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IL DESERTO DEI TARTARI D. BUZZATI LA GENESI DEL ROMANZO E LE VICENDE
Il deserto del Tartari fu pubblicato nel 1940 da Longanesi e riflette, a dire dello stesso autore, lo stato d'animo di noia e attesa del Buzzati cronista presso la redazione del Corriere della Sera: Era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo altri uomini alcuni della mia età altri molto più anziani i quali andavano, andavano, trasportati tutti dallo stesso lento fiume. Questa idea dell'attesa frustrata e del tempo che inesorabilmente si consuma sarebbe stata poi ambientata all'interno di una fortezza militare, a meglio evidenziare l'assunto ed anche per vocazione militare dell'autore: (i vantaggi dell'ambientazione militare erano due). Primo ,quello di esemplificare il tema della speranza e della vita, che passa inutilmente, con una maggiore evidenza, perché la disciplina e le regole militari erano assai più lineari, rigide e inesorabili di quelle instaurate in una redazione giornalistica. Pensavo, insomma, che in un ambiente militare, la mia storia avrebbe potuto acquistare perfino una forza di allegoria riguardante tutti gli uomini. Secondo motivo, il fatto che la vita militare corrispondeva alla mia natura.
Le vicende iniziano, in un tempo e uno spazio imprecisato, con la partenza dalla famiglia del giovane tenente Giovanni Drogo; la sua destinazione è la fortezza Bastiani, al confine con Lo Stato del Nord. L'imponente costruzione è collocata a chiusura di una gola montana di fronte a un deserto lastricato di pietre: il deserto dei Tartari appunto. Si tratta di una frontiera morta, da cui non si attende nessun attacco nemico, e per questo poco considerata dal Comando militare. Drogo prova subito una evidente avversione per la nuova destinazione ed è deciso ad ottenere al più presto il trasferimento ( capp. 1-2). Convinto dal maggiore Matti a restare 4 mesi, per poi ottenere un congedo per motivi di salute, vive oppresso dalla solitudine (cap. 4) e da un sentimento di estraneità nei confronti della rigida disciplina militare ( una vita disumanizzata e contrapposta alla vita della città ) simboleggiata dall'arido formalismo del sergente Tronk ( cap. 5).
Con questo stato d'animo dominato dall'inquietudine e dalla volontà di fuga, ma anche da una imprecisata attrazione per la fortezza ( cap. 3 p. 29; cap. 4 p. 35), Drogo viene a contatto con i suoi nuovi e strani compagni. Uno dei primi inquietanti incontri è con Il maresciallo Prosdocimo ( cap. 7), il sarto della fortezza che da 15 anni vive nella folle attesa, a tutti comune, di un evento eroico che non arriva mai. Nel dialogo con il vecchio fratello di Prosdocimo, Drogo viene a conoscenza di questa follia comune a tutti e se ne sente con sollievo spettatore incontaminato cap. 7 p. 56. Un'altra strana conoscenza è quella del tenente Angustina (cap. 8), un uomo colto e raffinato, dal corpo gracile e malato. Lo incontriamo alla festa d'addio del tenente Max Lagorio, un personaggio incolto e vitale, attaccato ai piaceri della città, che invano cerca di convincere Angustina a partire con lui e a abbandonare la fortezza.
Passano i 4 mesi concordati con il maggiore Matti e Drogo si reca dal medico militare, il dottor Ferdinando Rovina, per ottenere un certificato medico ed essere così trasferito (Cap. 9). Improvvisamente però la fortezza gli appare sotto un'altra luce, spazio positivo a contrasto con lo spazio negativo della città (cap. 9 p.p. 67-68), e decide di restare. A poco a poco si adegua al formalismo della vita militare e si sente invaso come tutti dalla speranza di eroici eventi (cap. 10). Sono passati 22 mesi e Drogo si rivede in sogno bambino, mentre assiste alla morte di Angustina rapito da strani spiriti fatati, una morte nobile e nello stesso tempo disumana per il distacco con cui è affrontata ( cap. 11). lI giorno seguente dalla ridotta nuova ( un fortino secondario separato dalla fortezza) i soldati avvistano una macchia nera che si muove. In tutti rinascono le speranze di un attacco dei Tartari. La macchia si rivela però essere un cavallo nero : forse un cavallo nemico, ma anche altre spiegazioni sono possibili (cap. 12). Nell'episodio del cavallo si inserisce la morte del soldato Giuseppe Lazzari: il Lazzari crede di riconoscere nell'animale avvistato il suo cavallo ed esce a riprenderlo. Al rientro rimane vittima dell'assurdo formalismo della fortezza: non conoscendo la parola d'ordine è ucciso dall'amico Moretto, sotto lo sguardo impassibile del sergente Tronk. ti corpo del soldato viene recuperato fra il disumano compiacimento del maggiore Matti, che loda la mira del Moretto, e la rabbia che la cosa suscita in Tronk ( cap.13).
All'alba, dalla ridotta, i soldati scorgono una striscia nera, questa volta sono uomini e le speranze di un attacco nemico si fanno realtà. Tutti sono in febbrile attesa, ad eccezione del Colonnello Filimore: troppe volte è stato illuso nelle sue speranze e si rifiuta di credere. La tensione si placa con la definitiva e generale disillusione: arriva infatti un messaggero che spiega il mistero. Gli uomini apparsi sono un contingente dello stato del Nord che vengono non per combattere, ma per stabilire la linea di confine fra i due Stati (cap. 14).
Il gigantesco capitano Monti e il malato tenente Angustina sono incaricati di delimitare i confini: la loro è una corsa contro il tempo, infatti i soldati del Nord sono già partiti e si teme che essi possano segnare i confini a loro vantaggio. Il materialistico Monti odia lo snob Angustina che si compiace dei dolori che-gli-eleganti-stivali-9h procurano durante la marcia. Angustina è stanchissimo tuttavia resiste e ,con dispetto del Monti, continua ad avanzare, I soldati del Nord sono già arrivati sulla sommità della vetta, il Monti si affretta nella salita e distacca Angustina. Alla fine però i due si ricongiungono, vicini alla vetta senza essere in grado di salirvi.Gli uomini del nord si prendono gioco dei soldati della fortezza e Angustina suggerisce al Monti di rispondere allo scherzo giocando a carte e mostrando così indifferenza. Il capitano acconsente ma poi infuriato interrompe il gioco. Rimane solo Angustina che nella tempesta finge di giocare a carte e muore per il freddo. La sua morte è accostata al sogno premonitore di Drogo ( cap. 11) e interi brani di quel sogno vengono ripetuti. Come già anticipato dal sogno, si tratta di una morte nobile, da eroe che innalza Angustina sopra la bassezza del Monti (cap. 15).
Sono passati 4 anni, il capitano Ortiz e Drogo parlano della morte di Angustina (cap. 16). Per Ortiz non c'è nessuna speranza di azioni gloriose alla fortezza e pertanto Drogo dovrebbe partire fin che è in tempo. In realtà Ortiz, come del resto ammette, continua a sperare e si considera l'unico degno di restare alla fortezza (Cap.16 p. 143.) Giunge la primavera, nei soldati rinasce il senso della vita e la fortezza sembra una prigione. Anche Drogo partecipa di questo desiderio di vita simboleggiato dalla città e abbandona la fortezza per una licenza ( cap. 17).
Tornato a casa, si sente straniero nella città e nella sua stessa famiglia. Subentra così il rimpianto della fortezza. (cap. 18). Deludente è anche l'incontro con Maria ,la sorella dell'amico Francesco Vescovi, sua promessa sposa di un tempo. L'amore è ormai finito e Drogo non riesce a riconoscere nella donna che vede la Maria di un tempo.(cap.19) Avendo passato 4 anni alla fortezza, ha diritto ad una nuova destinazione e, per ottenere un posto vicino alla sua città, si rivolge al generale di divisione. Il generale lo informa del nuovo regolamento che prevede una drastica riduzione dell'organico della fortezza. Il nuovo regolamento prevede anche la necessità di una domanda per il trasferimento. Drogo non è stato informato dai suoi compagni: la mancata domanda e alcuni rapporti disciplinari che gravano su di lui rendono vane le sue speranze. (cap, 20).
