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DOMENICO REA
VITA
Domenico Rea è nato a Napoli nel giorno 8 Settembre 1921, ma dal 1924 è vissuto a Nocera Inferiore stabilmente almeno fino al 1943. A tredici anni, dopo aver conseguito la licenza complementare, Rea dovette interrompere gli studi in attesa di potersi arruolare nell'arma dei Reali Carabinieri dove aveva già militato il padre. Trascorsi altri due anni vissuti nella "felicità plebea" delle strade, delle campagne, dei villaggi e dei Paesi dell'Agro Nocerino, Rea si ammalò e durante la lunga convalescenza scoprì il piacere della letteratura. Imparò a memoria i vocaboli di un'edizione ridotta del Petrocchi e le parti del discorso sulla "Grammatica italiana" del Melga, alunno del Puoti. Abbandonate "le allegre compagnie di ventura dei ragazzi di strada", con cui rimase in profondi rapporti d'affetto, e conosciuto un giovane padre francescano, Angelo Iovino, appassionato di lettere e poeta in proprio, Rea poté porre le mani sui tesori contenuti nella biblioteca del convento di San Francesco a Piazza d'Armi di Nocera. A15 anni tentò i primi esperimenti letterari scrivendo, fra gli altri, un raccontino "E' nato un bimbo" (La scoperta di come realmente nasce, osservata da Rea, seguendo la madre levatrice), che inviò al direttore dell'"Omnibus", Leo Longanesi, ricevendone un incoraggiamento. Divenne amico di Pasquale Lamanna, professore d'italiano di licei di Nocera Inferiore, del professor Marco Levi Bianchini direttore degli Ospedali Psichiatrici, e di alcuni antifascisti, confinati a Nocera, tra cui lo scrittore Luigi Grosso, amico di Manzù e Sassa. Rea ebbe ben presto l'occasione di allargare l'arco delle sue letture, fino allora limitato allo studio dei nostri classici e di quelli stranieri. L'incontro con i confinati fu decisivo. Rea ebbe le prime notizie sul marxismo, e scopri la vera faccia del fascismo, mentre approfondiva le tematiche sulla pittura e la letteratura contemporanea, e anche sulla musica. Nel 1938 Rea aveva già letto l'"Ulisse" di Joyce in traduzione francese, Céline, Doeblin, aveva ricevuto notizie su Kafka e sugli scrittori sovietici e divorato tutti quelli italiani del Novecento, i prosatori, i romanzieri e i poeti, pervenendo ad un aggiornamento abbastanza completo. La provincia per Rea, grazie ad alcuni colpi di fortuna, non costituì quindi in alcun modo un ritardo. Nel 1939, assunto come redattore di bozze e poi come segretario di redazione del settimanale "Il popolo Fascista", Rea vi pubblicò una serie di prose ermetiche, fra cui un "Perimetro del sogno" inviato dall'autore a Luciano Anceschi che non gli fu avaro di incoraggiamenti. Iniziò quindi la collaborazione al giornale del GUF di Salerno, "Noi giovani", e il fervido sodalizio con i suoi redattori. Su "Noi Giovani", nel 1942, apparve l'"Auricchio" ("L'americano" di Spaccanapoli). Nel 1943 terminò di scrivere "La figlia di Casimirus Clarus", iniziata nel 1941, che il Flora si preoccupò di far pubblicare nel numero 13 del "Mercurio", la celebre rivista del dopoguerra diretta da Alba de Céspedes. Nel 1944 Rea lavorò come operaio presso le Manifatture Cotoniere Meridionali e nel settembre del 1945 raggiungeva l'amico Luigi Grosso a Milano, cominciando a frequentare Sassu, Manzù, Anceschi, Bo, Sereni, Alberto Mondadori e molti altri. Iniziò a collaborare a "Milano Sera" con articoli sul sud. Nel 1946 firmava il contratto per i suoi libri a venire con l'editore Mondadori. Nel 1947 uscì il primo libro di Rea, "Spaccanapoli" per l'edizione Mondadori ed ebbe subito un notevole successo. Nel 1948 fu pubblicata la commedia in tre atti "Le formicole rosse" e, verso la fine dell'anno, Rea emigrò in Brasile e, dopo un anno di permanenza, tornò in Italia. Nel 1950 uscì il terzo libro di Domenico Rea, "Gesù fate luce" che vinse il premio "Viareggio" nel 1951. Con questo riconoscimento si aprì in decennio veramente produttivo per lo scrittore napoletano. Nel 1952 Rea s'impiegò alla Soprintendenza alle Gallerie della Campania. Grazie alla pubblicazione, nel 1953, di "Ritratto di Maggio" ci fu una svolta nella carriera di scrittore di Rea, che diventò inviato speciale di "Paese Sera". Nel 1954, quando Rea fece un viaggio in Cecoslovacchia, la sua fede comunista ricevette un duro colpo. L'anno seguente fu pubblicato "Quel che vide Cummeo" che ottenne il premio "Salento." Il 14 giugno, sempre del 1955, la "Pravda", quotidiano russo, dedicò la terza pagina alla traduzione de "La signora scende a Pompei", un racconto di "Quel che vide Cummeo".
Nel 1958 lo scrittore compose la sua seconda opera teatrale, "Re Mida"; il manoscritto però si smarrì. Nel 1959 Rea pubblicò il suo primo romanzo, "Una vampata di rossore", che ottenne il premio "Napoli". Sempre edita da Mondadori, nel 1961, uscì "Il re e il lustrascarpe", una raccolta di articoli e saggi. Tutti i racconti di Rea furono raccolti in un unico volume, "I racconti", nel 1965 e vinse il premio "Settembrini-Mestre". L'anno dopo Rea pubblicò "L'altra faccia", una raccolta di saggi, racconti e poesie per la casa editrice Nuova Accademia.
