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Etica dell'impresa: egoismo con simpatia
La globalizzazione rende sempre più decisivo il rapporto fra aziende e territorio
Elementi nuovi caratterizzano oggi lo scenario imprenditoriale, sull'orizzonte del quale si collocano le questioni etiche trattate dall'avvocato Angelo Benessia e dal giurista Gustavo Zagrebelski in queste pagine. La rivoluzione apportata dalle nuove tecnologie ha informatizzato la struttura tecnologica delle imprese sia sotto gli aspetti amministrativi sia nell'ambito dei processi produttivi, elevando il grado di formazione e di cultura generale.
Il salto di qualità si deve registrare anche per la cultura d'impresa, ormai in grado di coinvolgere tutti i collaboratori, che vanno educati attraverso processi formativi tali da elevare la semplice formazione professionale per consentire un effettivo dominio di macchine sempre più 'intelligenti'. Si è superato così il taylorismo, che si basava sulla parcellizzazione spinta del lavoro e sulla necessità di un passivo asservimento del lavoratore rispetto agli ordini ricevuti su programmi che indicavano anche le modalità di svolgimento dei singoli compiti.
Oggi, invece, coloro che lavorano nelle imprese a quasi tutti i livelli, diventano protagonisti dell'organizzazione delle proprie attività grazie a una maggiore conoscenza dei fatti su cui operare e a una maggiore cultura individuale di base. L'impresa si è dunque trasformata, e da meccanicistica diviene organica o, per usare una metafora di Federico Bufera, studioso di questi problemi, da 'castello' si trasforma in 'rete'.
Si può allora proporre per l'attuale struttura dell'impresa produttiva una definizione che la interpreti in quanto rete di tecnologie guidate da una rete di individui nel ruolo di knowledge worker capaci di operare come 'imprenditori di se stessi' e di coordinare una rete di imprese di indotto che nel loro insieme determinano una vera e propria 'macroimpresa'.
La definizione fra l'altro consente di collegare il singolo individuo all'individualità di secondo livello costituita dall'impresa, trasferendo i valori individuali alla dimensione imprenditoriale che assume perciò, di fatto, una valenza sociale. I valori che si affermano nel comportamento dell'individuo vengono quindi riproposti anche nell'impresa, che a sua volta deve rendersi interprete di un'etica sancita dalle norme della società civile. Si intrecciano perciò fini economici - certamente essenziali per la vita dell'impresa - comportamento morale e responsabilità sociali, indispensabili anche per salvaguardare il contesto ambientale interno ed esterno nel quale la realtà imprenditoriale opera.
Tutto parte dall'individuo, elemento-cellula essenziale di ogni costruzione sociale. È intorno all'individuo, difatti, che si ripropongono i temi della costruzione di una cultura in grado di condizionare la qualità dei comportamenti, dai quali poi emergeranno le posizioni etiche promotrici anche di ritorni economici in termini di efficacia e di efficienza, nonché di immagine e di considerazione nell'ambiente.
Problemi nuovi, che però sanno di antico: il citatissimo Adam Smith (1723-1790), nel suo Della ricchezza delle Nazioni (1776), descriveva un mondo dominato dall'egoismo, ma spesso si dimentica che quell'aspetto del pensiero del grande economista scozzese era costantemente temperato da una così detta 'simpatia' che egli riconosceva come innata negli esseri umani.
Smith aveva affrontato questo problema in un suo precedente libro, Teoria dei sentimenti morali (1752), nel quale cosi introduceva il concetto: 'Per quanto l'uomo possa essere supposto egoista, vi sono evidentemente alcuni principi nella sua natura che lo inducono a interessarsi della sorte altrui e gli rendono necessaria l'altrui felicità, sebbene egli non ne ricavi alcunché, eccetto il piacere di constatarla. La parola simpatia può essere usata, senza molte improprietà, per denotare il nostro sentimento di partecipazione per ogni passione, quale che sia'. Dunque, egoismo sì, ma temperato da 'simpatia', che oggi va rivisitata in particolare nel mondo delle imprese affinché possano essere orientate a riscoprire nuovi sistemi di responsabilità sociale e di comportamenti etici, in primo luogo rivolti verso lo scenario ambientale.