Ritorna disilluso alla fortezza (cap. 21). Ai suoi occhi essa ha perso ogni senso di gloria (p. 169), tuttavia rimane in lui un residuo di incanto ( Cap. 21 p. 170). Mentre iniziano le partenze degli ufficiali che hanno chiesto il trasferimento, Drogo chiede spiegazioni a Ortiz sul comportamento dei soldati della fortezza e il capitano spiega il loro autoinganno: le illusioni di gloria sono solo dei mezzi per vincere la noia (cap. 21 p.l74).
Mentre nella fortezza si respira un'aria di abbandono per i trasferimenti , il tenente Simeoni mostra a Drogo una macchia nera che si muove sulla pianura, secondo il tenente i nemici stanno preparando una strada per attaccare (cap. 22). Drogo è scettico, in lui sta avvenendo un cambiamento: adesso percepisce improvvisamente l'ansia per la fuga del tempo (cap. 22 p. 182) e si è completamente assuefatto alle abitudini militari della fortezza (cap. 22 p. 183). Tuttavia, nonostante le speranze dei soldati svaniscano, Drogo e con lui Simeoni sperano ancora. (cap. 22 pp. 184-5).
Il comando cerca di impedire le fantasie sugli attacchi nemici, ben presto Simeoni si adegua agli ordini dei Superiori ed evita Drogo che è ormai il solo a sperare (cap. 23). All'improvviso appare una luce o di nuovo l'attesa di tutti ricomincia ( cap. 24).
Sono passati 15 anni dal tempo in cui i nemici hanno iniziato a costruire la strada avvistata da Simeoni. La fortezza è sempre di più trascurata dal comando superiore. Molti sono andati in pensione: il tenente colonnello Nicolosi, il maggiore Monti, il tenente colonnello Matti. A comandare la forteza c'è adesso Ortiz. Drogo, ormai quarantenne e disilluso capitano, è di ritorno, in anticipo, da una licenza ( cap. 25). Sulla via che conduce alla fortezza incontra un nuovo tenente, il tenente Moro; si ripete così la situazione iniziale, a parti invertite, fra lui, giovane tenente, e il capitano Ortiz ( cap. 25 p. 201).
Terminata la strada, i nemici partono all'improvviso. Drogo invecchia e rivede se stesso nel tenente Moro, come un tempo Ortiz si era riconosciuto in lui. Quest'ultimo lascia la fortezza e i personaggi di un tempo e di un destino sempre uguale sì scambiano le immutabili parti:
Moro diventa Drogo e Drogo Ortiz. L'autoinganno però non muore mai e al momento della partenza, nel dialogo di Drogo e Ortiz, continuano a fondersi disillusioni e speranze ( cap. 26). Passa inesorabile e imprecisato il tempo; a comandare la fortezza c'è adesso Simeonì. Drogo, ormai cinquantaquattrenne, è informato dal sarto Prosdocimo dell'arrivo dei Tartari. L'evento da lui tanto atteso sembra avverarsi, ma, ironia della sorte, adesso è malato (cap. 27). lI nuovo comandante, Simeoni, gli consiglia, subdolamente, di partire: non è preoccupato per lui, vuole solo disporre di tutti gli alloggiamenti per i soldati che stanno arrivando nell'imminenza dell'attacco nemico (cap. 28).Dopo tanti anni Drogo abbandona così la fortezza, per morire solo e abbandonato da tutti in una locanda (cap. 29); la sua umile
-morte riscatta però le vane speranze della vita: comprende che morire nel dolore e nella solitudine è il solo atto eroico possibile, ben più grande di illusori eroismi ed anche più nobile della nobiltà, un tempo supposta, della morte di Angustina.
IL "DESERTO DEI TARTARI" E IL ROMANZO DEL 900: IL ROMANZO DELLA CRISI E DELLA INETTITUDINE
Scritto nel 40 il romanzo simboleggia una particolare condizione di crisi storica, riflettendo nell'angoscia delle vicende la drammatica condizione degli intellettuali e della società borghese italiana nell'apogeo della dittatura fascista, una condizione drammatica accresciuta anche dall'entrata in guerra dell'italia: il 10 giugno deI 40 Mussolini, infatti, certo della vittoria tedesca, dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. E' allora evidente che i motivi centrali del romanzo, la frustrazione dell'agire umano e la costante attesa di eventi drammatici, trovino una spiegazione nel clima storico di quegli anni. Tuttavia il senso dì angoscia che emana dal racconto ha radici anche letterarie che possono ricondursi alla cultura di tutto il Novecento, il secolo della crisi. In questi senso "Il deserto dei Tartari" potrebbe definirsi un romanzo della inettitudine e il suo protagonista, Giovanni Drogo, un -inetto, stretto parente degli antieroi del romanzo di fine ottecento- inizio novecento: a partire dai personaggi di D'Annunzio, fino a quelli di Pirandello e Svevo.
Gli inetti del Novecento sono innanzi tutto vittime della nevrosi, intesa come incapacità di adattarsi al mondo e come estraneità rispetto al mondo, una condizione questa di cui è emblematico il titolo di un celebre romanzo di Camus: Lo straniero. Nevrosi dunque come estraneità e conseguentemente come incomunicabilità e solitudine: gli inetti sono, infatti, soli, incapaci di comunicare con gli altri e con la realtà che li circonda.
Anche Giovanni Drogo presenta i tratti della nevrosi e innanzi tutto il senso della diversità e della estraneità. Fin dal primo capitolo si sente diverso rispetto all'amico Vescovi e alla città che abbandona: Giovanni e Francesco erano vissuti insieme per lunghi anni con le stesse passioni le stesse amiciziepoi Vescovi si era fatto grasso, Drogo invece era diventato ufficiale e adesso sentiva come l'altro fosse ormai lontano. Tutta quella vita (della città) facile e elegante oramai non gli apparteneva più p.5
La sua estraneità non riguarda solo la città ma anche la fortezza, un mondo percepito come lontano da sè. Di qui il senso di delusione e la volontà di fuga che lo accompagnano nella prima parte del racconto: Gli pareva la fortezza, uno di quei mondi sconosciuti a cui mai aveva pensato sul sedo di poter appartenere, non perché gli sembrassero odiosi, ma perché infinitamente lontani dalla sua solita vita Oh tornare. Non varcare neppure la soglia della fortezza e non iscendere al piano, alla sua città, alle vecchie abitudini. p 19 Dunque fin dall'inizio Droga ci appare come un diverso rispetto a qualsiasi realtà, una condizione che rimarrà costante per tutto il romanzo, traducendosi in un rapporto di odio - amore sia nei confronti della città che nei confronti della fortezza e questo a sottolineare, come vedremo analizzando lo spazio, assoluta estraneità del protagonista rispetto al mondo. L'estraneità si associa alla solitudine e Drogo non diversamente dagli inetti del Novecento è spesso colto in situazioni di lacerante solitudine, Particolarmente intensa per l'atmosfera di drammatica solitudine è la scena della prima notte passata alla fortezza: Adesso sì capiva sul seno che cosa fosse solitudineNessuno per la durata dell'intera notte sarebbe entrato a salutarlo; nessuno in tutta la fortezza pensava a lui e non solo nella fortezza, probabilmente anche in tutto il mondo non c'era un'anima che pensasse a Droga; ciascuno ha le proprie occupazioni ciascuno basta appena a se stesso, persino la mamma, poteva dare persino lei in questo momento aveva in mente altre cose, di figlioli non c'era soltanto lui
Tutti si sono dimenticati di Drogo, persino la mamma ; un accenno importante quest'ultimo non solo in riferimento alla solitudine, ma ,soprattutto, ad una sottile atmosfera edipica anche altrove( cap. 6) associabile alla figura della madre, l'unica a campeggiare nel romanzo in contrasto con la costante assenza della figura patema. Un altro tratto che accomuna Drago agli inetti del Novecento è dunque la tematica edipica, per cui ,con il Debenedetti, si possono citare i personaggi di Tozzi, Pirandello e Svevo, figli di madri prottettive e di padri castranti (padri, cioè, che si segnalano per la loro energia, spesso sessuale, a contrasto della inettitudine dei figli).