Nel 1968 Rea pubblicò "La signora è una vagabonda", "Questi tredici", "Pulcinella" e "La canzone di Zeza". Nel 1971 fu pubblicato "Diario Napoletano" (Bietti Editore), che poi, nel 1972, vinse il premio "Campione d'Italia". Per le E.S.I. , nel 1975, Rea pubblicò "Fate bene alle anime del purgatorio"; il libro venne nel 1977 ripubblicato da Mondadori.
Nel 1979 fu ritrovato il manoscritto "Re Mida" che venne pubblicato dalla Società Editrice Napoletana e fu portato sulla scena. Nel 1985 pubblicò "Fondaco nudo", una nuova raccolta di racconti, e nel 1987 uscì "Pensieri della notte", quasi un diario segreto. Dal "Diario napoletano", del 1971, al "Crescendo napoletano", del 1990, Domenico Rea continuò il suo commento a Napoli.
Nel 1992 uscì il saggio "L'ultimo fantasma della moda". Nell'ottobre del 1992 uscì anche "Ninfa plebea", il secondo e ultimo romanzo di Domenico Rea, che valse all'autore il premio "Strega" nel 1993 e che lo riportò improvvisamente alla ribalta. Nel gennaio 1994 Domenico Rea morì.
Alcune di Domenico Rea sono:
"L'interregno" (un racconto della raccolta "Spaccanapoli"), "Gesù, fate luce", il saggio "Le due Napoli", "Una vampata di rossore" e "Ninfa plebea".
NARRATIVA
SPACCANAPOLI
Nel 1947, in pieno periodo neorealista, viene pubblicata "Spaccanapoli", opera prima del giovane Domenico Rea. Nel libro sono inclusi 8 brevi racconti "La Segnorina", "Pam! Pam!", "Tuppino", "L'americano", "L'iterregno", "I capricci della febbre", "Mazza e pomelle" e, in appendice, "La figlia di Casimirus Clarus". Nell'INTERREGNO abbiamo il primo incontro con la guerra e con lo sconvolgimento dell'ordine sociale del mondo che essa viene a creare e su cui si incentrerà con maggiore incisività l'attenzione di Rea nel suo secondo volume "Gesù, fate luce".
L'Interregno è quel periodo di tempo che va dal 1943 al 1947, vale a dire quel momento di passaggio dal periodo fascista a quello democratico quando le difficoltà della guerra hanno reso più manifeste, libere e sfrenate le esigenze più elementari, quali ad esempio la fame. E' per questo che il suo contenuto più caratteristico è il fenomeno dell'allentamento dei freni inibitori della società civile, una specie di violazione generale della legge, di emigrazione di massa, di trasformazione dei valori, di rottura di ritegni e di tradizioni sotto la spinta del bisogno. E' evidente che anche in questo caos, scavando al di sotto della rappresentazione realistica, e spesso dell'effettiva simpatia per la povera gente e le sue esigenze, si giunge ad un punto di vista ideologico che considera il popolo nella sua natura, nella sua immediatezza, nella sua spontaneità. Il racconto descrive l'allucinante avventura di un gruppo di persone costrette a vivere, per la battaglia che infuria e per i bombardamenti, in un rifugio sotterraneo. Nel gruppo, dove varia è la tipologia umana, si manifestano sentimenti e istinti disparati: la guerra, infatti, non può, ne riesce a frenare il desiderio di vita che è nell'uomo. Qui emerge la concezione che Rea ha della guerra, una concezione che rimane pressoché invariata nelle opere successive.
Rea ci descrive la seconda guerra mondiale com'è stata veramente concepita nel Meridione. "L'Interregno" inizia così: "Nel nostro mite paese, la guerra era giunta per fama"; questo dimostra come in realtà la guerra non fosse sentita, ma fosse vista come una cosa estranea, che non avrebbe mai colpito questo "mite paese".
E' anche interessante vedere come la guerra, in se stessa, non sconvolge gli ordini sociali che sono invece sconvolti dalle conseguenze di questa; infatti, all'interno della cantina, dove tutti si erano rifugiati, si hanno "I Signori coi Signori", "I pezzenti coi pezzenti". Ma ciò che non potettero le bombe, poté, all'indomani, la fame. Si decise di far causa comune.
Da sottolineare è l'uso massiccio della punteggiatura che l'autore fa in questo passo, in modo da rallentare il ritmo della narrazione e di conseguenza concentrare su di essa l'attenzione del lettore.
Da notare è come Rea riproduca in piccolo, all'interno della cantina, l'ambiente e le strutture sociali che "fuori" in grande, dominavano la vita dei suoi protagonisti, quindi come crea microcosmi.
Rea oltretutto attua una deformazione della realtà: " forse, sarebbe bastato un trombettiere, lì fuori, in piazza, che avesse saputo suonare a raccolta, perché quei giovani osassero fermare gli aeroplani, strappandone le ali e buttandoli per terra come lepidotteri tarpati". Una dilatazione ora dilatata e ora ridotta conferisce al racconto quel tanto di indeterminato che lo estrae da un complesso storico preciso (la guerra 1940-1945), e permette a Rea di procedere allo studio ed all'estrapolazione di quelle caratteristiche umane comuni a tutte le persone viventi in condizioni estreme in un qualsiasi "Meridione".
"Spaccanapoli" è, infatti, il libro che segna l'avvicinamento dello scrittore al mondo plebeo, un mondo di cui coglie il gesto, ma di cui non cerca spiegazioni storiche e sociali, limitandosi a gettare di tanto in tanto uno sguardo fugace alle spalle dei suoi protagonisti.