E ciò attivando anche meccanismi imitativi, capaci di instaurare una sorta di competitività virtuosa nel costruire comportamenti, a loro volta promotori di una immagine premiante sul mercato, con conseguenti ritorni diretti sotto forma di utilità economiche. Il discorso è tanto più importante se si considera il sempre maggiore radicamento dell'impresa sul territorio di propria pertinenza, pur in presenza di un processo di globalizzazione per il quale è necessario 'pensare globalmente agendo localmente'. In tal senso non va dimenticato che l'impresa, per la sua stessa esistenza, trae linfa vitale dall'assunzione costante di risorse umane proprio dal suo territorio.
È perciò indispensabile che queste vengano educate anche sotto gli aspetti etici, affinché riversino poi sull'ambiente di lavoro, ma anche in quello familiare, gli insegnamenti ricevuti così da contribuire alla costruzione di un mondo migliore. Ecco la necessità di una stretta connessione fra etica ed economia, che del resto è stata più volte teorizzata da tanti importanti pensatori.
Le fondamenta sulle quali deve basarsi questo nuovo modo di intendere l'impresa e le sue strategie di sopravvivenza, non possono prescindere da una riconsiderazione della cultura sia individuale sia di ambito imprenditoriale, una cultura in grado di esprimersi attraverso il concetto di qualità come elemento che caratterizza i comportamenti e i processi gestionali. Una qualità davvero 'totale' e quindi alla perenne ricerca del meglio in termini non soltanto di efficienza e di efficacia economica, ma impegnata anche a perseguire comportamenti etici che dal singolo individuo si elevino fino a plasmare lo spirito d'impresa.
L'etica assume così valenza decisiva allo scopo di stimolare e garantire la continuazione a "valere nel tempo" di un'attività economica: la realizzazione della dimensione etica dell'impresa non va più considerata un fine subordinato e strumentale al conseguimento di uno scopo economico, o in termini procedurali e privatistici. Categorie come profitto, interesse aziendale e produzione di ricchezza, così debitamente qualificate, sono accolte a fondamento delle valutazioni economiche.
Una delle questioni
centrali che si pongono nell'etica dell'economia riguarda la massimizzazione
del profitto quale (unico) obbiettivo dell'agire d'impresa. Tale questione,
spesso formulata nei termini molto generali adesso utilizzati, ha in realtà
molteplici sfaccettature. Essa può essere specificata in diversi modi a seconda
delle risposte che si forniscono alle seguenti domande, ciascuna delle quali
implicherebbe una trattazione a sé:
- chi ritiene (o, al contrario, deplora) che obbiettivo dell'impresa debba
essere la massimizzazione del profitto fa riferimento al profitto di breve o al
profitto di lungo periodo? La questione è importante in quanto i comportamenti
corrispondenti all'uno o all'altro obbiettivo possono essere molto diversi;
- a che cosa ci si riferisce quando si afferma che l'obbiettivo dell'impresa
deve (o non deve) essere la massimizzazione del profitto? Ai comportamenti dei
manager, ai comportamenti dei lavoratori, alle deliberazioni degli azionisti,
alle norme stabilite dai regolatori?
- quali altri obbiettivi dovrebbero eventualmente aggiungersi - e con quali
pesi - all'obbiettivo della massimizzazione del profitto?
Il problema che consideriamo in questa occasione è limitato alla questione seguente:
debbono i manager conformare la loro azione all'obbiettivo della
massimizzazione del profitto di lungo periodo nel rispetto, ovviamente, delle
norme vigenti? Affronteremo il problema non con un approccio puramente
"deontologico", vale a dire attribuendo rilievo solo all'azione in sé, ma in
una logica "consequenzialista", considerando cioè le conseguenze dei
comportamenti.
Un primo approccio al problema, più "classico" (più esattamente "neoclassico"),
ma attualmente minoritario, ritiene eticamente valido l'obbiettivo della
massimizzazione del profitto sulla base del cosiddetto "teorema fondamentale
dell'economia del benessere". Tale teorema dimostra come, in un sistema di
concorrenza perfetta e sotto certe condizioni, tra le quali segnaliamo l'assenza
di esternalità (di cui parleremo più avanti), se ciascuna impresa persegue
l'obbiettivo della massimizzazione del profitto si realizza uno stato di
"ottimo paretiano", intendendo con questo termine una situazione in cui ciascun
individuo raggiunge il massimo di benessere compatibile con il benessere degli
altri individui (in altri termini: una situazione nella quale non è possibile
ulteriormente aumentare il benessere di un individuo senza ridurre il benessere
di un altro individuo). In questo senso la massimizzazione del profitto risulta
attraente non solo nell'interesse della proprietà dell'impresa in questione ma
per l'intera collettività. Molti autori ritengono (forse in modo non del tutto
corretto) che anticipasse in qualche modo il teorema in questione la nota
argomentazione di Adamo Smith (1776): "Non è dalla benevolenza del macellaio,
del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla
considerazione che questi hanno per il proprio interesse personale. Non ci
rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e ad essi parliamo dei loro
vantaggi e non delle nostre necessità".