Tornando alla estranietà alienata dei personaggi novecenteschi, oltre alla solitudine, si dovrà ad essa associare il motivo della incomunicabilità, caratteristica costante nelle opere del Novecento per cui si può di nuovo citare, in area italiana, il nome di Pirandello ( Sei personaggi in cerca d'autore). Anche in questo caso Drago non si dissocia dalla matrice comune degli inetti e con lui tutti gli altri personaggi del Deserto dei Tartari, tanto che a risentirne e la stessa struttura dei dialoghi : tipico del romanzo è infatti il dialogo interrotto e il dialogo non partecipato o non compreso, in sostanza lo scacco della comunicazione e del linguaggio. Questa caratteristica si evidenzia fin dai primi capitoli e in particolare nel dialogo fra il capitano Ortiz e Drogo durante il primo viaggio alla fortezza (cap. 2). Qui significativa è la ricorrenza del motivo del silenzio che si insinua fra le battute con l'ossessiva ripetizione del verbo tacere: Tacquero Tacquero..( p. 12); Tacquero ancora, ciascuno pareva pensare a cose diverse(p. 13); Tacquero Tacquero (p. 14); Giovanni non rispose, Tacque Giovanni, Drago taceva( p. 16). Dunque un dialogo sempre minacciato dal silenzio e che si conclude con una Sostanziale incomprensione e incomunicabilità: Droga rise per compllmento. Non riusciva a capire se Ortiz fosse un cretino, nascondesse qualche cosa o tenesse quei discorsi così, senza il minimo impegno ( cap. 2p. 17). Ma discorsi senza il minimo impegno ( dialoghi non partecipati) sono anche quelli di Drago. Ad esempio con il maggiore Matti ( Ma Drago ascoltava appena le spiegazioni di Matti; attratto stranamente dal riquadro della finestracap. 3, p. 25) o con il medico Ferdinando Rovina (Drogo ascoltava senza interesse, intento com'era a guardare dalla finestra cap. 9, p. 66).
L'incomunicabilità sì manifesta anche nei dialoghi interrotti o non conclusi. Emblematico in questo senso è il dialogo di Angustina con l'amico Lagorio: "Che cosa c'è?" domandò ( Lagorio). "Volevi qualcosa?". Ma Angustina abbassò la mano, riprendendo "Niente, niente" rispose. "perché ? . (cap. 8p. 63). Una propensione al non dire e al non comunicare che risalta nel momento della sua morte: Come il vento ebbe una pausa, Angustina rialzò di qualche centimetro il capo, mosse adagio la bocca per parlare, gli uscirono soltanto queste due parole: "Bisognerebbe domani" e dopo più nulla. (cap. 15 p. 137). Il discorso privo di qualsiasi senso, per l'interlocutore( il capitano Monti), ma anche per 4 il lettore, sembra alludere all'impossibilità di ogni comunicazione umana, come suggerisce la voce del vento: Imprecando il Monti; gli risponde solo, dal precipizio nero, la voce del vento.
"Che cosa volevi dire, Angustina? Te ne sei andato senza terminare la frase; forse era una cosa stupida e qualunque, forse un'assurda speranza, forse anche niente." (cap. 15, p 138)
L'incomunicabilità coinvolge anche l'amore e segna, nel Novecento, la definitiva morte della fusione romantica. Alla mistica unione succede la scissione e l'incapacità della stessa comunicazione fra gli amanti. Ne Il deserto dei Tartari il motivo ha uno spazio limitato, circoscritta ad un solo capitolo, che comunque ben documenta la nuova concezione degli affetti. Intendiamo riferirci al capitolo 19, all'incontro con Maria, la sorella dell'amico Vescovi un tempo, promessa sposa di Drogo (cap. 19):
Lei lo guardò con un sorriso poco persuaso e cambiò discorso. "E adesso, dimmi; sei venuto per restare?"
Era una domanda che egli aveva previsto ("Dipende da te" aveva pensato di rispondere, o qualche cosa del genere). Egli però se l'era aspettata prima, all'atto dell'incontro, come sarebbe stato naturale, se a lei veramente premeva. Adesso invece gli era giunta quasi di sorpresa, ed era una cosa diversa, una domanda quasi di convenienza, senza sottintesi sentimentalf
Ci fu un attimo di silenzio, nel salotto in penombra, dove giungevano dal giardino canto di uccelli e da una stanza lontana accordi di pianoforte, lenti e meccanici; di qualcuno che studiava.
"Non so, per ora non so. Ho soltanto una licenza" disse Drogo.
"'Appena una licenza?" foce subito Maria e ci fu nella voce una vibrazione sottile che poteva essere caso, o delusione, o anche dolore. Ma qualche cosa si era messo veramente fra loro, un velo indefinibile e vago che non voleva dissolversi; forse esso era cresciuto lentamente, durante la lunga separazione, giorno per giorno, dividendoli; e nessuno dei due lo sapeva. "Due mesi. Poi forse devo tornare, forse vado in un altro posto, forse anche qui in città"
spiegò Drago. Il colloquio ormai gli diveniva penoso, un'indifferenza gli era entrata nell'animo, Entrambi tacquero
(cap. 19, p. 156)
Il passo ben documenta il motivo della scissione e non ha bisogno di commento. Semmai è
interessante notare come anche il dialogo d'amore presenti tipiche strutture già rilevate:
quella, ad esempio, del dialogo non partecipato ( una domanda quasi di convenienza;
colloquio ormai gli diventava penoso: un indifferenza gli era entrata nell'animo). continuamente interrotto dalle pause del silenzio ( Ci fu un attimo di silenzio; Entrambi tacquero).
Accanto ai tratti connessi al motivo dell'alienazione (l'estraneità, la solitudine l'incomunicabilità), Drogo e i personaggi del romanzo presentano un ulteriore affinità con gli inetti del Novecento. l'autoinganno, la_tendenza cioè a mentire agli altri e soprattutto a se stessi tipica dei personaggi sveviani.
Tutti i personaggi del deserto dei Tartari sono alla ricerca di una dimensione "altra" rispetto alla grigia realtà borghese rappresentata dal mondo della città e dal formalismo ripetitivo della fortezza. Oggetto della loro ricerca sono le imprese gloriose vanamente attese dal Nord, luogo misterioso e mitizzato su cui si appuntano le assurde speranze di tutti. Speranze assurde, dicevamo, perché tutti sanno che i Tartari non si sono mai visti (Drago domandò:
"Perché dei Tartari? C'erano i Tartari?" "Anticamente credo. Ma più che altro una leggenda .Nessuno deve essere passato di là, neppure nelle guerre passate." - cap. 2, p. 15-) ,eppure tutti sperano inventando favole e mentendo ostinatamente a se stessi, con l'unico scopo di rendere vivibile la noia della vita. A rivelarlo a Droga è il maggiore Ortiz:
"Che vuole che le dica?" disse il maggiore. "Sono storie un po' complicate Quassù è un po' come in esilio, bisogna pure trovare una specie di sfogo, bisogna ben sperare in qualche cosa. Ha cominciato uno a mettersi in mente, si sono messi a parlare dei Tartari, chissà chi è stato il pnmo"
"I Tartari..i Tartari.. Da principio sembra una stupidaggine, naturalmente poi si finisce a crederci lo stesso, almeno a molti è successo così, effettivamente."