Nel 1950 fu pubblicato " Gesù, fate luce", un'altra raccolta di racconti, questa volta dodici. I legami con il precedente "Spaccanapoli" sono profondi, sebbene che, fin dal primo racconto "Piededifico", sia possibile notare un diverso atteggiamento dello scrittore nei confronti di quella plebe verso cui la sua analisi, principalmente, si indirizza. L'osservazione della realtà da parte di Rea si fa più attenta: la fame e la miseria che fino ad ora avevano fatto da sfondo al "gesto" del protagonista, alla passione violenta e travolgente, passano ora in primo piano: si ha una più chiara presa di coscienza sociologica. Questo passaggio è sottolineato dalla comparsa in scena di un nuovo tipo di personaggio: il mendicante, lo straccione, prostrato da una fame perenne e da un'inerzia che generazioni e generazioni di miseria hanno iniettato come un veleno nel suo sangue. La trama di questo primo racconto si riduce al tentativo del mendicante di derubare la dispensa di un opulento convento, tentativo parzialmente riuscito perché Piededifico, poi scoperto, viene arrestato. Ma il racconto è anche e soprattutto la descrizione di un attimo di godimento strappato ai lunghi anni della fame grazie ad un lampo di inventiva e di fantasia. In LUTTO FIGLIA LUTTO, ESTRO FURIOSO, LA RAPINA DI CAVA e IL MORTORIO è più evidente il collegamento all'atmosfera del precedente "Spaccanapoli", sia per la presenza della solita confusione improvvisa e inaspettata sia per l'attenzione riservata all'antefatto. Nei primi due è la sensualità violenta e incontenibile che porta al delitto; negli altri due, il bisogno e la miseria. E nel "Mortorio" il delitto e la violenza si stemperano felicemente nella rappresentazione della coralità della vita del cortile che si raccoglie intorno alla vittima, la mendicante Zi' Capena, manifestando la sua pietosa comprensione per il dolore del singolo. A sottolineare il nuovo atteggiamento dello scrittore nei confronti della realtà è soprattutto il racconto-saggio "Breve storia del contrabbando", perno del libro e primo racconto in cui si tratta di una situazione storicamente collocabile. Attraverso l'analisi del fenomeno del contrabbando, che fiorì tra il '43 e il '47 e che permise la sopravvivenza di migliaia di persone, lo scrittore, senza mai scendere in un tono freddamente "storico" o di cronaca ma sempre partecipando con commozione alla vicenda, ha tratteggiato l'epopea di un popolo di miseri che, tagliato fuori dai rifornimenti dell'Italia Settentrionale, seppe trovare in sé la forza necessaria a sopravvivere. Tra un passato di fame e un futuro di miseria, a contadini, carrettieri e contrabbandieri si prospettò un periodo di abbondanza, in cui si arraffò e si scialò, quasi con rabbia, quasi gettando in faccia ad un destino amaro e annoso palate di cibo e di denaro, prendendosi un'antica rivincita sull'esistenza. E in quel vortice di vita piena il pensiero della morte, della fame, delle malattie, fu soffocato nella fugace parentesi dell'abbondanza. Nel saggio-racconto alla parte documentaria (lo studio delle classi meridionali, della suddivisione in piccolo e grande contrabbando ecc.) si intrecciano veloci descrizioni di personaggi che in poche righe emergono dallo sfondo e si impongono con un gesto o uno sguardo, riportandoci alla vivace grondante umanità di "Spaccanapoli". Un esempio ne è una prostitutella che segue le tradotte dei soldati americani, o il mendicante Maione, campione di pezzenti, che si sfama "acchiappando mosche al volo". In questo racconto-saggio Rea porta la plebe in primo piano; per la prima volta ce la raffigura attiva e ci descrive così l'epopea di un popolo, (quindi non solo quello napoletano come apparentemente potrebbe sembrare) che trova nel momento del pericolo la fantasia e il coraggio di fronteggiare la fame, anche se in questa risoluzione c'è la mescolanza di molteplici interessi e la capacità di sfruttare, per il proprio tornaconto, anche la fame altrui. Ma Rea tutto questo lo descrive con indulgenze, con affetto, contrapponendo al tornaconto questa rivincita morale di una sola stagione come una sfida ed un esempio " fu la vera gente a gridare questa volta [contro i ricchi]: sfaticatoni belli, che cosa dite ora?".
"Ma quando gli americani cominciarono a partire la gente si sentì colpita da un'emorragia interna": per questa gente finì l'epopea. "Qualcuno si è sistemato per sempre. Quasi tutti gli altri sono ritornati nel buio".