L'utilizzo del "teorema fondamentale dell'economia del benessere" quale
elemento fondante dell'obbiettivo della massimizzazione del profitto presenta
però (almeno) tre importanti aree di criticità. Una prima criticità dipende dal
fatto che nella realtà i mercati si allontanano dalla concorrenza perfetta. In
questa situazione (mercati oligopolistici o monopolistici) la massimizzazione
del profitto non dà luogo ad esiti di ottimalità paretiana. In secondo luogo va
tenuto presente che frequentemente sussistono esternalità (positive o
negative). Si pensi ad una attività inquinante: in questo caso il profitto
d'impresa non rappresenta una misura del contributo che l'attività fornisce
alla collettività (anche) perché è "al lordo" di un danno che non è
contabilizzato tra i costi dell'impresa. In queste situazioni comportamenti
tesi alla massimizzazione del profitto possono dar luogo a condizioni di
(secondo) ottimo solamente sotto una serie di condizioni ulteriormente
restrittive. In terzo luogo va sottoposto a scrutinio il concetto stesso di
ottimalità paretiana (raggiungibile attraverso la massimizzazione dei
profitti): esso riguarda solo uno stato di efficienza produttiva e non di
desiderabilità sotto l'aspetto distributivo in quanto esclude ogni discussione
- n realtà eticamente rilevante - sul grado di disuguaglianza presente nella
società. Uno stato di ottimo paretiano è compatibile con la presenza di un
grado di disuguaglianza anche elevatissimo e situazioni di povertà anche
diffuse e profonde.
Una diversa giustificazione, più diretta, dell'obbiettivo della massimizzazione
del profitto si basa su una sorta di principio di "responsabilità": i manager
sono mandatari (diretti o indiretti) della proprietà e, in quanto tali, devono
perseguire esclusivamente gli interessi della proprietà, ovviamente nel
rispetto delle norme. Di di Di Posizione Questa non nega che nell'impresa siano
in gioco molti altri interessi, quali quelli dei lavoratori, dei creditori,
dell'ambiente circostante, stakeholders di altri di degli in generale. Tuttavia
argomenta che non compete ai manager perseguire la tutela di questi interessi:
essa spetta ai sindacati, al regolatore e così via. La dialettica tra soggetti
portatori di interessi diversi porterà ad esiti in qualche modo "di
equilibrio".
L'idea alternativa sotto quest'aspetto è, ovviamente, quella per la quale tutte
le rappresentanze hanno l'obbligo di farsi unitariamente carico di tutti gli
interessi in gioco. La preferenza per questo approccio (espressa ad esempio da
Sen, 1991) si basa su taluni risultati della teoria dei giochi per i quali le
strategie cooperative possono risultare più efficienti - nel perseguimento di
una pluralità di obbiettivi - rispetto a strategie di tipo non cooperativo
(anche se apre una serie di problemi connessi alla determinazione dei pesi da
attribuire a ciascun interesse nella funzione obbiettivo da massimizzare).
Nella pratica va però tenuto presente che i sistemi nei quali i mandatari non
sono portatori di specifici interessi di parte presentano una forte
attenuazione della possibilità di monitoraggio dei singoli comportamenti,
monitoraggio che l'esperienza mostra essere cruciale anche per la garanzia di
standard etici adeguati. A nostro avviso occorre quindi chiedersi se l'assenza
di uno specifico mandato a difendere gli interessi di parte sia effettivamente
eticamente superiore, così come potrebbe presumersi in prima approssimazione, o
se non sia necessario, prima di pronunciarsi in tal senso, anche un esame delle
specifiche implicanze operative, nell'approccio di etica consequenzialista cui
abbiamo fatto riferimento all'inizio.
