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Giacomo Leopardi, A se stesso (dai Canti)
analisi del testo
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l'infinita vanità del tutto.
Adesso riposerai per sempre,
mio cuore stanco. L'illusione estrema,
che io credevo essere eterna, è morta. Morì. Mi accorgo,
che in noi è spento sia il desiderio che la speranza
dalle dolci illusioni.
Riposa per sempre. Hai palpitato
abbastanza. Le tue emozioni sono inutili, e la terra
non è degna di sospiri. La vita non è mai stata
nulla di diverso da amarezza e noia; e il mondo è fango.
Infine calmati. Non sperare
Mai più. L'unica cosa che il destino donò
al genere umano è la morte. Infine disprezza
te stesso, la natura, il patrigno potere
che di nascosto governa tutto per il male di tutti,
e la vanità infinita del mondo.
"Disprezzo, non più speme dopo la calma".
Nel componimento sono utilizzati settenari ed endecasillabi. La poesia può essere suddivisa in due strofe da cinque versi e una sestina. All'interno di esse i versi sono disposti secondo lo schema: un settenario, due endecasillabi, un settenario, un endecasillabo. La sestina segue questo schema e termina con un settenario.
La poesia è composta prevalentemente da periodi brevi, fatta eccezione per l'ultimo, che è di media lunghezza. Nei periodi si possono riconoscere proposizioni principali e subordinate.
Nel componimento predominano le parti nelle quali viene utilizzato un lessico che infonde tristezza e mancanza di speranza e le parti nelle quali è espresso pessimismo. Per quanto riguarda il rapporto tra aggettivo e sostantivo, l'aggettivo precede quasi sempre il sostantivo, fatta eccezione per il verso 2, nel quale è il sostantivo a precedere l'aggettivo.
Il lessico utilizzato negli Idilli è altrettanto complesso ma molto meno negativo: leggendo gli Idilli il lettore si sente pervaso da un sentimento di calma perpetua, leggermente velata di tristezza, data dall'idea di solitudine espressa nell'opera. Leggendo "A se stesso" invece, i sentimenti prevalenti sono la tristezza e la depressione. C'è un timido tentativo di infondere calma (verso 11), ma non sortisce l'effetto sperato. Un'ulteriore differenza riguarda l'uso degli "indefiniti" (termini che indicano ampi concetti, definendoli in generale, permettendo così al lettore di figurarseli quasi a suo piacimento): negli Idilli ne viene fatto largo uso, mentre in questo componimento il lessico risulta essere secco, astratto, impersonale, e non lascia quella possibilità di immaginazione permessa dall'uso degli "indefiniti".
Nella poesia sono presenti ben otto enjambements (versi 6, 7, 8, 9, 11, 12, 13, 14), che spezzano notevolmente il ritmo del componimento. Sono presenti una metafora (verso 10:"fango è il mondo") e una sinestesia (verso 9: "amaro e noia"), la prima che dona al mondo un'accezione negativa ("il mondo è fango" sta a significare che il mondo è instabile, sporco; il mondo assume le caratteristiche proprie del fango e quindi è anche quasi indefinibile, considerando la caratteristica del fango di non essere né terra né acqua), la seconda, associando due concetti appartenenti a due sfere sensoriali diverse, rende la noiosità della vita palpabile, gustabile, permettendo al lettore di sentire veramente l'amarezza della vita, di assaporarla. Sono presenti inoltre varie figure retoriche morfologiche, quali l'allitterazione (accostamento di parole che cominciano con l stesso suono), individuabile nei versi 1, 2, 3, 5, 6 (poserai per sempre, stanco, perì, perì, sento, speme, spento, posa, per sempre), e la consonanza (parole con suoni consonantici simili), individuabile nei versi 1, 2, 5, 6, 7, 8, 11, 12, 13 (sempre, estremo, sempre, palpitasti, sospiri, dispera, nostro, disprezza).
Non mancano figure retoriche sintattiche: anàfora (viene ripetuta la stessa parola all'inizio dei versi o delle frasi, come il "Perì.Perì" dei versi 2 e 3) e anastrofe (il rovesciamento dell'ordine normale delle parole, come lo "stanco mio cor" del verso 2, i "i moti tuoi" del verso 8, e l'"infinita vanità del tutto" del verso 16).
Questa poesia si inserisce perfettamente nel pessimismo cosmico leopardiano. Questo concetto, elaborato dal poeta negli anni della sua maturità, vede la natura come una matrigna, che ha donato agli esseri viventi l'esistenza per poi abbandonarli a se stessi, lasciando loro come unica certezza la morte. La natura è dunque vista con un'accezione estremamente negativa; essa infatti non si limita solo a rendere infelici gli esseri viventi non avendo cura di loro, bensì li illude, facendo loro credere che il piacere eterno e illimitato è alla loro portata. Leopardi sostiene che solo attraverso la ragione si può scorgere e sopportare la realtà: il piacere non è mai eterno perché, una volta soddisfatto, diventa fonte di altro dolore e la natura dà la vita per poi toglierla, facendo nel frattempo far credere ai viventi di poter vivere un'esistenza felice.
Il messaggio ideologico che il poeta vuole trasmettere attraverso questa poesia è proprio quello sopraccitato; esso è esplicitamente espresso nella sestina che chiude il componimento: la natura matrigna (brutto poter) ci illude, quando in realtà "ascoso, a comun danno impera", ovvero progetta di farci del male togliendoci la vita che ci era stata precedentemente donata, per darla ai nostri posteri, ai quali, come noi, dopo averla ricevuta resterà l'unico dono del fato: il morire.
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