Rea, nonostante il fatto che il contrabbando in una società sia negativo, si dimostra generoso con costoro, perché lottarono con furbizia e intelligenza contro la fame provocata da uno stato che ancora una volta si era dimenticato di loro. Il suo atteggiamento è sì di comprensione verso questa plebe che lottò, ma il suo giudizio, è da tener presente, non è mai esplicito. In "La cocchiereria" affiora un legame psicologico fra l'uomo e la natura (vista sotto l'aspetto di un cavallo), ed emerge la lotta di entrambi contro la tecnologia. Importante, in questo testo, è la perfetta simbiosi fra uomo e cavallo in un rapporto insostituibile; ma anche la cocchiereria, come tante cose del passato, sta per essere sostituita dalla macchina. In "Gesù, fate luce" l'attenzione di Rea cominciò a focalizzarsi sulla folla nelle sue manifestazioni corali, un esempio ne è "La cocchiereria" dove, quando Scuotolantonio cadde ammalato, "la gente del cortile se ne accorse e lo soccorsero. Gli diedero tutto, anche il medico, anche i bambini per distrarlo". Viene quindi descritta una folla grande ed umana, ma che può essere anche cieca e bestiale come ne "Il confinato": "O erano sogni o avanzava una tribù di gente arrivarono intorno a loro irritatissimi proiettili di fucile". "Una scenata napolitana" mette invece in risalto un altro aspetto della vita comunitaria, corale del cortile, sottolineando la teatralità che a tratti, nei momenti meno dolorosi e intensi, può caratterizzare il vivere insieme della gente. I protagonisti del racconto si agitano e strepitano soprattutto a beneficio della folla radunatasi a causa del loro litigio e a questa si rivolgono, dedicando colpi di scena e battute. La moglie tradita, per esempio, mentre avanza con il pugnale in mano verso il marito pensa: "Vedi che bella figura farei davanti a questa gente se lo uccidessi veramente". Nel frattempo gli abitanti del cortile "si accesero la sigaretta per disporsi al finale", dopo aver "rampognato con ossea lingua <<ragazzini!>> per dire: <<Silenzio, fateci udire bene>>". Il carattere teatrale della scena è inoltre sottolineato dalla presenza di vere e proprie didascalie ("frastuono della cristalleria", "pensiero del marito al costo" e "riso della gente istruita"), mentre un gruppo di donne, in un angolo della scena, svolge la funzione del coro classico, ritmando i vari sviluppi del litigio. La vivace scena si colora di tragedia in Cappuccia, dove il protagonista, trascinato nel vortice della violenza quasi per caso, non riesce più a togliersi dal gioco e alla fine si trova, in tribunale, con "un metro di morti e di feriti, come Orlando, il guerriero, che di Saraceni, nell'opera dei Pupi di Giffoni, ne faceva a montagne". Condannato all'ergastolo, morti i parenti e gli amici, Cappuccia a poco a poco viene a perdere la propria identità all'interno delle pareti del carcere. La sua dimensione esistenziale si frantuma: quando nel settembre del 1943 il carcere viene aperto per permettere ai detenuti di salvarsi dai bombardamenti a tappeto, egli non sa far altro che infagottarsi nella divisa abbandonata di un questurino, unica maschera possibile al suo vuoto di identità. Aggredito dai soldati marocchini che hanno conquistato l'edificio, Cappuccia ingaggia con loro un epico duello mortale. "Cappuccia sembrava Orlando contro i saraceni, che, infine, per il loro grande numero, lo abbattettero". Il ritorno dell'immagine della marionetta a conclusione di una vicenda racchiusa tra due esplosioni di morte trasforma la farsa in tragedia, dando una sensazione di amara sofferenza alla vivace comicità del racconto. Capodimorte ci presenta la squallida figura dello squadrista Pirrone mutilato fascista sfruttato dal potere sia come martire della causa da esibire durante la parata sia come picchiatore per le spedizioni punitive. Ma in fondo "Capodimorte era un povero diavolo. Non avendo un mestiere vero e proprio, con moglie e tre figli a carico, per vent'anni si era impegnato a
sfruttare il suo unico bene: la gamba mutilata". Alla caduta del fascismo, il trucco viene svelato: la gamba è sana, si è trattato solo di un imbroglio innocente per ottenere pensioni e sovvenzioni. La conclusione ("Viva Capodimorte! Viva Capodimorte! che, per tutti, aveva saputo fregare il governo") si ricollega alla descrizione dell'animalesco linciaggio da parte della folla all'antifascista Gionetti e di sua moglie Gavina nel racconto "Il confinato", mettendo in rilievo la sostanziale indifferenza politica della popolazione dell'immaginaria Nofi. Passività, fatalismo, sottomissione indifferente ai cambiamenti di potere al vertice: questi sono gli amari dati che escono dall'analisi dei due brevi racconti, in modo drammatico ne "Il confinato", appena velati di comicità in "Capodimorte". In appendice ai racconti troviamo " Il Bocciuolo" la cui trama era stata utilizzata da Rea nel 1948 nella commedia "Le formicole rosse". Ma a differenza del tono frenetico e a tratti artificiale dell'opera teatrale, nel racconto troviamo un'atmosfera tesa e sommersa, impregnata della triste solitudine di un uomo giunto senza amore alle soglie della vecchiaia e dell'amore, troppo tardi, travolto. Nel racconto viene infatti narrata la passione senile di un anziano e affermato magistrato per la giovane e bella Rosa, che alla fine si rivelerà molto più scaltra ed esperta della vita di quanto all'inizio lasciasse pensare. Ma ormai la sua rete di fantasia e di gioventù ha imprigionato l'uomo vecchio e stanco, che, davanti alle prove tangibili del tradimento della fidanzata, la sposa piegandosi al compromesso. In "Gesù, fate luce" Rea cerca di portare alla luce quei gesti e quelle situazioni rivelatrici di un modo di essere spontaneo e violento, tragico e venato di sorriso. Risolve tutta la preoccupazione sociale nelle strutture delle situazioni, negli sbocchi improvvisi delle trame. Già in questo libro Rea sembra allargare il proprio campo visivo, inglobando e portando a tratti in primo piano quella realtà che era stata sempre presente come sfondo da cui muovevano i personaggi.
RITRATTO DI MAGGIO
"Ritratto di maggio", del 1953, è un lungo racconto che trae il pretesto della narrazione da una vecchia fotografia di una classe di prima elementare, di cui l'autore ne osserva la disposizione. Alla base del lungo racconto è l'idea che tutto sia già scritto, già segnato, e che ognuno abbia fin dalla nascita un destino a cui non può sfuggire.