Una controprova "esemplificativa" alquanto impressionante delle esigenze di cautela
che occorre avere presente nel sostituire l'obbiettivo della massimizzazione
del profitto con obbiettivi di ordine più generale si ottiene rivisitando i più
importanti contributi scientifici a suo tempo prodotti sulle cause del
"successo giapponese" negli anni '80 (Morishima, 1982; Aoki 1985; Dore, 1989;
Sen, 1991). Tutti facevano risalire gran parte di tale successo all'approccio
di tipo cooperativo adottato nei processi decisionali aziendali, approccio
ritenuto al tempo stesso più efficiente ed eticamente superiore. "Si potrebbe
sostenere - scriveva Sen (1991) - che proprio il rifiuto della distinzione tra
azionisti e altri operatori coinvolti nell'attività dell'impresa, e l'adozione
di una visione più integrata dell'impresa come "grande famiglia" siano stati il
punto di forza dell'efficienza cooperativa che l'industria giapponese ha teso a
realizzare". Questa interpretazione sembra oggi doversi drammaticamente
capovolgere: la lunghissima crisi dell'economia giapponese appare in gran parte
attribuibile proprio a quei processi decisionali che, per l'essere di tipo
(formalmente) cooperativo, risultano meno controllabili e quindi più esposti a
rischi di degenerazione verso comportamenti collusivi al tempo stesso poco
efficienti ed eticamente negativi.
In conclusione a noi sembra che il problema della validità etica dei
comportamenti dei manager ispirati all'obbiettivo (esclusivo) della
massimizzazione del profitto appaia irrisolvibile sulla base di principi
generali. Non esistono elementi teorici robusti a sostegno dell'una o
dell'altra ipotesi. L'osservazione empirica, a sua volta, suggerisce a nostro
avviso - in un contesto di etica consequenziale - una risposta tendenzialmente
favorevole (contrariamente, forse, all'intuizione a priori), risposta peraltro
condizionata all'analisi dei risultati ottenibili caso per caso. La
"composizione" di tutti gli interessi che gravitano nell'impresa e attorno
all'impresa sembra quindi competere soprattutto al legislatore, che deve porsi
sia obbiettivi di efficienza del sistema produttivo in genere sia obbiettivi
distributivi (equità), nonché a codici di autoregolamentazione che, essendo
approvati ex ante da tutti gli operatori più importanti, danno una certa
garanzia di non essere distorsivi della concorrenza. Ci si consenta infine una
postilla finale. Gli scandali finanziari emersi negli ultimi anni (. da Enron
in poi) hanno suscitato un ampio dibattito sulla eticità dell'obbiettivo della
massimizzazione del profitto da parte dei manager. è nostra convinzione che
tale dibattito sia del tutto incongruo rispetto agli eventi considerati
giacché, in generale, i comportamenti devianti dei manager non derivavano dal
perseguimento esasperato del profitto d'impresa ma, al contrario, dal
tradimento di tale obbiettivo a favore dell'interesse strettamente personale.
Etica nell'impresa
e Kant La reazione a tale confusione spinge a riconsiderare la filosofia di Kant e si inquadra con un'esigenza di rientrare in una norma tranquillizzante, ad un insieme di regole morali e pratiche che sostituiscano l'andazzo precedente che portava ad agire in assenza di riferimenti e che è andato in crisi. E così si sente parlare di Etica per l'impresa che si ispira proprio a Kant. Le aziende, si riscopre, sono fatte di capitali mezzi e uomini (Kant:[gli uomini], 'i quali vanno considerati dei fini e non solo dei mezzì) |
Cosa sosteneva Kant: Si diventa cittadini smettendo di essere sudditi, riconoscendo: PRIMO: tanto maggiori i guadagni, tanto maggiori i doveri nei confronti della collettività SECONDO: espulsione per chi si sottrae alle proprie responsabilità TERZO: punizione per chi maltratta i propri inferiori QUARTO: tassazione equa e fondo di assistenza per coloro che hanno subito incidenti sul lavoro |
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Etica
significa 'farsi carico' e quindi c'è la necessità di un gruppo
dirigente di un'impresa che fa le regole ma a cui sottosta (termine
anglosassone: ruling class). Tale esigenza è stata abbastanza disattesa in
tempi recenti.
