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Nato in Versilia, a Valdicastello, frazione di Pietrasanta (Lucca), il 27 luglio del 1835 da Michele, che esercitava la professione di medico, e Ildegonda Celli, figlia di un orafo fiorentino. In seguito a una serie di disavventure politiche, il padre fu costretto a girovagare per vari paesi della Versilia e della Maremma toscana, finché, in seguito alle rivoluzioni del 1848-49, venne definitivamente licenziato e, dopo la restaurazione austro-granducale, costretto a riparare a Firenze. Ovviamente il giovane Giosuè cominciò assai presto a maturare idee repubblicane e rivoluzionarie. Nel 1848, appena tredicenne, assisté col padre al discorso di Giuseppe Montanelli sulla Costituente che segnò a Livorno l'inizio della rivoluzione democratica toscana.
Ma Michele con il ritorno del granduca di Toscana, Leopoldo II(1849), nella provincia, si sentiva isolato per le sue idee mazziniane e quindi si trasferì a Firenze. E Qui Giosuè compì i primi studi presso le scuole dei padri Scolopi di San Giovannino fino al 1852. Tra tutti gli insegnanti fu attratto particolarmente dal fisico Eugenio Barsanti e dal insegnante di retorica Geremia Barsotti che gli trasmise l'amore per Orazio e Fantoni. Ma già in precedenza egli aveva goduto dei benefici della biblioteca paterna nella fattispecie dei classici(Omero, Virgilio, Ovidio, oltre al poeta di Venosa) e Alfieri, Leopardi, Foscolo ma non disdegnando Giovanni Berchet, mostrava avversione per il Manzoni. Nello stesso anno nacque «l'Accademia dei Filomusi» di cui cofondatori furono Nencioni e Gargani. É il caro padre Barsotti a consigliargli un concorso per un posto gratuito di convittore presso la Regia Scuola Normale di Pisa(1853)che poi vinse. Il tipo di insegnamento antiquato, lo colpisce in senso negativo ma nonostante ciò si laurea in filosofia e filologia con una tesi sul poema cavalleresco, nel 1855 a soli vent'anni! É dell'anno seguente, il primo incarico operativo, è professore di retorica presso una scuola di San Miniato al Tedesco(Pisa). Proprio in questo ambiente nacque il gruppo degli «Amici Pedanti» che vide tra le sue fila i già citati Nencioni e Gargani ma anche il Chiarini e che rivendicava la virtus e vis classica contro i sentimentalismi della seconda generazione romantica. Sono anni travagliati e dolorosi quelli che seguono. Pubblicò presso il Ristori di San Miniato le Rime.
Subito dopo la laurea, Carducci viene nominato insegnante di retorica (lettere italiane) presso una scuola secondaria di San Miniato al Tedesco (vicino Pisa). Vi resta solo un anno, perché a causa di gravi debiti è costretto ad andarsene. Nel '57 vince la cattedra di greco nel ginnasio di Arezzo, ma la nomina non viene ratificata dalle autorità granducali che vedevano in lui un oppositore politico; inoltre perché era accusato di ateismo. Vive perciò modestamente, impartendo lezioni private e curando per un editore la pubblicazione di una collana di classici, fino al termine della IIa guerra d'Indipendenza, per la quale, pur non partecipandovi attivamente, nutriva forti simpatie.
Nel novembre dello stesso anno, il fratello
Dante si suicida, si dice, dopo un violento litigio col padre e il 15 agosto
muore suo padre Michele per malattia improvvisa. La sua condotta si fa alquanto
sospetta, tanto che deve cambiare ambiente e pur avendo vinto nel 1857 la
cattedra di greco al Ginnasio di Arezzo, le sue idee repubblicano-giacobine e
l'ateismo, dissuasero le autorità toscane a non assegnargliela. Allora visse
dai proventi di lezioni private e dalle «cento lire toscane per tomo» che
gli derivavano dalla direzione della collana «Diamante» presso l'editore
Barbèra. Dopo tanto patire, un evento felice rasserena l'animo rinfrancandolo,
infatti il 7 marzo del 1859 si sposa con la cugina Elvira Menicucci, il loro
amore era sbocciato molti anni prima. Adesso si apre una nuova stagione nella
vita di Giosuè, è nominato professore di latino e greco nel liceo di Pistoia.