QUEL CHE VIDE CUMMEO
Questa è la quinta opera narrativa di Domenico Rea, del 1955. E' una raccolta di otto racconti: "Quel che vide Cummeo", "La signora scende a Pompei", "Amore a Procida", "Madre e figlia", "Gli oggetti d'oro", "La spedizione", "Idillio" e " I pesci del padrone". In appendice al libro vi è inoltre il saggio "Le due Napoli".
Nel complesso "Quel che vide Cummeo" si propone come libro estremamente vario: abbiamo bozzetti e racconti veramente lunghi, una prosa realista e una lirica. In ogni caso si avverte, come già in "Ritratto di maggio", il desiderio dello scrittore di uscire dalla misura del racconto.
UNA VAMPATA DI ROSSORE
Nel 1959 Rea arriva al romanzo con "Una vampata di rossore". La trama è esile: è la storia dell'agonia di Rita Rigo, malata di cancro. Attorno a lei si intrecciano le vicende del marito Assuero e dei figli Maria e Beppe, mentre sia il tempo sia lo spazio si dilatano sul filo dei ricordi dei vari protagonisti, facendo emergere altri personaggi minori. Il romanzo è costruito attraverso una continua sovrapposizione dei piani temporali, che portano dal presente dell'azione al passato del ricordo, poi ancora in un passato più lontano per giungere, in alcuni punti, ad un intreccio tra passato e presente: "Era il lui di adesso accoccolato nella vasca con la Maria di allora". Insomma, grazie al continuo intrecciarsi della fabula, il movimento, assente a livello di azione, viene recuperato a livello di struttura. Il correlativo oggettivo del ventre malato di Rita è il canterano dove sono riposti i risparmi accumulati dalla donna in una vita di lavoro e sacrificio. Il canterano diventa l'oggetto dell'interessamento di Assuero. Esso dipende solo dalla condizione in cui sta Rita: quando stava bene esso era pieno, ora si sta svuotando piano piano, accrescendo le preoccupazioni di Assuero. Rita è stata per anni l'unico sostegno economico della famiglia, la cui rovina o resurrezione è indissolubilmente legata alla morte o alla guarigione di Rita. Le "sezioni" del libro procedono con le accoppiate: Rita-Assuero, Maria-Scide, Chele-Beppe. Il legame unico di queste coppie parallele è Rita, che agisce su tutti i primi piani dello sfondo della malattia. La prima figura su cui si incentra l'attenzione di Rea è quella di Assuero, la cui vita è stata una continua fuga dalla miseria, fuga che però si è risolta nella passività, nella ricerca di un appiglio che sempre altri avrebbero dovuto porgergli. In un rapido flashback veniamo a contatto con il mondo da cui Assuero è partito, un mondo già incontrato tante volte nell'opera di Rea, dove regna una miseria cieca e senza speranze. Finora lo avevamo visto dall'interno, con gli occhi delle persone che restano e cercano forse un riscatto, adesso lo vediamo con gli occhi di chi se ne va, di chi si tira fuori dalla "stalla", al prezzo però della propria "prostituzione".
Prima oasi-illusione era stato il matrimonio con Maria, figlia di un ricco avvocato e levatrice occasionale per lavare le "onte" familiari. Con vinta a poco a poco dal marito adorato, Maria era passata ad esercitare ufficialmente la professione di "mammana", ed alla sua morte improvvisa Assuero si trovò con un avviato "giro" di clienti, ma nell'impossibilità di soddisfare le richieste. Ecco che giunge Rita, anch'essa levatrice, anch'essa innamorata. Il loro matrimonio è stato contrassegnato dall'interesse che però in Assuero non divenne mai colpa cosciente, ma autogiustificazione, difesa dalla maledizione della miseria sentita quasi come un "marchio", di casta. Assuero pensa con terrore alla morte della moglie perché non saprebbe più, economicamente, come fare per sopravvivere; tenta di illudersi fino all'ultimo che si tratti di una malattia da niente e quest'illusione assume nel libro la configurazione di un'inconscia fuga interiore. La personalità di Assuero sembrerebbe dunque messa in evidenza da questa battuta, ma in realtà il personaggio non è questo. E' vero che Assuero, senza Rita, è un uomo finito, ma ne ha piena coscienza. Il suo non è uno sfruttamento, perché gli sembra naturale vivere così, né suppone di essere in colpa dato che lui ama realmente la moglie, certo non esageratamente, ma con un sentimento che va oltre il puro interesse. Il libro, dalla prima all'ultima pagina, non riesce mai a renderci odioso Assuero, anche se il suo modo di vivere sembra fatto apposta per renderlo sgradevole. Alla morte di Rita in Assuero c'è vero dolore, quel dolore che trasforma un uomo in fanciullo. Lui non cerca la ricchezza, ma solo un tetto, cibo e tanta pace. Oltre a quella di Assuero, che può essere considerata il perno della narrazione, "Una vampata di rossore" intreccia altre storie alla morte di Rita. Forse sono storie non necessarie o sono solo funzionali ad una maggiore precisione nella descrizione dell'ambiente familiare. Quasi sicuramente se ne poteva fare a meno, dato che la vita dei due figli Maria e Beppe procedono esternamente alla famiglia ed al nucleo vitale del romanzo. Maria, la loro figlia, si fidanza con il giovane Scida unicamente per compiacere le famiglie e senza amore; Scida, il fidanzato, è invece innamorato di Maria e nella lontana Algeri, dove è immigrato, soffre perché capisce che la ragazza lo disprezza. Beppe, l'altro