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Giacomo Leopardi
Le ricordanze
Furono composte, secondo la testimonianza dell'autore, dal 26 agosto al 12 settembre 1829.
Il poeta, tornato da parecchi mesi a Recanati (vi era giunto alla fine del novembre 1828 e, appena arrivato il 28 di quel mese aveva scritto al Brighenti: «Qui starò non so quanto, forse per sempre», Lettere, p. 887; e nello stesso giorno al Rosini le medesime parole con questa aggiunta: «Fo conto di aver terminato il corso della mia vita», ivi, p. 888), ha ritrovato e se ne stupisce, le abitudini di un giorno, il conforto del colloquio con gli astri e con sé medesimo, della contemplazione dell'infinita natura e del proprio passato.
Vaghe stelle dell'Orsa , io non credea
Tornare ancor per uso[3] a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole[4]
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne[6]! allora
Che[7], tacito, seduto in verde zolla ,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna !
Sarà necessario intanto guardarsi dal considerare questo rifiorire delle ricordanze come un semplice ritorno alla situazione dei primi idilli: allora il rifugiarsi nell'infinito dell'immaginazione e nella rimembranza dolce dei sentimenti dell'infanzia e dell'adolescenza era un modo di ricreare, sia pure momentaneamente, la felicità di un mondo primitivo non offuscato ancora dalla presenza del vero, il mito dell'antichità con le sue grandi illusioni e le sue feconde passioni ancora intatte e operanti: era insomma qualcosa che era ancora presente e attivo nella sua esperienza, accanto e a compenso del riconosciuto disinganno. Ora invece quella materia di impressioni e di affetti, di fantasie e di sogni, è veramente un passato, rifiorisce distanziata nella memoria, e perciò tanto più limpida e analizzata in ogni suo lineamento come in una visione specolare, ma sempre accompagnata dalla ferma coscienza della sua irrimediabile vanità.
Giovanni Pascoli
X Agosto
Myricae
Pubblicata sulla rivista fiorentina "Il Marzocco" nell'agosto del 1896, alla vigilia del ventinovesimo anniversario della tragica morte del padre di Pascoli, la lirica intende ricordare quella morte come tragedia degli affetti familiari e irrimediabile lacerazione del nido. La poesia è stata poi inserita nella quarta edizione di Myricae (1897, nella sezione Elegie).
SCHEMA METRICO: sei quartine a rime alternate di decasillabi e novenari.
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stell e per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
La struttura delle sei quartine è apparentemente semplice: la prima e l'ultime strofa, legate tra loro da un movimento che potremmo definire circolare, hanno come tema centrale le "lacrime luminose" (cioè le stelle cadenti), il pianto del cielo. Il parallelismo istituito tra nido e casa, tra rondine abbattuta e uomo assassinato, consente al poeta di collocare il proprio lutto privato all'interno di una vicenda di dolore e di male universale, tale da rendere opaca la Terra e far piangere il cielo.
Negli ultimi due versi della lirica ricompare una costruzione di tipo colloquiale (come già nella prima strofa). A essere "inondata" dal pianto di stelle (il verbo "inondare" rimanda all'acqua di cui sono costituite le lacrime umane) è la Terra, definita atomo opaco del Male, con l'iniziale maiuscola. La parola atomo suggerisce la piccolezza e l'insignificanza del nostro pianeta mentre opaco a livello denotativo rimanda alla sua natura di pianeta che non brilla di luce propria. L'aggettivo ha tuttavia una forte valenza etica: quello che oscura la Terra rendendola opaca è il Male, la cattiveria e la violenza degli uomini, che colpiscono gli innocenti, si abbattono sugli indifesi con una ferocia che pare ottenebrare ogni possibilità di luce e di riscatto.
Il gelsomino notturno
Canti di Castelvecchio
Pascoli compone la poesia per il matrimonio dell'amico Gabriele Briganti e la pubblica per la prima volta nel 1901nell'opuscolo dedicato alle nozze. La inserisce poi nella prima edizione dei Canti di Castelvecchio (1903), con l'aggiunta di una nota che chiarisce il tessuto simbolico della lirica: «E a me pensi Gabriele Briganti risentendo l'odor del fiore che olezza nell'ombra e nel silenzio: l'odore del Gelsomino notturno. In quelle ore sbocciò un fiorellino che unisce (secondo l'intenzione sua) al nome d'un dio e di un angelo quello di un povero uomo: voglio dire, gli nacque Dante Gabriele Giovanni». È evidente perciò che la poesia - una sorta di moderno epitalamio, componimento che nell'antichità era riservato alla celebrazione degli sponsali - evoca, attraverso il simbolismo floreale, la prima notte di nozze dei due sposi, in cui è stato concepito il piccolo («sbocciò un fiorellino») al quale saranno dati i nomi di Dante (come il sommo poeta, considerato appunto divino), dell'arcangelo Gabriele e di Giovanni, come Pascoli (ma l'omaggio di Briganti è rivolto sicuramente anche al poeta e pittore preraffaellita Dante Gabriel Rossetti). Anche in questa lirica il titolo è essenziale per la comprensione del testo: il nome del fiore, infatti, non ricorre mai nei versi.