Ma è nel 1860 che compie il salto di qualità ed è nominato dal Ministro della
Pubblica Istruzione, Terenzio Mamiami, professore di eloquenza (poi letteratura
italiana) all'Università di Bologna, aveva compiuto appena venticinque anni!!!
Egli respira l'aria pura dello studio bolognese e legge oltre a Mazzini,
scrittori e poeti come Hugo, Goethe, Von Platen, Shelly, Tierry, Bèrenger,
Barbier, Quinet, Michelet, Teine, Blanc. Nel 1863 pubblica le Stanze,
l'Orfeo, le Rime di Angelo Ambrogini (al secolo Poliziano)
e due anni dopo pubblica l' Inno a Satana che suscitò un vespaio di polemiche.
L'inno forgiato dall'innato anticlericalismo carducciano, contrapponeva la
cultura illumunistica, della rivoluzione, del progresso scientifico al Sillabo
di Pio XI.
Il nuovo Ministro della Pubblica Istruzione Broglio (di ispirazione manzoniana)
lo trasferisce d'ufficio, all'Università di Napoli, siamo nel 1868, ma egli non
si piega al provvedimento che sa tanto di epurazione ideologica. Ha scagliato e
continua a scagliare infatti, numerosi strali contro la mediocrità della classe
politica italiana che non aveva saputo conseguire un unità completa e che aveva
inibito ed emarginato, nella persona del re, Giuseppe Garibaldi. Tuona in opere
come Sicilia e rivoluzione, Dopo Aspromonte, Per il quinto
anniversario della battaglia di Mentana. Ma la raccolta che incarna la
denuncia, l'attacco è proprio Giambi ed Epodi(1867-69).
Pubblica a Pistoia nel 1868 la raccolta Levia gravia e ripubblica un
anno dopo l'Inno a Satana approfittando della concomitanza col Concilio
Ecumenico.
Le sue idee avverse alla politica governativa gli valsero la sospensione
dell'attività e dello stipendio per tre mesi.
Una svolta nella sua vita fu segnata dagli avvenimenti degli anni 1870-71: morte della madre e del figlioletto Dante (1870), da questo avvenimento luttuoso, nasce la struggente «elegia» Pianto antico. L'anno successivo inizio della relazione (1871) con Carolina Cristofori Piva (la Lidia o Lina della sua poesia). Sul piano professionale la sua vita di intellettuale coincide con la sua produzione poetica, con le sue ricerche critiche e filologiche, con la sue battaglie politico-letterarie. Il Carducci è uno dei pochi poeti italiani (l'altro è D'Annunzio) che con i suoi scritti e suoi comportamenti influenzerà notevolmente gli intellettuali della nazione. Famosissimo fu il suo Inno a Satana (1863) col quale egli esalta, in contrapposizione al Sillabo di Pio IX, la cultura illuministico-giacobina, la Rivoluzione francese e il progresso scientifico. A Bologna le sue lezioni attrassero un gran numero di studenti: le odi Sicilia e rivoluzione e Dopo Aspromonte furono particolarmente apprezzate.
Ma la sua attività si esplica anche in campo saggistico e filologico nell'opera Studi letterari e poi nel 1876 in Bozzetti critici e discorsi letterari. E dal 1875 si lega a Zanichelli per cui curerà molte edizioni delle sue opere. Nel 1877 ammira le vestigia dell'Urbe in compagnia di Lalage e nello stesso periodo presso lo Zanichelli esce la prima edizione delle Odi barbare, ma l'instancabile viaggiatore fa visita a Venezia e Trieste.
Nel 1878, in occasione della visita all'Università di Bologna da parte dei sovrani Umberto I e Margherita di Savoia, da poco saliti al trono, egli, colpito dal fascino di lei, compose l'ode Alla regina d'Italia, che suscitò notevoli polemiche e gli costò l'accusa, da parte di vecchi amici della sinistra, di aver abbandonato i suoi ideali 'giacobini' e repubblicani per rendere omaggio alla monarchia. Tuttavia, nell'82 fu a capo delle proteste per la condanna a morte di Guglielmo Oberdan, che aveva organizzato un attentato, poi fallito, contro l'imperatore Francesco Giuseppe, che aveva alleato l'Austria con l'Italia e la Germania contro Inghilterra, Francia e Russia.