figlio, è coinvolto in un sensuale e torbido rapporto con Chele, una donna che abita al piano di sotto e che pratica le iniezioni a Rita, sempre vestita di nero e bigotta. Assuero, Maria e Beppe si portano dentro una loro vampata di rossore e di vergogna, un'illusione, un sogno irrealizzabile a cui hanno sacrificato continuamente la possibilità di vivere e di agire: Assuero il sogno di una ricchezza piovuta dal cielo (il Lotto), Maria il sogno di un amore puro sì, ma anche rispondente a certi canoni sociali ed estetici che la paralizzano, Beppe il sogno di una "nuova" vita, di "nuove" donne, di "nuove" sensazioni. Solo tra questi personaggi insieme crudeli e innocenti Rita, la madre, si è a poco a poco rifugiata in un mondo proprio, fatto di suoni e di rumori, in cui alla parola si sono sostituiti ora l'urlo bestiale, ora le note del mandolino che di tanto in tanto strimpella e dove al suono comunicativo è subentrato il suono non organizzato, in un processo di progressiva regressione allo stato infantile: Rita, la Madre, di fronte alla morte, diventa figlia di se stessa. Questo perché nessuno sembra preoccupassi di lei, sono tutti presi da se stessi, quello di Rita è solamente un "imbarazzo" di breve durata. Un "imbarazzo che in realtà domina su tutto il romanzo con le sua pressante presenza di malattia, di morte, di decomposizione fisica e morale. Alla fine del romanzo, quando Rita muore, compare il paese visto nella sua totalità, la coralità, a cui è affidata la purezza intatta del dolore e del sentimento. Alla fine, nel melodioso canto di dolore delle donne del popolo, in una commemorazione spontanea, Rita diviene il simbolo di Grande Madre degli afflitti e degli umili: "donne di cui Rita conosceva i più intimi segreti, mai svelati, raccolti in momenti estremi, di gioia o di terrore. Esse ora sentivano il bisogno di rivelarle. <<Sei stata la nostra madre, la nostra amica>>".
I RACCONTI
Nel 1965 tutta la produzione di Rea, con la sola esclusione di "Una vampata di rossore" venne raccolta e pubblicata dalla Mondadori, in un unico volume intitolato "I racconti". Dall'edizione completa dei racconti sono esclusi solo quattro lavori: "La figlia di Casimiro Clarus", "Pam! Pam!", "Lutto figlia lutto" e il "Bocciolo"; "Ritratto di Maggio" vi appare solo abbreviato. In compenso sono inseriti quattro nuovi racconti: "Pirera I e II", "Stella bianca", "La botola" e "A domenica".
L'ALTRA FACCIA
Fu pubblicato dalla Nuova Accademia, nel 1966, il nuovo libro che si proponeva come raccolta di una decina di racconti, due saggi e tredici poesie.
QUESTI TREDICI
Nel 1968 uscì "Questi tredici", una raccolta di racconti destinati ai ragazzi.
LA SIGNORA E' UNA VAGABONDA
Uscì anch'esso nel 1968. E' un breve racconto che tratteggia il ritratto convenzionale di una signora.
FONDACO NUDO
Nel 1985 uscì una nuova raccolta di racconti. I racconti di "Fondaco nudo" risplendono di una nuova vigorosità che ormai sembrava persa da "Quel che vide Cummeo", con la sola eccezione di "La signora è una vagabonda".
PENSIERI DELLA NOTTE
Fu pubblicato, nel 1987, "Pensieri della notte". E' una raccolta di pensieri, divagazioni, quasi un diario segreto, ma pieno di scorci narrativi spesso rappresentati in prima persona.
NINFA PLEBEA
"Ninfa plebea" è il secondo e ultimo romanzo di Domenico Rea. Fu pubblicato nell'ottobre del 1992 e nell'estate dell'anno successivo Rea vinse il premio "Strega" portandosi nuovamente alla ribalta. Già dal titolo è chiaro il soggetto di questa sua ultima opera. Protagonista della vicenda è, infatti, una bambina della plebe napoletana.
Miluzza è l'unica figlia di una coppia di sarti di Nofi, che devono gran parte del loro lavoro alle commesse da parte dei soldati della vicina caserma. La famiglia abita in un basso con il vecchio nonno Fafele. Il romanzo racconta schiettamente quali fossero le condizioni di vita prima della Seconda Guerra mondiale. Ciò emerge chiaramente dalla descrizione del basso: "era un camerone lungo sei metri e largo forse tre suddiviso in scompartimenti". Gli scompartimenti erano tre: il primo, dove lavoravano i due coniugi Giacchino e Nunziata, il secondo era una sala prove non più grande di un metro quadrato. Un paravento "separava dal resto l'appartamento in cui la famiglia mangiava e dormiva e dove c'era il letto matrimoniale due brande, l'una per il nonno, l'altra per Miluzza; dirimpetto ai tre letti una cucina economica a carbone". Il bagno, se così si può chiamare, era nel giardino " un bugigattolo poco più grande di una garitta, con cesso alla turca coperto da un mattone, per non permettere l'uscita dei topi". Questo, che oggi può sembrare un ambiente non idoneo per essere abitato, "negli anni Trenta si poteva considerare perfino rispettabile". Si capisce subito in quale ambiente si è avuta la formazione della protagonista che è stata " cresciuta ed educata pressappoco come un pollo da cortile, senza troppe attenzioni e carezze", abituata sin da piccola a sbrigare le faccende di casa. Emerge subito come, in un ambiente e in un'epoca come quelli presi in esame, il sentimento per l'infanzia non fosse minimamente sentito e considerato. Miluzza, una notte, scopre la madre tradire il marito, nel loro basso, con un giovane soldato. Il rapporto provoca a Nunziata