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GIUSEPPE PARINI - La vita, Struttura del Giorno




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GIUSEPPE PARINI


La vita

Giuseppe Parino (che preferì più tardi modificare il proprio cognome in Parini) nacque nel 1729 a Bosisio, in Brianza, da una famiglia di modeste condizioni. Per tutta la vita fu costretto a combattere contro le difficoltà economiche e suoi primi passi negli studi furono segnati proprio da questo grave problema e da un doloroso handicap fisico che lo seguirà per tutta la vita: rimase zoppo ad una gamba a causa dell'artrite. Una prozia ricca lo accolse nel 1738 a Milano e lo mantenne agli studi presso il collegio dei Barnabiti. Qualche anno dopo, nel 1741, alla sua morte gli lasciò una piccola rendita purché diventasse sacerdote. La sua fu dunque una vocazione obbligata dalle difficoltà economiche e dal profondo amore per gli studi che, pur con grandi sforzi, era riuscito a portare a termine. Eppure restò coerente e fedele per tutta la vita ai voti pronunciati.

Nel 1752 pubblica una raccolta di versi, Alcune poesie di Ripano Eupilino, che ottiene un buon successo nell'ambiente milanese. Ciò gli consentì di accedere all'Accademia dei Trasformati e quindi di entrare in contatto con gli ambienti più colti dell'intellettualità lombarda. I Trasformati erano fautori di una conciliazione tra le esigenze di una cultura moderna, civilmente impegnata, e la tradizione classica. Parini incontrò così un ambiente culturale che rispondeva perfettamente ai suoi orientamenti ideologici e letterari, e ai lavori dell'Accademia collaborò assiduamente con componimenti poetici e contributi saggistici. Nel 1754 per potersi mantenere, fu costretto ad integrare la piccola rendita impiegandosi come precettore presso i duchi Serbelloni, dove rimase fino al 1762. Fu questo l'osservatorio privilegiato dal quale poté conoscere la vita nobiliare, soprattutto nei suoi aspetti più fatui; da questa conoscenza diretta prese avvio l'opera critica di un certo tipo di nobiltà. Proprio per protesta verso il comportamento sprezzante e inutilmente crudele dei nobili, il poeta si allontanò dalla famiglia Serbelloni; l'episodio venne ripreso in altra forma nel Giorno, la sua opera maggiore, e riguarda i maltrattamenti che aveva dovuto subire una fanciulla, figlia di un musicista, da parte della duchessa. Sempre su questo tema scrive nel 1757 il Dialogo sopra la nobiltà, una satira sulle degenerate abitudini di questa classe sociale che mette in rilievo il ruolo educativo del poeta. L'opera è ambientata in una tomba dove sono seppelliti insieme un nobile e un popolano, che discutono sull'uguaglianza degli uomini prima e dopo la morte. Dal 1762 divenne precettore di Carlo Imbonati conservando l'incarico fino al 1768. Nel frattempo aveva pubblicato due poemetti satirici contro la nobiltà oziosa e improduttiva, il Mattino (1763) e il Mezzogiorno (1765) che gli conferirono fama e notorietà, tale da vedersi affidare, nel 1768 dal governatore della Lombardia, il conte Firmian, la direzione della "Gazzetta di Milano" e, nel 1769, ricevere la nomina di professore di eloquenza all'Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 1780 l'impero austriaco passa da Maria Teresa a Giuseppe II che in nome di un'astratta furia razionalistica, sconvolse tutta una serie di istituzioni, imponendo direttive autoritarie sulla cultura. Il poeta, ferito e deluso nelle sue più profonde convinzioni, si ripiegò su se stesso e si allontanò dall'attività intellettuale militante. Scoppiata la rivoluzione francese nel 1789, in un primo tempo, come altri intellettuali riformatori, la vide con favore e speranza, come realizzazione dei principi illuministici di libertà ed uguaglianza, ma poi, dopo gli eccessi autoritari e sanguinari del Terrore, assunse posizioni sempre più negative. Con l'ingresso dei Francesi a Milano nel 1796 fu chiamato a far parte della Municipalità in una commissione che si occupava della religione e dell'istruzione pubblica. Ben presto però sorse un dissidio tra la commissione e l'indirizzo generale della Municipalità, e Parini fu allontanato. Il poeta allora, ormai vecchio e di precaria salute, si ritirò in un isolamento sdegnoso. Quando nel 1789 gli Austriaci tornarono a Milano, scatenando la repressione contro chi si era compromesso con il governo rivoluzionario, Parini per il suo prestigio fu rispettato. Morì pochi mesi dopo e poche ore prima della morte scrisse un sonetto, Predaro i Filistei l'Arca di Dio, in cui, con immagini bibliche, lodava Dio di aver restituito Milano all'Austria, ma ammonendo anche i vincitori a non compiere anch'essi come i Francesi prima di loro, nuove rapine e nuovi scempi.


Struttura del Giorno

Il Giorno è l'opera più importante di Parini, alla quale lavorò per circa 40 anni senza peraltro riuscire a portarla a compimento. E' un poema in endecasillabi sciolti che mira a rappresentare satiricamente l'aristocrazia del tempo.