Segue una edizione delle Nuove odi barbare presso lo Zanichelli(1882). L'ultimo anelito giacobino-repubblicano è rappresentato dalla raccolta di sonetti Ça ira, rievocazione della rivoluzione francese presso il Sommaruga(1883). Guai fisici lo debilitano infatti ha una paresi al braccio destro ma nonostante ciò, continua la sua fervente attività. Scrive un saggio in onore del Prati e sul Parini principiante, nel 1886 è nominato Accademico della Crusca. Nel 1887 tiene una prolusione su Dante all'università di Roma ed è sempre lui, un anno dopo, a celebrare l'ottocentenario dell'università di Bologna.
Nel 1890 viene nominato senatore. In questo periodo assume atteggiamenti nazionalistici che lo portano ad aderire completamente alla politica colonialistica africana del Crispi. Inoltre, ebbe sempre sentimenti irredentistici, con i quali rivendicava la liberazione di Trento-Trieste, Trentino e Venezia Giulia dagli austriaci. Nel 1896 il Comune di Bologna gli conferisce la cittadinanza onoraria. Per quanto riguarda il suo atteggiamento verso la religione, in questi anni, pur non rinnegando il proprio laicismo, egli tende a rivalutare il cattolicesimo sul piano storico. Nel 1904 deve lasciare l'insegnamento a causa della grave malattia nervosa e il Parlamento gli vota una pensione annua di 12 mila lire (come per il Manzoni), con una motivazione che lo definiva 'il glorioso poeta dell'Italia rigenerata'. Nel 1906 ottiene a Stoccolma il premio Nobel per la letteratura: è il primo tra gli scrittori italiani. Muore a Bologna di polmonite nel 1907.
Ideologia e poetica
La sua formazione intellettuale, in un primo momento, si basa sullo studio dei classici greci e latini, di cui si serve per criticare i tardo-romantici (Prati, Aleardi, ecc.), considerati troppo vuoti e sentimentali. I versi di Juvenilia (1850-60) sono improntati a un intransigente classicismo.
Quando si dedica allo studio della moderna letteratura italiana, esalta Alfieri e Foscolo, lasciandosi altresì influenzare dal francese Victor Hugo e dal tedesco Enrico Heine, scrittori che univano letteratura e politica progressista. Ora il Carducci può criticare il Romanticismo abbandonando l'imitazione dei modelli classici. I versi di Levia Gravia (1861-71) attestano una maggiore consapevolezza artistica.
La sua raccolta di poesie più importanti, culminata con la violenta reazione del poeta alle delusioni politiche degli anni 1867-72, è Giambi ed epòdi (1867-79), di cui era un'anticipazione l'Inno a Satana (1863). Essa (il cui nome deriva dall'antica forma metrica dell'invettiva greca, poi ripresa dalla satira latina) esprime uno stato d'animo risentito, sarcastico, satirico, con l'intento esplicito di voler persuadere il lettore che il nuovo Stato ha tradito le aspettative di coloro che l'avevano realizzato: quello Stato che, per reggersi in piedi, era dovuto scendere a compromessi con la Prussia e l'Austria. Particolarmente violenta è la polemica contro il papato. Carducci in sostanza vagheggiava una società di liberi ed uguali, disposta a concedere pochi poteri allo Stato, basata sull'ideologia populistica della piccola-borghesia radicale. Non a caso ammirava profondamente l'età Comunale.
Secondo il Carducci di questo periodo, il poeta deve essere un uomo impegnato politicamente, moralmente responsabile delle sue azioni ('poeta-vate'). Egli manifesta chiaramente il suo forte patriottismo, che, anche se a volte cade nella retorica, è pur sempre sincero e leale.