una forte emorragia che le causa la morte. Di lì a poco, a causa di una salute cagionevole, muore anche il padre Giacchino. Miluzza, così, poco più che tredicenne rimane sola con il vecchio nonno. Non è difficile immaginare come Miluzza, cresciuta praticamente sola, senza una guida, in un tale ambiente abbia finito per commettere alcuni errori. D'altra parte la gente del paese la giudica prima che commetta qualche cosa. Per loro "Tale madre, tale figlia! Il ditto antico mai mentì! Che schifo! Che tempi!". Per gli abitanti di Nofi è logico che Miluzza segua le orme della madre. La sera, quando Miluzza esce con l'amica Annuzza sul corso, viene corteggiata da molti ragazzi che la credono di facile costume. Certo è che Miluzza cede ai corteggiamenti di un giovane soldato, che dopo due giorni è trasferito e parte senza darle una spiegazione. Miluzza, che è ormai sola con il nonno, la mattina presto si alza e con questi va a vendere le pizze di cui Fafele è maestro. Un giorno Miluzza viene assunta da don Peppe nella sua azienda, ed egli, accortosi della bellezza della ragazza, la bacia, aspettandosi da lei un rifiuto. Miluzza, però, non lo rifiuta, perché si sente in dovere di non negare niente, ad un uomo che si è dimostrato tanto gentile con lei offrendole un lavoro. Così tra i due nasce una relazione che ben presto diviene di pubblico dominio. Le chiacchiere contro Miluzza peggiorano, ormai considerata solo una rovina-famiglie. Ma Miluzza, del suo sbaglio, non se ne rende conto. Muore il nonno Fafele e don Peppe fa sì che invece di essere trasportato con la carrozza dei poveri, sia portato con la più bella carrozza funebre di Nofi. Ormai, dopo questo gesto, Miluzza è ufficialmente l'amante di don Peppe Arecce, e a Miluzza pian piano cominciano a chiarirsi le idee. Comincia a rendersi conto del suo sbaglio quando vede che tutte le sue amiche la evitano, e ciò diviene ancora più evidente quando Teresa, la moglie di don Peppe, le fa visita a casa. La donna viene accompagnata da una guardia che minaccia Miluzza di arrestarla se non lascia il paese. La ragazza, schiaffeggiata, da Teresa, si scopre improvvisamente sola e abbandonata. Miluzza decide di andare allora ad abitare in casa di una vecchia amica di famiglia. Ma mentre le disavventure di Miluzza erano alla fine, l'Italia era entrata in guerra. Ed ecco che ricompare anche in questo romanzo il tema della guerra grossomodo come in "Gesù, fate luce". Qui è percepita com'estranea al sud "non si sarebbe mai immaginato potesse riguardare Nofi collocata dalla geografia in uno dei bassifondi del sud. Ogni nofinese credeva che le guerre si combattessero, secondo tradizione, nelle terre confinarie fra Veneto e Lombardia". Essa era sì una "guerra nominale di cui si favoleggiava nelle gazzette", ma soprattutto una guerra più estranea a Nofi che al meridione, nonostante fosse ad una trentina di chilometri dalla Napoli bombardata. La gente, infatti, come un diversivo, "saliva sui terrazzi con le sedie, e qualcuno anche con una poltrona da pipa, per assistere comodamente allo spettacolo pirotecnico di quei buontemponi di americani - concittadini dei risaputi e risibili Stanlio e Ollio - che con le loro fortezze volanti pretendevano li si prendesse sul serio". E come sempre, la guerra, nel meridione descritto da Rea, porta ricchezza, poiché si è liberi di gestirsi economicamente e i produttori, a causa della mancanza di prodotti, possono alzare il prezzo di questi ultimi. Ma quando la "vera guerra" arriva a Nofi tutto sembra stravolgersi, e "non si sa come, ma tutti fuggivano verso il Purgatorio, una vecchia tufara che, in una memoria ancestrale, tutti avevano in mente". Tutti, tranne Miluzza, fuggono quindi verso questo Purgatorio, che, trovandosi sotto terra, serve come rifugio dai bombardamenti. La ragazza, infatti, non se la sente di stare in contatto, in uno spazio così ristretto, con tutte quelle persone che non si sono peritate ad offenderla e ad accusarla, rimanendo sola nel paese. Ma questo è il suo destino, poiché, dopo pochi giorni, davanti alla porta di casa sua, arriva moribondo un giovane ferito ed affamato. Miluzza accudisce il ragazzo che, feritosi durante la guerra, tornava a casa a Corbara, un paese poco distante da Nofi. Rimessosi un poco, il ragazzo, desideroso di rivedere i familiari, decide di mettersi in cammino verso casa e Miluzza lo accompagna. La ragazza rimane con lui nella sua casa e tra i due giovani nasce un tenero sentimento che li porta a sposarsi. Miluzza può così cominciare una nuova vita, con una persona che la ama profondamente e che, soprattutto, ignorando il suo passato, non la giudica male.
TEATRO
LE FORMICOLE ROSSE
Nel 1948 uscì la commedia in tre atti "Le formicole rosse".
La trama dell'opera si rifà al racconto "Il bocciuolo".
RE MIDA
"Re Mida" è il secondo esperimento in campo teatrale di Rea e fu scritto nel 1958 ma venne pubblicato e messo in scena solo nel 1979 in seguito allo smarrimento e al ritrovamento fortuito del manoscritto. Si tratta ancora di una commedia in tre atti.
SAGGI
LE DUE NAPOLI
Il primo saggio di una certa dimensione scritto da Domenico Rea, "Le due Napoli", risale al gennaio 1950, ma venne pubblicato solo cinque anni dopo, in appendice al libro "Quel che vide Cummeo".