Inizialmente il progetto del poeta era quello di un'unica opera divisa in tre sezioni, appunto il Mattino, il Mezzogiorno e la Sera. Successivamente l'autore modificò tale progetto dividendo l'opera in quattro parti: il Mattino, il Mezzogiorno (poi ribattezzato Meriggio), il Vespro e la Notte. Il poema aveva per argomento la descrizione, in ordine cronologico, della giornata di un giovane nobile milanese di quei tempi, fatta in prima persona dal suo istitutore. L'autore, dunque, si presenta in veste di "precettor d'amabil rito", ossia maestro della moda. La principale attività del giovin signore, descritta quasi come un'impresa eroica, consiste dunque nell'obbedire ai capricci della moda, compito del precettore è quello di guidare il nobile in questa ardua e faticosa impresa, al fine di farlo figurare meglio nella vacua società di cui fa parte.

Non dunque dal filo narrativo deriva l'indubbia complessità dell'opera, bensì dalla sovrapposizione di due modelli letterari diversi, quello didascalico e quello satirico. Il primo aspetto consiste nel fatto che viene narrata una storia-non storia, una giornata cioè totalmente vuota di accadimenti, riempita soltanto di occupazioni fisse, che scandiscono formalmente le ore, e da personaggi stereotipati che le popolano. La satira, invece, nasce dall'utilizzo della figura retorica dell'ironia, da quel modo cioè di dire ciò che si pensa affermando il contrario.

Nel Mattino il nobile viene colto nel momento in cui si corica, all'alba, dopo una notte trascorsa a teatro o al tavolo da gioco; vengono quindi descritti il suo risveglio a mattina inoltrata, la colazione, la lunga e laboriosa toeletta. Alla fine il giovin signore è pronto per uscire e recarsi a trovare la sua dama. Uno dei motivi centrali della rappresentazione pariniana è infatti il fenomeno del cicisbeismo, per cui ogni donna sposata aveva diritto ad un cavalier servente, che l'accompagnasse costantemente al posto del marito, una sorta di adulterio socialmente legittimato.

Nel Mezzogiorno il giovin signore viene seguito in visita alla dama, pranzano insieme e nel pomeriggio si recano al corso, cioè al passaggio delle carrozze, dove si ritrova tutta la nobiltà cittadina.

L'impianto didascalico è più sensibile nella prima parte e sfuma nella seconda, alla tavola della dama, dove compaiono altre figure e l'andamento si fa più descrittivo. Tale struttura didascalico-descrittiva non è che un pretesto per veicolare la satira dell'aristocrazia. Infatti tutto il discorso del precettore è impostato in chiave ironica e si fonda sull'antifrasi (affermare il contrario di ciò che si vuole fare intendere). Il precettore finge di accettare il punto di vista, i gusti e i giudizi aristocratici ma lo fa tramite celebrazioni in termini iperbolici di vite futili e vuote, descrivendoli come veri e propri "semidei terreni", esaltando gesti banali come fossero sublimi. In realtà la vera essenza di quel mondo, vacua e insulsa, traspare dietro tale ironica enfasi celebrativa e alle spalle della figura del precettore si delinea chiaramente quella del poeta, con il suo atteggiamento di ferma, sdegnata condanna.

La critica pariniana si avvale anche di altri strumenti, come ad esempio di un particolare trattamento del tempo e dello spazio. Innanzitutto non viene scelta una giornata particolare, che si segnali per qualche accadimento di rilievo, degno di essere ricordato, ma una giornata tipo, uguale a infinite altre, sufficiente per dare il senso di una vita vuota e banale. Inoltre il tempo in cui si collocano gli eventi è molto breve ma alla lettura si ha l'impressione di un tempo lunghissimo; tale effetto è creato dall'indugio che dilata a dismisura il tempo reale, in cui si ripetono meccanicamente gesti e parole. La noia, dunque, è uno dei temi centrali dell'opera. Stesso effetto si ottiene con lo spazio, ristretto, chiuso, in cui si ha l'impressione di una chiusura asfittica e insieme al tempo rende l'idea di un mondo morto, privo di energia vitale.




La vergine cuccia: la tenera cagnolina della dama di cui il 'Giovin Signore' è cicisbèo. Questa cagnetta conta di più delle persone al servizio del palazzo nobiliare. L'episodio è uno dei momenti poetici più significativi, alti e commossi del 'Giorno'. Dapprima l'episodio è narrato nel modo in cui apparve alla dama, poi subentra, con tono sempre più fermo, il poeta con la sua ironia che ben presto trapassa, in un crescendo poetico sempre più intenso, nel sarcasmo, nello sdegno e nella indignazione morale: è questo il momento culminante della tensione morale e ugualitaria del 'Giorno'. L'episodio è introdotto durante il banchetto della dama dal vegetariano che superficialmente della cultura illuministica accoglie solo la pietà per gli animali e non quella per 'i bisogni e le piaghe' degli uomini. La commiserazione del vegetariano per le povere bestie, vittime dell'ingordigia umana, desta così nella dama il ricordo della sua tenera cagnolina, la quale, colpita dal piede 'sacrilego' del servo, che essa aveva morsicato con i suoi candidi dentini d'avorio, fu severamente vendicata dalla sua padrona che cacciò "l'empio servo', il quale, non trovò più casa nobiliare che lo assumesse, e fu così costretto, con la moglie e i figli, a chiedere per la strada l'elemosina.


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