Relativamente alla sua concezione della natura (in parte mutuata dal Positivismo) va detto:
ragione e scienza devono servire per comprendere la natura che è dominata da leggi fisiche;
il sentimento della natura è la forza primordiale alla quale l'uomo tende ad abbandonarsi con gioia e sicurezza: il sentimento della perennità della vita cosmica e della trasformazione delle cose lo conforta. Il rapporto con la natura generalmente viene posto all'inizio di ogni sua poesia.
Oltre a ciò va sottolineato il suo forte amore per la poesia, specie per quella civile, che è senz'altro la più difficile da trattare sul piano stilistico, tanto è vero che i Giambi ed epòdi sono in gran parte estranei alla poesia. Sempre netta comunque è stata la sua avversione per il romanzo, ritenuto incapace di esprimere elevati valori artistici.
Negli anni più maturi, spenta la polemica giacobina, il Carducci perfeziona il suo stile (Rime nuove e Odi barbare) ma si involve sul piano ideologico-politico, assumendo atteggiamenti conservatori. Ora non ha più dubbi nell'appoggiare la monarchia costituzionale e il moderatismo borghese. Sul piano poetico affiorano i temi dell'evocazione del paesaggio maremmano, la virile malinconia, l'accorata nostalgia della passata grandezza.
Espressione più significativa di questo periodo le Rime nuove (1861-87) e le Odi barbare (1877-89).
Nella prima delle due raccolte sono svolti alcuni dei temi fondamentali della sua lirica, come il canto delle memorie autobiografiche (vedi p.es. le grandi poesie dedicate al figlio morto e ai ricordi maremmani) e il vagheggiamento delle grandi memorie storiche (in questa direzione è notevole soprattutto il ciclo dedicato all'esaltazione della civiltà italiana nell'età dei Comuni).
Nell'altra raccolta, le Odi barbare, nuovi temi si accostano a quelli ricordati, come il mito della romanità, il senso religioso di una misteriosa presenza superiore (Canto di marzo, La madre) e infine i versi in cui a una realtà precisa e solare si affianca il mistero e l'imponderabile che a questa realtà è sempre congiunto (Mors, Nevicata, Alla stazione in una mattina d'autunno). In queste raccolte, un po' decadenti, l'esigenza di perfezione formale e l'esotica nostalgia dell'Ellade sono state paragonate a identici atteggiamenti dei poeti parnassiani francesi. Già comunque nelle ultime Odi barbare e poi in Rime e ritmi (1898) si era esaurita la migliore ispirazione carducciana e prevalevano l'evocazione erudita, il paesaggio oleografico, l'eloquenza deteriore.
Nel mentre egli si ripropone di ricostituire, nella lingua italiana, i ritmi poetici della lingua latina, i temi diventano quelli della nostalgia dell'infanzia, degli affetti familiari, dell'idea secondo cui i figli pagano le colpe (politiche) dei padri, dell'amore come sensualità anche se dominato dalla ragione, della morte accettata con tristezza virile, della esaltazione della natura e della storia (quest'ultima rivissuta trasferendo gli ideali del presente nel passato, cioè in quelle epoche in cui forte era stato l'eroismo umano, il coraggio di cambiare le cose, la creatività: Roma, il Comune, la Rivoluzione francese e il Risorgimento).
Educato alla scuola di Sainte-Beuve, Carducci ha lasciato scritti critici e contributi eruditi importanti (specie di filologia) su Petrarca, Poliziano, Parini, Leopardi, ma anche su scrittori minori. Egli era profondamente ostile a De Sanctis e allo storicismo napoletano. Si deve infine ricordare che, accanto alla sua attività di poeta e di studioso, egli fu insegnante di valore, tanto che alla sua scuola si sono formati uomini come G. Pascoli, S. Ferrari e, più tardi, A. Panzini e M. Valgimigli.
Nell'organizzazione delle sue opere Carducci segue criteri tematici più che cronologici.
Juvenilia
Levia Gravia
Giambi ed Epodi
Rime Nuove
Odi Barbare
Rime e Ritmi
In prosa è autore di scritti autobiografici e polemici, raccolti in due sezioni:
Confezioni e Battaglie.
L'Epistolario è un documento biografico, psicologico e stilistico di grande interesse.
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