"Ma lei; signor maggiore, perdoni; lei ci
"lo è un'altra cosa" disse Ortiz. "La mia è un'altra età. lo non ho più velleità di carriera, mi basta un posto tranquilloLei invece, tenente, lei ha tutta la vita davanti. Fra un anno, un anno e mezo al massimo, lei sarà trasferito" ( cap. 21, p. 174)
L'autoinganno è generale ed anche chi, come Ortiz, sembra esserne consapevole in qualche modo ne è vittima : il maggiore, infatti, per un verso ammette di credere nelle speranze di tutti ( Da principio sembra una stupidaggine .. .poi si finisce a crederci lo stesso), per un altro lo nega ingannando Droga e se stessa (lo è un'altra cosa.. .mi basta un posto tranquillo)
Del resto che Ortiz si autoinganni lo confermano altri passi, ad esempio il suo dialogo con Droga sulla morte di Angustina ( cap. 16). Anche in questa occasione egli ammette di essere vittima dell'illusione di tutti e allo stesso tempo cerca di nasconderlo agli altri e a se stesso dichiarando l'assurdità delle speranze: "Forse si; purtroppo "disse il maggiore. "Tutti piùo meno, ci ostiniamo a sperare. Ma è un assurdo, basta pensarci un poco (e faceva segno con una mano al nord). Da questa parte mai più potrà venire una guerra.( Cap. 16p. 142) lI suo autoinganno, anzi, è così forte che da un lato consiglia Drago di partire dalla fortezza e di mettere fine alle assurde speranze, dall'altra non presta fede alle sue stesse sagge parole attratto come tutti dagli eventi attesi dal nord: Ed ecco ancora là, il maggiore Ortiz, in piedi sulla terrazza della quarta ridotta, incredulo alle sagge parole. guardare una volta di più la landa del nord, come se lui solo avesse realmente il diritto di guardarla, lui solo il diritto di rimanere lassù, non importa a che scopo, e Drogo invece fosse un bravo ragazzo fuor di posto, che aveva sbagliato i calcoli e avrebbe fatto bene a tornare.( cap. 16, p. 143). Non ci stupisce allora che il vecchiaomaggiore Ortiz, al momento del suo congedo, abbandoni la fortezza rimpiangendo la gloria militare mai raggiunta e invidiando le residue possibilità di Drogo: Ortiz disse: "Tu sei ancora giovane! Sarebbe una stupidaggine, tu farai ancora in tempo!"
"In tempo a che cosa?"
"In tempo per la guerra. Vedrai non passeranno due anni 2 (così diceva ma in cuor suo sperava di no, in realtà egli si augurava che Drago se ne tornasse come lui; senza avere avuto la grande fortuna; gli sarebbe parsa una cosa ingiusta. E sì che per Droga aveva amicizia, e gli desiderava ogni bene). (cap. 26, p. 207).
Tutti , come abbiamo detto, subiscono lo stesso autoinganno. Casi il sarto Prosdocimo, che si dichiara provvisorio alla fortezza, mentre in realtà è vittima delle false speranze da 15 anni. A svelarlo a Drogo è il vecchio fratello del sarto che, come Ortiz, lo mette in guardia dalla follia generale di cui ,però, anch'egli è succube. (cap. 7 pp. 53-56) L'autoinganno è necessario perché, come ci ha chiarito il maggiore Ortiz ( cp. 21 , p. 174), occorre trovare una specie di sfogo alla noia e all'esilio della fortezza; dunque quello che i soldati vogliono non è il raggiungimento della speranza, ma la speranza in se stessa per abituarsi alla routine della vita: l'arrivo dei Tartari (la realizzazione cioè dette speranze di tutti) metterebbe fine all'autoinganno e conseguentemente svelerebbe l'unica realtà della fortezza, la noia dell'abitudine. Non è casuale allora che il colonnello Filimore con tutte le sue forze non accetti, nell'episodio dei confini, di credere all'arrivo dei Tartari: a impedirglielo sono sì le sue precedenti delusioni, ma anche, e soprattutto, il desiderio di continuare a sperare: Gli sarebbe toccato parlare degli stranieri apparsi nella pianura, non avrebbe potuto più rinviare la decisione, avrebbe dovuto definirli ufficialmente nemici; oppure scherzarci sopra, oppure tenere una via di mezzo, ordinare misure di sicurezza e nello stesso tempo mostrarsi scettico, come se non ci fosse da montarsi la testa. Ma una decisione bisognava pur prenderla, e ciò gli dispiaceva. Egli avrebbe preferito continuare l'attesa. rimanere assolutamente immobile, quasi a provocare il destino affinché si scatenasse davvero. (cap. 14, p. 115)
Un simile stata d'anima lo passiamo osservare anche in Drago, quando, nell'episodio del cavallo, accoglie con strana serenità la delusione circa il presunto arrivo dei Tartari: Nel frattempo il cielo si era schiarito e il sole illuminò il paesaggio riscaldando il cuore dei soldati. Anche Giovanni si sentì rinfrancare dalla chiara luce; le fantasie dei Tartari persero consistenza, tutto ritornava alle proporzioni normali; il cavallo era un semplice cavallo e alla sua presenza si poteva trovare una quantità di spiegazioni senza ricorrere a incursioni nemiche. Allora, dimenticando le paure notturne, egli si sentì improvvisamente disposto a qualsiasi avventura e Io riempiva di gioia il presentimento che il suo destino era alle porte, i una sorte felice che lo avrebbe messo al di sopra degli altri uomini. (cap. 12, p. 93) La delusione rafforza la speranza proprio perchè, come dicevamo, permette di prolungare all'infinito la speranza stessa e assuefarsi così alla noia e all'abitudine. La conferma ci viene dalla stesso narratore che così commenta la decisione di Droga di restare alla fortezza:
Drago ha deciso di rimanere, tenuto da un desiderio ma non solo da questo : l'eroico pensiero forse a tanto non sarebbe bastato. Per ora egli crede di aver fatto una cosa nobile e in buona fede se ne meraviglia, scoprendosi migliore di quanto avesse creduto. Solo molti mesi più tardi, guardandosi indietro, egli riconoscerà le misere cose che lo legano alla fortezza.
Avessero pur suonato le trombe, si fossero udite pure udite canzoni di guerra, dal nord fossero pure giunti inquietanti messaggi; se era solo questo Drago sarebbe ugualmente partito; ma c'era in lui il torpore delle abitudini; la vanità militare, l'amore domestico per le quotidiane mura. Al monotono ritmo del servizio, quattro mesi erano bastati per invischiarlo. (cap. 10, p. 70)
Drogo non è rimasto per le sue speranze (gli eroici pensieri), ma semplicemente perché come tutti si è assuefatto al tarpare delle abitudini. In sostanza gli eroici pensieri servono solo ad accettare l'abitudine e la noia, a autoingannarsi con fieri propositi militareschi. In questo senso è allora significativa la struttura testuale con cui prosegue la pagina citata: sei sequenze introdotte, in serie anaforica, dalla parola abitudine, a connotare l'alienata routine del personaggio, e concluse dall'insistenza sui suoi militareschi autoinganni : ma per adesso eccolo, spavaldo e spensieratoDrogo sentiva di avere quella notte una fiera e militaresca bellezza (cap. 10, pp. 72-73).
Si riconferma così la stretta parentela con gli inetti novecenteschi: con essi Droga e i personaggi del romanzo condividono, altre all'autoinganno, l'atteggiamento inerte e sostanzialmente passivo di chi non agisce ma è agito, di chi vive nell'immobile tornare di un tempo sempre uguale, in cui presente e passato vengano annullati da una sarta di coazione a ripetere.
