personaggio, psicologicamente unitario, che ci aveva fornito la narrativa ottocentesca. E' un segno di una nuova cultura, novecentesca, carica di contraddizioni, ma con la capacità di spregiudicata indagine dei meccanismi profondi dell'animo umano.
L'insuccesso del romanzo
Senilità induce Italo Svevo (lo pseudonimo appare proprio
in occasione dell'uscita dei due romanzi) a rinunciare apparentemente alla
letteratura: 'venticinque anni di silenzio', secondo una definizione
dello stesso Svevo, fino alla pubblicazione della Coscienza di Zeno (1923). Ma in questi
anni Ettore Schmitz, pur senza pubblicare, continua a scrivere: note di diario,
commedie, tra cui Terzetto spezzato (1901, unico testo rappresentato
durante la sua vita, nel 1926) e Un marito (1903), una novella, Lo
specifico del dottor Menghi, e diversi racconti rimasti incompiuti. Nel
1896 Svevo sposa la cugina Livia Veneziani, figlia di un ricco industriale, e
tre anni dopo abbandona il lavoro in banca per entrare nella ditta del suocero.
È una svolta importante, la conquista del benessere economico e la liberazione
dalle frustrazioni impiegatizie della giovinezza. Il lavoro gli offre
l'opportunità di compiere viaggi d'affari in Europa e in particolare in
Inghilterra, dove la ditta aveva aperto una filiale. Proprio la necessità di
migliorare la conoscenza dell'inglese lo spinge a prendere lezioni private da
James Joyce, che dal 1906 fino allo scoppio della guerra mondiale insegna alla
Berlitz School di Trieste. L'incontro favorisce la nascita di un'amicizia
fondata soprattutto sui comuni interessi letterari: Joyce legge i due romanzi
di Svevo e si dichiara entusiasta di Senilità.
Dal 1910 Svevo comincia a interessarsi alla psicoanalisi, favorito dalla
presenza a Trieste di Edoardo Weiss, allievo di Freud, e dal fatto che un suo
cognato viene curato a Vienna dallo stesso Freud; un interesse che porta lo
scrittore a leggere buona parte dell'opera dello psicologo viennese (di cui
traduce anche Il sogno, sintesi dell'Interpretazione dei sogni) e
a fare della psicoanalisi il motivo conduttore della Coscienza di Zeno,
che inizia a scrivere nel 1919, il
terzo romanzo all'origine del 'caso Svevo', ovvero della tardiva
scoperta di uno dei nostri maggiori romanzieri da parte di due critici
francesi, Valéry Larbaud e Benjamin Crémieux, che su sollecitazione di Joyce, a
cui Svevo aveva inviato il libro, gli dedicano un intero numero
dell'accreditata rivista 'Navire d'argent' (Vascello d'argento), nel
febbraio del 1926. A salvare il prestigio della critica nazionale, che aveva
accolto la Coscienza nel 1923 con la stessa indifferenza riservata ai
due romanzi precedenti, aveva provveduto Eugenio Montale, che nel dicembre del
1925 aveva scritto sulla rivista milanese 'L'esame' un saggio dal
titolo Omaggio a Italo Svevo.
Il desiderio di sfruttare una fama tanto attesa e finalmente raggiunta spinge lo scrittore, in una specie di lotta contro il tempo, a iniziare la stesura di numerosi testi, molti dei quali restano incompiuti a causa della morte improvvisa, avvenuta nel 1928 in seguito ai postumi di un incidente stradale. Tra quelli compiuti si annoverano alcuni racconti: Vino generoso, Una burla riuscita, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla; tra quelli mai portati a termine un racconto lungo (Corto viaggio sentimentale), due commedie (Con la penna d'oro e Rigenerazione) e una serie di racconti (Un contratto, Le confessioni del vegliardo, Umbertino, Il mio ozio, Il vecchione) che sono probabilmente i materiali preparatori di un quarto romanzo, una sorta di continuazione della Coscienza di Zeno.