SCHEMA METRICO: sei quartine di novenari a rima alternata ABAB.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolio di stelle .
La mia sera
Canti di Castelvecchio, 1903
Il momento poeticamente più alto è costituito dalle prime due strofe, in cui l'attenzione del poeta è tutta rivolta alla rappresentazione della natura rasserenata, dopo un violento temporale che durante tutto il giorno ha sconvolto ogni cosa. Qui il poeta si perde in un'estatica comunione con la natura, con le sue voci, con la sua silenziosa attesa di un fiorire di stelle nel cielo. La lirica sviluppa una sofferta meditazione autobiografica sul significato dell'esistenza del poeta e la sera diventa la 'sua' sera, quella che è ormai la sera del vivere, quando finalmente Pascoli prova un senso di pace, dopo una vita di dolori e di privazioni. Questa pace ritrovata finisce per diventare, attraverso l'immagine del "nido", simbolo della sicurezza dovuta all'unità familiare, un ritorno all'infanzia e alle nenie con cui la madre lo cullava, come fa ora il suono delle campane.
SCHEMA METRICO: cinque strofe costituite ciascuna di sette novenari e di un senario, che si chiude sulla parola-chiave "sera". Le rime sono alternate: ABABCDCD.
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite[15] stelle. Nei campi
c'è un breve[16] gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire[17] le stelle
nel cielo sì tenero e vivo[18].
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
Le prime strofe radunano connotatori negativi (riferiti al giorno) e connotatori positivi (riferiti alla sera) legati tra loro da continui echi e corrispondenze. In riferimento alla sera, troviamo verranno le stelle all'indicativo futurocce esprime certezza nell'imminente tranquillità; le stelle sono dette tacite con un'aggettivazione preziosamente polisemica: tacite cioè "silenziose", perché vengono dopo gli scoppi dei tuoni, perché nel loro sopraggiungere non fanno rumore, perché la sera è il momento del silenzio in cui tacciono i rumori del giorno. Le stelle ricompaiono al primo verso della seconda strofa, questa volta non introdotte da un futuro, ma da un energico presente del verbo "dovere": Si devono aprire le stelle, dove l'infinito aprire suggerisce lo schiudersi della corolla di un fiore, un'immagine di delicatezza avvalorata dal successivo cielo. tenero e vivo, ancora due aggettivi raffinatissimi che alludono ai colori recuperati e tersi del cielo dopo il temporale.
BIBLIOGRAFIA:
Fubini (Le ricordanze)
Guglielmino (Le ricordanze)
Raimondi (X Agosto, Il gelsomino notturno, La mia sera)
Vaghe: belle e insieme indefinite, per la lontananza, come in un sogno; «epiteto tipicamente leopardiano anche se l'espressione sia frequentissima nei nostri classici» (Puppo).
Della rana. alla campagna: della rana che gracida per la campagna, lontana; rimota è aggettivo tipicamente leopardiano per la carica di indeterminatezza e per la connotazione di assenza e di irraggiungibile: la sua centralità risalta dalla posizione del verso.
tanto di stelle: "così tante stelle" costruzione alla latina con il genitivo partitivo in dipendenza da un neutro. Nella notte di San Lorenzo il cielo è attraversato da brillanti stelle cadenti.
quest'atomo opaco del Male: il poeta definisce la Terra un minuscolo pianeta opaco sia perché non illuminato da luce propria, sia perché oscurato dal Male, dalla violenza che colpisce uomini e animali.
La Chioccetta. stelle: è Pascoli stesso che annota «i contadini chiamano Chioccetta la costellazione delle Pleiadi»; di conseguenza il cielo diviene l'aia azzurra in cui razzola la gallinella e le altre stelle divengono pulcini che pigolano dietro la chioccia.
tacite: il termine esprime la suggestione del cielo stellato e suggerisce il senso di una pace luminosa e immobile, ma evidenzia anche il contrasto tra il fragore della tempesta e la pace della sera.
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