Proseguiamo la nostra analisi soffermandoci su due temi molta diffusi nel romanzo moderno:
la contrapposizione sani malati e la deformazione fisica dei personaggi (il motivo del brutto). 5 La contrapposizione sani-malati nel romanzo del Novecento ( tipica soprattutto in Svevo, ma presente anche in Pirandello, Tozzi ,Borgese, Moravia) si basa sul contrasto oppositivo di coppie di personaggi di cui una parte ha in sè i segni della "malattia" (la nevrosi, l'inadattabilità alla società borghese) e l'altro i segni dell'adattabilità al mondo (il successo economico, il prestigio sociale, il successo con le donne ecc.). Questa contrapposizione ( i cui precedenti passano farsi risalire all'uomo del sottosuolo di Dostovskij,in ambita letterario, e alla opposizione contemplatari lottatori di Shapenhauer in ambito filosofico) dà vita (in modo evidente in Svevo) ad un rovesciamento di valori, per cui il vero sano appare essere il malato è viceversa. L'inadattabiità del malato rappresenta, infatti, la sua sconfitta nel mondo, ma contemporaneamente segnala la sua superiorità: essere inadatti significa essere privi di ogni valore, ma anche rendersi conto della falsità e della inautenticità dei valori dél borghese, una consapevolezza che i sani, propria per la loro totale adesione ai valori borghesi, non hanno. Si deve poi ricordare che nella contrapposizione malati-sani ( presente anche nella poesia moderna: per cui si veda ad esempio le immagini dell'albatro. dei ciechi e del saltimbanco in Baudelaire) la superiorità dei malati è legata anche al privilegio poetico di questi ultimi. Solo i malati sembrano infatti raggiungere lo spazio più autentico dell'uomo: l'oltre, la profondità dell'inconscio in cui si realizza la moderna unione dell'uomo con la realtà: l'unione io-mondo ( Giaanola).
Questo motivo di cui stiamo discutendo è rinvenibile anche nel deserto dei Tartari con una differenza però significativa documentabile anche ( e forse in modo più evidente) ne Gli indifferenti di Moravia: l'assenza di ogni superiorità dei malati sui sani e il comune degrado cw' che tutti coinvolge.
Nel romanzo di Buzzati il contrasto sani malati si sviluppa attorno alla figura del tenente Angustina, un personaggio centrale in quanto spesso presente nelle vicende ed in posizione rilevata rispetto all'intreccio: all'inizio ( capp. 8-11), al centro ( capp. 15-16) e alla fine ( cap 30). Angustina è il tipico inetto del Novecento con alcuni tratti che lo ricollegano al personaggio decadente di ascendenza dannunziana. Come tutti gli inetti è malato sia nel corpo che nello spirito e in lui la malattia fisica rappresenta una sorta di specchio della condizione di inettitudine (la nevrosi). il male è però ostentato con un aristocratico senso di superiorità che ricorda il compiacimento decadente della propria nevrosi: Ma egli tossiva con una sapiente misura, abbassando ogni volta la testa, quasi ad indicare che lui non poteva impedirlo, in fondo era una cosa non sua che per correttezza gli toccava subire. Così trasformava la tosse in una specie di vezzo capriccioso, degno di essere imitato. (cap. 8, p.
AI personaggio decadente lo avvicina poi la sua raffinatezza,il suo aristocratico e annoiato distacco dagli altri: noia, perenne aria di distacco, snob sono le espressioni più ricorrenti a caratterizzarlo. ( capp. 8-11). Ad uno stesso referente culturale rimanda inoltre il suo disprezzo per il mondo borghese rappresentato dal lusso della città che egli rifiuta in nome della fortezza : "Ti immagini?" fece Lagorio , senza misericordia, ad Angustina. "Dopodomani sera, a quest'ora, io sarò magari da Consalvi. Gran mondo, musica, belle donne "diceva, ripetendo un'antica celia.
"Bel gusto" rispose con sprezzo Angustina. (cap. 8, p. 60)
Questa decadente inettitudine si connota ,come dicevamo, di echi dannunziani. Innanzi tutto per la nobiltà della morte che ricorda un eroismo da "vita inimitabile": sia nel sogno premonitore di Drogo ( cap. 11) che nella morte in montagna , Angustina si segnala, infatti, per la sua eroica eleganza: Allora, al paragone di Angustina pur essendo ben più vigorosi e spavaldi; il capitano, il sergente e tuffi gli altri soldati sembrarono l'un l'altro rozzi bifolchf E nell'animo del Monti, per quanto fosse quasi inverosimile, nacque un invidioso stupore. (cap. 15, p. 137) In secondo luogo l'aristocratico tenente evidenzia una sorta di superoismo poetico nel suo rapporto privilegiata con il mistero della poesia, a questo sembra infatti alludere, nel sogno di Droga, l'esclusivo contatto con esseri fatati mai visti nel mondo reale Tra la finestra a cui era affacciato e il meraviglioso palazzoavevano intanto cominciato a fluttuare fragili parvenze, simili a fate forse, che si trascinavano dietro strascichi di velo, rilucenti alla luna. Per la loro natura esse apparivano logiche pertinenze del palazzo, ma il fatto che non badassero affatto a Drogo, mai avvicinandosi alla sua casa, lo mortificava. Anche le fate dunque rifuggivano dai bambini comuni per badare soltanto alla gente fortunata che non le stava neppure a guardare ma dormiva indifferente sotto baldacchini di seta?( cap. 11 p. 79)
Su questo personaggio cosi concepito si sovrappone il tema del contrasto sani-malati con evidente insistenza. Angustina è infatti contrapposto a due sani: il tenente Lagario ( cap. 8) e il capitano Monti ( cap. 11). In entrambi i casi la rozza "salute" degli antagonisti( Lagorio e Monti) sembrerebbe esaltare la nobiltà del malato secondo l'ottica del rovesciamento di segno che abbiamo visto agire negli inetti del primo Novecento - Tuttavia la conclusione del romanzo rende improponibile questa ipotesi. Qui ai due contrasti precedenti ( con Lagorio e Monti) si aggiunge quello con Drogo, che sconfessa la nobiltà della morte di Angustina contrapponendole la nobiltà vera di una marte dolorosamente umana e per questo più eroica: Non c'era neanche più bisogno di invidiare Angustina. Si Angustina era morto in cima a una montagna nel cuore della tempesta, se ne era andato da par suo, davvero con molta eleganza. Ma assai più ambizioso era finire da prode nelle condizioni di Drogo, mangiato dal male, esiliata fra ignota gente. (cap. 30, p. 233). Nel finale la contrapposizione sani-malati pertanto si annulla e la nobiltà del malato Angustina si trasforma in un disumano velleitarismo di gran lunga inferiore alla misera morte di Drago: eroica è la consapevolezza di chi si rende conto che esiste sola la "malattia" della vita, sconfitta comune di tutti, sani e malati Nel che è forse da cogliersi un acuirsi della crisi del secondo Novecento è una dichiarazione poetica contro il simbolismo e il superomismo dannunziano.
Concludiamo il parallelismo fra Giovanni Drogo e gli inetti del Novecento soffermandoci sul motivo del brutta.
Uno degli aspetti più interessanti del romanzo novecentesco è "la calata dei brutti", nella cui deformazione fisica Giacomo De benedetti individuava i segni della rivolta dell'"uomo nuovo" ('l'altro") contro "l'io normale", l'io delle convenzioni borghesi. Di qui la deformazione e la bruttezzza dei personaggi di Toni, Pirandello e Moravia, che trova un riscontro, seppure come motivo secondario, ne Il deserto dei Tartari.
Un motivo secondario, dicevamo, ma solo quantitativamente nel senso che, sebbene non reiterata, è collocato all'inizio e alla fine del racconto,in una posizione strategica che ne sottolinea l'importanza.
Un prima accenna alla bruttezza lo troviamo subito nel primo capitolo, quando di fronte ad una specchio Drago scopre pirandellianamente di non piacersi: Così Drago fissava lo specchio, vedeva uno stentato sorriso su/proprio volto, che invano aveva cercata dì amare. La situazione come abbiamo detto è pirandelliana per quell'esame di se stesso allo specchio che ricorda Mattia Pascal e il Moscarda di Uno, nessuno e centomila, ma soprattutto la condizione di stupore, Nei quaderni di Serafino Gubbio operatore, della Nestoroff, l'attrice che non riconosce l'immagine di se Messa sullo schermo: La Nestaroff è veramente disperata di ciò che le avviene; ripeto, senza volerlo e senza saperlo. Resta ella stessa sbalordita e atterrita delle apparizioni della propria immagine su lo schermo, così alterata e scomposta - Vede lì una, che è lei; ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in quella; ma almeno conoscerla.( Quaderno secondo, IV)
Dunque potremo dire che anche Droga come la Nestoroff nella bruttezza della propria immagine vede riemergere dell'uomo nuovo di quell'altro da sè di cui parla il Debenedetti. Una ripresa questa, per noi, operata consapevolmente da Buzzati, proprio per il valore che il tema del brutto assume nella conclusione del racconto.