Nel Profilo autobiografico redatto per l'editore Morreale nel 1928, Italo Svevo ha scritto: 'Per comprendere la ragione di uno pseudonimo che sembra voler affratellare la razza italiana e quella germanica, bisogna aver presente la funzione che quasi da due secoli va compiendo Trieste alla Porta Orientale d'Italia: funzione di crogiolo assimilatore degli elementi eterogenei che il commercio e anche la dominazione straniera attirarono nella vecchia città latina'. In queste parole è contenuto il senso della 'triestinità' di Svevo, ovvero della appartenenza a una città dove da almeno due secoli la maggioranza italiana della popolazione convive con minoranze etniche e religiose: tedeschi, sloveni, greci, ebrei. Trieste, fino alla prima guerra mondiale, faceva parte dell'Impero asburgico. Le sue fortune commerciali sono legate alla funzione di principale porto austriaco dell'Adriatico: una realtà economica in sviluppo che richiama un'immigrazione composita, proveniente da tutte le regioni dello stato multinazionale degli Asburgo. Tale situazione ha permesso a molti intellettuali italiani di mantenere un rapporto privilegiato con la cultura del centro Europa - la cosiddetta Mitteleuropa - e in particolare con quella di lingua tedesca, la cultura della classe dirigente dell'impero. Questa apertura verso apporti e fermenti diversi ha favorito il cosmopolitismo degli scrittori triestini, offrendo loro riferimenti originali se confrontati con tanta coeva letteratura italiana. La peculiarità di Svevo è già nella sua formazione: studia in Germania, si forma su alcuni classici tedeschi della letteratura (Jean Paul, Schiller, Goethe) e della filosofia (Schopenhauer, Nietzsche), legge molti autori fondamentali dell'Ottocento europeo (i naturalisti francesi, i romanzieri russi, Ibsen, i classici inglesi, dopo l'incontro con Joyce) ed è aperto alle suggestioni che provengono dalle scienze naturali (Darwin) e umane (Freud). Alla base della sua produzione c'è un'idea di letteratura come strumento di conoscenza critica del reale, lontana da ogni culto formalistico della 'bella pagina'. Per lui lo stile è solo un mezzo dell'operare letterario, mai il fine. Svevo, diversamente dal tipico letterato italiano, non ha una formazione umanistica, si interessa poco di poesia, alimenta la sua vocazione di scrittore psicologico con una passione analitica che fa di lui una sorta di scienziato della vita quotidiana.
Un secondo elemento
accomuna Svevo a diversi autori coevi, specie di lingua tedesca: il tema della
dissoluzione e del disagio del soggetto. Tutti gli eroi sveviani presentano i
sintomi di un conflitto interiore che la coscienza analizza e scompone ma non
sa risolvere: vittime di un contrasto tra desideri e intenzioni coscienti, essi
possiedono una personalità nevroticamente scissa. Questo interesse di Svevo
trova un terreno fecondo nelle dottrine freudiane. Lo scrittore vede nell'opera
di Freud gli strumenti conoscitivi di cui ha bisogno; a interessarlo sono la
scoperta dell'inconscio come fondo oscuro della personalità individuale e il
'disagio della civiltà' che ne deriva, non le possibilità
terapeutiche, su cui nella Coscienza di Zeno si dichiara del tutto
scettico. Ma c'è un altro elemento importante che lega la narrativa sveviana al
suo luogo d'origine: città mercantile di banche e di assicurazioni, abitata da
una classe media di affaristi e commercianti, Trieste diviene nei testi di
Svevo un simbolo della società borghese trionfante in Europa. La vita borghese,
che lo scrittore rappresenta da punti di vista diversi - fallita integrazione
del protagonista in Una vita e Senilità, integrazione felicemente
avvenuta, almeno in apparenza, nella Coscienza e nella produzione
successiva -, si presenta come un orizzonte esistenziale senza alternative e
come una condizione che inevitabilmente entra in conflitto con la vocazione letteraria.
Il signor Ettore Schmitz, prima impiegato di banca e poi facoltoso
commerciante, e lo scrittore Italo Svevo sono convissuti per molti anni nella
stessa persona, dando origine a una sorta di sdoppiamento della personalità,
che sta alla base del tormentato autobiografismo sveviano. Durante i
'venticinque anni di silenzio', la scrittura diventa un vizio
nascosto, con cui muove una sua privata guerriglia al conformismo e
all'inautenticità della sua esistenza di affermato uomo d'affari e di rispettato
padre di famiglia. Una situazione che può essere definita pirandelliana, in
questo contrapporsi di maschera volontariamente indossata e verità
esistenziale.
La commedia borghese recitata da Svevo ha un inaspettato lieto fine. La
scoperta tardiva, sono un risarcimento delle frustrazioni patite ma soprattutto
la prova di una vittoria conseguita contro le ferree regole della società
borghese: l'uomo che è vissuto pensando di essere la vittima di un mondo che
gli era apparso senza via d'uscita, scopre, quasi alla fine della sua vita, di
esserne la riconosciuta coscienza critica. Ancora oggi il lettore ricava
dalle sue pagine l'impressione di una straordinaria modernità. Il merito non è
solo delle pur rilevanti innovazioni tecniche e compositive, quanto della tempestività
con cui lo scrittore ha saputo cogliere e rappresentare problemi, conflitti
psicologici, comportamenti che, eccezionali ai suoi tempi, appaiono oggi comuni
e quotidiani, caratteristici del disagio esistenziale contemporaneo.
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