C'è, allora, la possibilità per un'impresa di 'certificare' il proprio comportamento etico. Esiste uno standard di riferimento. Questo nuovo standard internazionale di certificazione che riguarda:
L'Italia è lo stato che ha il maggior numero di aziende certificate SA8000 grazie a società come la COOP che pretende tale certificazione dai fornitori e alle aziende municipalizzate regionali che fanno altrettanto. Questa norma non nasce nello stesso modo in cui si sono sviluppate le certificazioni tecniche (es. ISO 9000), cioè da parametri stabiliti da comitati di esperti nazionali di un settore specialistico che formalizzano tali scelte in norme da far condividere a livello nazionale ed internazionale percorrendo un lungo ciclo che si allarga dall'Europa (EN) fino al mondo (ISO). SA 8000 nasce dal CEPAA (Council of Economical Priorities Accreditation Agency, www.cepaa.org), emanazione del CEP (Council of Economic Priorities), istituto statunitense fondato nel 1969 per fornire agli investitori ed ai consumatori strumenti informativi per analizzare le performance sociali delle aziende. |
L'impresa etica
L'impresa medio/grande dovrebbe dunque dotarsi di un codice etico e di un
bilancio sociale.
Dalla missione aziendale si possono diramare due attività concomitanti, una più
generale rivolta al controllo delle politiche d'impresa (il Bilancio Sociale),
l'altra ai comportamenti individuali (il Codice Etico).
Può definirsi come la 'Carta Costituzionale' dell'impresa, una carta dei diritti e doveri morali che definisce la responsabilità etico-sociale di ogni partecipante all'organizzazione imprenditoriale.
È un mezzo efficace a disposizione delle imprese per prevenire comportamenti irresponsabili o illeciti da parte di chi opera in nome e per conto dell'azienda, perché introduce una definizione chiara ed esplicita delle responsabilità etiche e sociali dei propri dirigenti, quadri, dipendenti e spesso anche fornitori verso i diversi gruppi di stakeholder.
Esso è il principale strumento di implementazione dell'etica all'interno dell'azienda.
Il Codice Etico è divenuto uno strumento per lo stakeholder manager, un mezzo che garantisce la gestione equa ed efficace delle transazioni e delle relazioni umane, che sostiene la reputazione dell'impresa, in modo da creare fiducia verso l'esterno.
La diffusione di tali documenti, sia pure di struttura e contenuto assai diversi tra loro, si è andata ad accrescere nel corso degli anni.
La struttura del Codice Etico può variare da impresa ad impresa, ma generalmente viene sviluppato su quattro livelli:
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I principi etici generali che raccolgono la missione imprenditoriale ed il modo più corretto di realizzarla; |
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Le norme etiche per le relazioni dell'impresa con i vari stakeholder (consumatori, fornitori, dipendenti, etc.); |
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Gli standard etici di comportamento:
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Le sanzioni interne per la violazione delle norme del Codice |
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Gli strumenti di attuazione. L'attuazione dei principi contenuti nel Codice Etico è affidata di solito ad un Comitato etico. Ad esso è affidato il compito di diffondere la conoscenza e la comprensione del Codice in azienda, monitorare l'effettiva attivazione dei principi contenuti nel documento, ricevere segnalazioni in merito alle violazioni, intraprendere indagini e comminare sanzioni. |
Il dialogo e la partecipazione sono
indispensabili per far condividere a tutto il personale i valori presenti in
questo importante documento.
L'impegno etico e sociale di un'impresa oltre ad essere testimoniato dal
proprio Codice etico e/o Bilancio sociale, può anche essere certificato.
Etica e impresa: un ossimoro? Una contraddizione in termini? Fortunatamente non è così, come dimostra questo volume. L'Europa dell'economia della conoscenza, della sfida competitiva fondata sulla qualità dello sviluppo esige comportamenti socialmente responsabili, scelte rispettose dei diritti dell'uomo, del lavoratore. La responsabilità sociale deve essere la scelta fondativa di un differente modo d'essere dell'impresa nella sua organizzazione interna e nelle sue relazioni con l'ambiente esterno: rispettare le leggi, applicare i contratti, esercitare corrette relazioni sindacali non basta. Un'impresa è socialmente responsabile quando propone, assume, contratta, concorda, progetta, costruisce, verifica partecipazione e valore
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