Qui riemerge di nuovo la contrapposizione, già da noi segnalata, fra Drogo e Angustina, sovrapponendosi al contrasto nobiltà-miseria umana quello fra bellezza e bruttezza:
Si, Angustina era morto in cima a una montagna nel cuore della tempesta, se n'era andato da par suo, davvero con molta eleganza. Ma assai più ambizioso era finire da prode nelle condizioni di Drogo, mangiato dal male, esiliato fra ignota gente.
Solo gli dispiaceva di doversene andare di là con quel suo misero corpo, le ossa sporgenti; la pelle biancastra e flaccida. Angustina era morto intatto -pensava Giovanni- la sua immagine nonostante gli anni, si era mantenuta quella di un giovane alto e delicato, dal volto nobile e gradito alle donne questo il suo privilegio. Ma chissà che, passata la nera soglia, anche lui Droga non sarebbe potuto tornare come una volta, non bello (perchè bello non era mai stato) ma fresco di giovinezza. Che gioia, si diceva Droga al pensiero, come un bambino, poichè si sentiva stranamente libero e felice. (cap.30, p. 234)
Droga accetta la propria miseria umana liberandosi dalle false illusioni di un tempo ( rappresentate da Angustina) e contemporaneamente accetta la propria bruttezza contrapponendola alla bellezza di Angustina. Nel che ( ricordando il parallelo istituito fra Angustina e il personaggio decadente di tipo dannunzìano) è forse possibile individuare una' sorta di dichiarazione poetica dell'autore: il rifiuto del personaggio dannunziano in nome del personaggio moderno di tipo pirandelliano. Un'analisi del romanzo su se stesso (la dimensione metaletteraria del "romanzo da farsi", del romanzo che parla di se stesso, tipica del Novecento) che anticiperebbe l'interpretazione critica del Debenedetti. Ovviamente si tratta solo di un'ipotesi che pare comunque autorizzata da sicure affinità dannunziane rinvenibili nel personaggio di Angustina. Per la bellezza che piace alle donne si veda ad esempio questo ritratto di Andrea Sperelli colto, nell'attesa di Elena, davanti a uno specchio ben diverso da quelli pirandelliani: Poi anche si levò per vedere in uno specchio se il suo volto era pallido, se rispondeva alla circostanza. E il suo sguardo nello specchio, si fermò alle tempie. all'attaccatura dei capelli, dove Elena allora soleva mettere un bacio delicato. Aprì le labbra per mirare la perfetta lucentezza dei denti e la freschezza delle gengive. ricordando che un temno ad Elena piaceva in lui sopra tuffo la bocca. La sua vanità di giovine viziato ed effeminato non trascurava mai nell'amore alcun effetto di grata o di forma. Egli sapeva, nell'esercizio dell'amore trarre dalla sua bellezza il maggior possibile godimento. Questa felice attitudine del corpo e questa acuta ricerca del piacere appunto gli cattivava l'animo delle donne (il piacere, libro 1, 1 p. 86).
Quanto abbiamo definito come personaggio dannunziano necessita però di una spiegazione. La critica più recente (Rada, Baldi) ha infatti evidenziato nei personaggi di Dannunzio la presenza di elementi rapportabili all'inettitudine sottolineando (in opere come il trionfo della morte, Le vergini delle rocce) la moderna deformazione del personaggio e il motivo del brutto. La ripresa del personaggio dannunziano ne Il deserto dei Tartari andrebbe riferita pertanto alla fase del piacere (sottolineando come comunque anche in questo testo siano numerosi i tratti dell'inettitudine) o, meglio ancora, all'atteggiamento antidannunziano di tutto il Novecento letterario italiano, prima della recente riscoperta della critica.
UNA MODERNA DIMENSIONE DEL TEMPO: IL TEMPO DELLA COSCIENZA
Uno dei temi fondamentali con cui nel romanzo si caratterizza il motivo dell'alienazione e dell'inettitudine è la fuga del tempo. Accenni in proposito sono subito presenti nel testo ed in particolare al cap.6, una sorta di anticipaziane delle vicende e del destino del protagonista.
Droga durante la guardia si addormenta e il narratore ci informa che proprio quella notte cominciava per lui l'irreparabile fuga del tempo (cap. 6, p. 46). Seguono due pagine in cui la voce narrante pone a contrasto l'età della giovinezza e l'età della vecchiaia. Nella giovinezza gli anni scorrono lenti e con passo lieve, non esiste competizione e tutti ci manifestano benevolenza ( non c'è proprio bisogno di affrettarsi nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta.Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna). La tensione verso le speranze è fiduciosa ( Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille ).
Con l'età adulta il passato diventa irrecuperabile e la fuga del tempo si fa vorticosa:
Ma a un certo punto, quasi istintivamente , ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente,ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il fiume dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l'una sull'altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire. (cap, 6, p. 47).
Drago, è sempre il narratore a spiegarcelo, al momento non è consapevole di tutto questo, ma un giomo si renderà conto drammaticamentre del brusco passaggio dalla giovinezza all'età adulta: Si guarderà attorno incredulo; vedrà la gente, risvegliatasi prima di lui; che corre affannosa e lo sorpassa per arrivare in anticipo. Sentirà il battito del tempo scandire avidamente la vita. Non più alle finestre si affacceranno ridenti figure, ma volti immobili e indifferenti. Le speranze rimarranno ancora vive, ma ,nell'angoscia di un tempo che apparirà sempre più veloce e breve, non saranno mai raggiunte: Dietro quel fiume dirà la gente ancora dieci chilometri e sarai arrivato. Invece non è mai finita, le giornate si fanno sempre più brevi
Alla fine sopraggiungerà la morte un mare immobile, color di piombo: Fino a che Drago rimarrà completamente solo e all'orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, color di piombo.
Il destino di Droga è così già anticipato e le vicende che seguono non fanno che sviluppare questa tesi del narratore. Ecco allora il Drogo giovane che crede di avere a disposizione un tempo infinito e che non riesce a percepire la fuga del tempo ( cap. 10, p. 72; Cap. 11, p. 78; cap. 16, p. 139: cap. 18, pp.150-151; cap. 21 p. 168), ed ecco il Drogo più maturo che all'improvviso è attanagliato dall'ansia di non avere più tempo a disposizione (cap. 22, pp. 182, 183, 188; cap. 24, 195-196; cap. 25; cap. 26). Fino alla fine della giovinezza e alla morte quando il turbine del tempo si placa in un mare grigio e uniforme: Gli parve che la fugai del tempo si fosse fermata, come per rotto incanto. ll votice si era fatto negli ultimi tempi sempre più intenso, poi improvvisamente più nulla, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente. La strada di Drogo era finita ; eccolo ora sulla solitaria riva di un mare grigio e uniforme, e attorno nè una casa nè un albero nè un uomo, tutto così da immemorabile tempo. (cap, 30, p. 230)
Così come lo abbiamo riassunto il tema del tempo sembra sviluppato nel romanzo in forme irrazionali di tipo ottocentesco e di vaga atmosfera leopardiana la percezione razionale del tempo in successione lineare passato-presente-futuro). La contrapposizione della giovinezza alla vecchiaia, l'irrecuperabilità del tempo della giovinezza In realtà il motivo del tempo è trattato in forme nuove sia dal punto di vista ideologico che narrativo. Innanzi tutto moderna e tipicamente novecentesca è la percezione non più oggettiva, ma soggettiva del tempo: il tempo delta coscienza contrapposto al tempo razionale della realtà. A ben vedere infatti nel romanzo il passaggio giovinezza- vecchiaia non è scandito dal numero oggettivo delle ore e degli anni ( quelli degli orologi e dei calendari per intenderci) ma dalla percezione soggettiva del loro passare: un tempo lento o vorticoso solo in relazione al soggetto Droga che, in diverse fasi della sua vita lo percepisce diversamente. Questa percezione soggettiva della durata del tempo (tipica del romanzo novecentesco, ad esempio dei romanzi di Svevo) è evidenziata da ll deserto dei Tartari attraverso le stesse strutture narrative ed in particolare attraverso il rapporto fra la durata del tempo della storia (o dell'avventura) e la durata del tempo del racconto.
Per durata della storia o dell'avventura si intende il tempo dei fatti narrati (le ore ,i giorni, gli anni in cui si svolgono gli avvenimenti narrati), per durata del racconto si intende il tempo necessario a raccontarli. Ovviamente quest'ultimo è un tempo convenzionale ( misurato in righe e pagine). Il rapporto fra queste due durate può generare situazioni di rallentamento ( quando il tempo dell'avventura scorre più lenta di quello del racconto -un esiguo periodo di tempo raccontato in poche pagine- fino al limite della pausa quando il tempo dell'avventura è fermo e il narratore commenta o descrive), di equilibrio ( nei dialoghi, ad esempio, in cui il tempo dell'avventura coincide con il tempo impiegato per raccontarla), di accelerazione ( quando il tempo dell'avventura scorre più velocemente di quello del racconto -molti anni raccontati in poche righe -fino al limite dell'ellissi in cui si salta il racconto di interi periodi del tempo dell'avventura).
Nel Romanzo di Buzzati il tempo in cui si svolge la storia è imprecisato (le vicende iniziano in un settembre di non si sa quale anno), diversamente la durata della storia è facilmente recuperabile da indicazioni abbastanza precise del narratore sull'età Drago. In particolare al capitolo 22 ( p. 183) siamo informati che il protagonista ha 25 anni, essendo passati quattro anni dalla sua permanenza nella fortezza ( cap.16 p. 139; cap. 20.,p. 162) dobbiamo supporre che vi faccia il suo primo ingresso a 21 anni. Al capitolo 25 veniamo a sapere che Droga ha 40 anni e al 21 che ha raggiunto il suo cinquantaquattresimo anno, l'anno della malattia e della mode. Dunque la durata della storia corrisponde a circa 33 anni e te proteste di Droga malato contro Simeoni, che vuole allontanarlo dalla fortezza, confermano i nostri calcoli : "E' più di trent'anni che sono qui ad aspettare . . .ho lasciato andare molte occasioni. Trent'anni sono qualcosa, tutto per aspettare questi nemici. Non puoi pretendere adesso Non puoi pretendere adesso che me ne vada, non puoi pretendere, ho un certo diritto do rimanere, mi pare"
Se adesso confrontiamo questa durata dell'avventura ( i 33 anni) con la durata convenzionale del racconto (il numero di pagine impiegate per raccontarli) notiamo una improvvisa accelerazione del racconto nell'ultima parte: dal capitolo 22 aI capitolo 30 (in soli 9 capitoli) vengono, infatti, raccontati 29 anni dei 33 compresi nella durata della storia ( l'autore è esplicito: al capitolo 25 ci dice che Droga ha 40 anni e che ci sono voluti 15 anni perchè i nemici completassero la strada avvistata da Simeoni nel cap. 22. All'inizio di questo capitolo Droga ha pertanto 25 anni e solo 4 anni della storia sono passati dal suo arrivo, a 21, nella fortezza).Si tratta di una situazione di estrema accelerazione rispetto ai primi 21 capitoli del romanzo che invece raccontano solo i primi 4 anni delle vicende. Dunque una asimmetria notevole ( 21 capitoli per 4 anni e 9 per 29) impensabile per un romanzo dell'ottocento e carica di significato per la comprensione del racconto. La scelta di questi due opposti rapporti fra la durata della storia e del racconto è infatti funzionale a sottolineare la moderna percezione del tempo: il tempo della coscienza per cui, come abbiamo visto, Drogo percepisce il tempo ora come immobile e ora come in vorticosa fuga. Non è casuale che l'acellerazione inizi proprio al capitolo 22, quello in cui Drago avverte per la prima volta
la fuga del tempo: Da qualche tempo infatti un'ansia, che lui non sapeva capire, lo inseguiva senza riposo: l'impressione di non fare in tempo, che qualche cosa di importante sarebbe successo e l'avrebbe colto di sorpresa.( cap. 22, p. 182) In sostanza le due diverse accelerazioni (che l'autore ha volutamente impresso nel rapporto della durata della storia e del racconto) riflettono la percezione diversa che Drogo ha del tempo nel corso delle vicende: il tempo rallentato della giovinezza, quando il protagonista ha la sensazione che il tempo sia immobile (i primi 4 anni raccontati in 21 capitoli a significare quella immobilità) e il tempo dell'età adulta, quando si accorge della fuga vorticosa degli anni ( i 29 anni raccontati
in 9 capitoli a significare quella vorticosa fuga). ,.~ rv
In realtà, come vedremo meglio analizzando il motivo dell'abitudine, Drogo e gli altri personaggi del romanzo non presentano una reale percezione del tempo, se non contraddittoria e ingannevole. Essi infatti vivono ripetendo gesti sempre uguali che li privano di ogni riferimento utile ad acquisire il senso del passare del tempo. Così dalla sensazione di un tempo immobile della giovinezza si passa alla sensazione di una fuga vorticosa del tempo mai acquisita consapevolmente perché allontanata dal ripetersi immobile dell'abitudine.
LA ROTTURA DELL'ORDINE LINEARE DEL TEMPO E IL TEMA DELL'ABITUDINE
Il romanzo del Novecento si caratterizza non solo per la percezione soggettiva del tempo (il tempo della coscienza), ma anche per la rottura dell'ordine lineare degli eventi. In altre parole alla percezione lineare dell'ottocento ( passato-presente-futuro) subentra la dimensione della durata o della compresenza: la compresenza di tutti gli eventi (passati e presenti) nella coscienza dell'individuo. Questa nuova dimensione, sviluppata da Bergson in filosofia e introdotta come centro della propria opera letteraria da Proust, trova applicazione in molte opere letterarie del Novecento in connessione con il predominio dell'analisi memoriale: i personaggi che si analizzano scoprono che le esperienze passate non sono completamente trascorse, ma si sono sedimentate nell'inconscio , da dove sovente, in modo volontario o in volontario riemergono per continuare a influire ativamente sulle scelte e sui comportamenti, senza che sia possibile, talora, distinguere on chiarezza ciò che è stato da ciò che è, ciò che è o è stato da ciò che viene soltanto immaginato. ( Grosser p. 221) Di qui, nei romanzi, la tendenza all'interferenza dei tempi a tutti i livelli del racconto, da quelli macrostrutturali (le grandi strutture del racconto) a quelli microstrutturati (la struttura della pagina): In queste opere l'interferenza dei tempi (dai presente dell'io narrante ai vari passati dell'io narrato, non sempre disponibili in un ordine cronologico preciso) e il senso della complessa stratificazione degli eventi nella coscienza dell'individuo, sono caratteristiche continue e si manifestano non solo attraverso affermazioni esplicite, o tramite il confronto di fabula e intreccio relativamente al complesso dell'opera, ma quasi ad ogni pagina, a livello di contenuto, di discorso, nel continuo alternarsi dei tempi verbali ( Grosser p. p. 221-222) Questa tendenza all'annullamento della dimensione lineare del tempo è avvertibile, seppure con esiti completamente opposti, anche ne Il deserto dei Tartari. Nel romanzo,infatti, la comune matrice della dimensione temporale novecentesca (la durata e l'interferenza fra presente- passato- futuro) si manifesta nel motivo dell'abitudine e del sempre uguale (la coazione a ripetersi e a ripetere gesti identici), annullando così ogni distinzione presente passato, ma allo stesso tempo impedendo ogni recupero di un tempo assoluto come accade in Proust. L'abitudine che annulla il presente e il passato in una ripetizione sempre uguale si manifesta infatti come incapacità di percepire il tempo e conseguentemente come impossibilità di recuperano.
Ne Il deserto dei Tartari alla percezione soggettiva della durata (il tempo lento della giovinezza e il tempo vorticoso dell'età adulta), si contrappone il motivo dell'abitudine che annulla ogni distinzione fra giovinezza e età adulta nell'identica ripetizione del sempre uguale. La conclusione è che esiste un tempo esterno all'uomo che inesorabilmente passa travolgendolo senza che l'uomo ne afferri il senso e un tempo interno (il tempo della coscienza) contraddittorio e soggetto all'inganno dell'abitudine : è sempre l'abitudine della ripetizione che nella giovinezza dà il senso di una durata inesauribile e che nell'età adulta rende la percezione della vorticosa fuga del tempo istintiva più che consapevole.
Quando da giovane Drago si illude sulla durata inesauribile del tempo a trarlo in inganno è l'abitudine: Ieri e l'altro ieri erano uguali egli non avrebbe più saputo distinguerli; un fatto di tre giorni prima o di venti finiva per sembrargli ugualmente lontano. Così si svolgeva alla sua insaputa la fuga del tempo. ..L'esistenza di Drogo invece si era come fermata. La stessa giornata, con le identiche cose, si era ripetuta centinaia di volte senza fare un passo innanzi Il fiume del tempo passava sopra la fortezza, screpolava le mura, trascinava in basso il cortile, polvere e frammenti di pietra, limava gli scalini e le catene, ma su Drogo passava invano; non era ancora riuscito ad agganciai/o nella sua fuga. (cap. 10, p. 72; cap. 11, p. 78) Ma anche quando l'assale l'angoscia della fuga del tempo l'abitudine del sempre uguale lo
Portava ad opporsi ad una consapevole percezione: Da qualche tempo infatti un'ansia, che lui non sapeva capire lo inseguiva senzà riposo: impressione di non fare in tempo e che qualche cosa di importante sarebbe successo e l'avrebbe colto di sorpresa Giovani capiva pure di non poter restare tutta la vita fra le mura della Fortezza. Presto o tardi qualche cosa bisognava decidere. Poi le abitudini lo rendevano nel solito ritmo ( cap. 22, pp. 182-183) Droga avverte ,infatti, la rovina del tempo ma la vita abitudinaria della fortezza non gli offre punti di riferimento per esserne realmente consapevole, gli anni così passano modificando gli uomini che ,però, immersi nella ripetizione dell'abitudine non se ne avvedono: Di giorno in giorno sentiva aumentare questa misteriosa rovina ( del tempo), e invano cercava di tra ottenerla. Nella vita uniforme della fortezza gli mancavano punti di riferimento e le ore gli sfuggivano di sotto prima che lui riuscisse a contai/e. Quindici anni per le montagne sono stati meno che nulla e anche ai bastioni del forte non hanno fatto gran male. Ma per gli uomini sono stati un lungo cammino, sebbene non si capisca come siano passati tanto presto. Le facce sono sempre le stesse. pressappoco: le abitudini non sono mutate. Nè i turni di guardia. nè i discorsi che oli ufficiali si fanno ogni sera. (cap. 24, p. 195; cap. 25, p. 199)
Ed è proprio l'abitudine, non permettendo che la percezione della fuga del tempo diventi consapevole, a favorire l'autoinganno (l'attesa spasmodica di speranze che mai si realizzeranno) . Così Drogo ancora una volta risale la valle della fortezza ed ha quindici anni di vivere in meno. Purtroppo egli non si sente gran che cambiato. il tempo è fuggito tanto velocemente che l'animo non è riuscito a invecchiare. E per quanto l'orgasmo oscuro delle ore che passano si faccia sempre ogni giorno più grande. Droga si ostina nella illusione che l'importante sia ancora da cominciare. Giovanni aspetta paziente la sua ora che non è mai venuta, non pensa che il futuro si è terribilmente accorciato, non è più come una volta quando il temno awenire gli poteva sembrare un periodo immenso. una ricchezza inesauribile che non si rischia va niente a sperperare. ( cap. 25. p. 200)
Dunque l'abitudine annulla nell'individuo ogni consapevolezza e al tempo esterno che soffia inesorabile si contrappone il tempo interna dell'immobile inettitudine: Così la pianura rimase immobile, ferme le nebbie settentrionali ferma la vita regolamentare della fortezza, le sentinelle ripetevano sempre i medesimi passi da questo a quel punto del cammino di ronda, uguale il brodo della truppa, una giornata identica all'altra, ripetendosi all'infinito, come soldato che segni il passo. Eppure il tempo soffiava; senza curarsi degli uomini passava su e giù per il mondo mortificando le cose belle; e nessuno riusciva a sfuggirgli nemmeno i bambini appena nati ancora sprovvisti di nome.( cap. 26, p. 204).
Il tempo è allora escluso dalla percezione dell'individuo: rimane solo una ripetitiva immobilità che annulla ogni distinzione fra presente e passato. In questo senso si può parlare della rottura novecentesca della dimensione lineare del tempo sottolineandone però, come abbiamo anticipato, gli esiti opposti rispetto alla durata proustiana: in Proust quella rottura permetteva l'acquisizione del tempo assoluto e vero della compresenza, in Buzzati sancisce invece l'impossibilità della consapevolezza del tempo e dunque del suo recupero: e non è un caso che il recupero memoriale tentato da Drago durante il breve ritorno a casa ( capp. 17-20) si risolva nello scacco più assoluto.
Concludendo si può allora affermare che la dimensione prevalente nel romanzo è la ripetizione del sempre uguale e in definitiva l'assenza del tempo,, ed è a questo che sostanzialmente alludono le strutture del racconto: la disposizione dell'intreccio innanzi tutto e la ricorrenza ossessiva di ripetizioni connesse al campo semantica dell"abitudine" e al ritmo ciclico delle stagioni.
Per quanto riguarda l'intreccio si dovrà notare che le due diverse accellerazioni della durata e le due corrispondenti parti che abbiamo sopra indicato ( capp. 1-21 / capp. 22-30) sono racchiuse all'interno di una comice strutturale che pone in risalto il motivo della ripetizione e dell'abitudine , quasi a sottolineare quanto dicevamo: il fallo cioè che le due diverse percezioni del tempo (il tempo lento della giovinezza e il tempo vorticoso dell'età adulta)
i
r
siano in pratica annullate e subordinate alla ripetizione dell'abitudine e dunque all'assenza di una vera percezione temporale da parte dell'uomo. Con l'espressione "cornice strutturale" intendiamo riferirci ai capitoli 2 e 25 in cui si ripete una stessa situazione: il dialogo tra il tenente Droga e il capitano Ortiz ( cap. 2) e il dialogo tra il tenente Moro e il capitano Drogo( cap. 25). A parti invertite si ripropone,infatti, uno stesso evento come si evince facilmente dalle strutture dei due capitoli e dal parallelo che Droga istituisce fra sè e il tenente Moro:
Drago assistette in quei tempi alle prime angustie del tenente Moro, come una fedele riproduzione della propria giovinezza ( cap. 26. p. 205)
Il senso di tutto questo è allora evidente: la vita non è altro che immobile ripetizione, angoscia da cui non fugge nessuno. Neppure il narratore, così tradizionale nella sua onniscienza eppure così moderno nel tempo delta sua narrazione: una costante confusione di piani temporali in cui passato e presente si alternano indistinti, a riproporre forse l'indistinzione presente- passato che abbiamo visto caratterizzare il motivo dell'abitudine.
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