Il titolo stesso individua il tema su cui si incentra l'attenzione di Rea: la distanza che esiste tra il mito di Napoli, terra di vita allegra e spensierata; e la realtà di Napoli, fatta di fame, di miseria e di "tuguri" che al di là del turistico "calore locale" nascondono umiliazioni e sofferenze. Il primo intento del saggio è appunto quello di togliere quell'alone folkloristico che da sempre accompagna l'immagine di Napoli in tutto il mondo, al punto che "gli stessi napoletani han finito per credere di essere simili ai personaggi cantati, narrati e rappresentati dai loro scrittori".
Rea denuncia infatti la mancanza di realismo della maggior parte degli scrittori napoletani, da Di Giacomo alla Serao che videro nella miseria solo un carattere folkloristico di Napoli.
La miseria napoletana descritta da De Filippo nelle sua commedie non è tragica, ma ha un carattere comico. Scrittori come Mayer, Viviani, Mastriani e Boccaccio invece seppero individuare nella miseria la prima causa di tutti i mali di questo popolo di miseri.
Lo scrittore passa pio ad una rapida analisi del "vicolo" che ormai è divenuto una prigione per gente immersa in " una indifferenza politica fantastica, che ha fatto un popolo storicamente rachitico". Soltanto durante il periodo dell'interregno, molti uscirono dal vicolo e godettero un po' del "nuovo mondo". Finito il contrabbando, ridiscesero nelle tane, "ma con una coscienza e uno spirito diversi, col tanfo della sporcizia del vicolo sull'anima e sotto il peso di una colonna di ingiustizia piantata in mezzo al loro dissonante cuore. Ma bisogna tener presente che "il contrabbando fu un momento storico importantissimo" perché esso va visto " come aspirazione al lavoro, a costruirsi una casa, a formare una famiglia civile.
La storia del contrabbando "è la storia di un popolo che tenta di vincere, inerme come è , con le sole armi del povero, il sotterfugio e gli espedienti la miseria". A Napoli non bisogna dimenticare che "la miseria finisce per essere la ricchezza stessa della città, giacché in nome suo tutto deve essere ammesso e permesso perché l'uomo vuole vivere. Il termine due Napoli va inteso come la presenza, all'interno di una medesima, di due distinte città: una ricca e una povera che si ignorano a vicenda.
"Le due Napoli" si pone quindi come un'analisi lucida e imparziale della realtà contraddittoria e tragica della città partenopea, realtà in cui quasi non esiste un confine netto tra il riso e le lacrime.
IL RE E IL SUSTRASCARPE
"Il re e il lustrascarpe uscì nel 1961 e seguì cronologicamente ad " Una vampata di rossore". Esso raccoglie articoli e saggi composti da Rea tra il 1949 e il 1960.
PULCINELLA E "LA CANZONE DI ZEZA"
Uscì nel 1968. In questo lavoro Rea traccia con precisione e acutezza il personaggio della mitologia napoletana: Pulcinella, personificazione della miseria (fisica e morale).
DIARIO NAPOLETANO
Uscì nel 1971. Esso raccoglie rapide "paginette" dedicate a Napoli.
FATE BENE ALLE ANIME DEL PURGATORIO
Uscì nel 1975. E' la raccolta di nove saggi di dimensioni piuttosto notevoli composti tra il 1950 e il 1975.
CRESCENDO NAPOLETANO
Uscì nel 1990. Continua con quest'opera il commento alla sua Napoli.
L'ULTIMO FANTASMA DELLA MODA
Uscì nel febbraio del 1992. Rea, attraverso trentuno brevi saggi, ci illustra i canoni dell'eleganza classica maschile contro lo sciatto appiattimento casual dei nostri giorni.
Nonostante la diversità delle forme e dei generi, si può affermare che tutta l'opera di Domenico Rea ruoti attorno ad un unico centro: l'uomo napoletano, o meglio, l'uomo costretto a vivere in condizioni rese estreme da secolari malformazioni sociali. Questo tema centrale ha dato inizio a varie situazioni formali che hanno portato gradualmente lo scrittore dal bozzetto al ritratto psicologico, dall'esigenza del racconto fulmineo al romanzo, dall'espressione dialettale all'italiano. Questo spostamento è strettamente collegato alle diverse prospettive che regolavano l'osservazione di Rea, e a loro volta legate al crescente approfondimento dell'analisi della realtà da parte dello scrittore. Da qui si diparte tutta una serie di temi e motivi strettamente collegati a quest'ultima iniziale.
LA MISERIA
La miseria è il tema più importante di tutta l'opera di quest'autore, poiché essa costituisce l'ambiente in cui si muovono tutti i personaggi di Rea. Essa è una miseria che non diviene mai, come in molti autori napoletani, un motivo puramente ornamentale o folkloristico. Per Rea la miseria è la causa prima e antica di tutti i mali, fisici e morali, dei suoi personaggi plebei. E' la miseria che stravolge e deforma i rapporti tra i coniugi, tra i familiari, tra gli amici. E' la miseria che imprigiona nel basso e inculca nelle anime un fatalismo invincibile e paralizzante. Vittima della miseria è Mariannina ne " L'interregno" prostituta per fame, ma onesta in fondo al suo cuore offeso. E sempre la miseria genera la violenza di cui sono piene le pagine di Rea, infatti, per miseria si uccide e si è uccisi, come accade ne "Il mortorio" e ne "La rapina di Cava". E' la morte della Zì Rumena del secondo racconto, in cui al delitto si sostituisce la tragica casualità (la vecchia inseguendo i ladri cade nel pozzo e muore), che fa emergere chiaramente la fondamentale innocenza di chi, più o meno indirettamente, a provocato il decesso. Dalla miseria, infine, nasce quell'ossessione per il denaro che accompagna per tutta la vita proprio quei popolani che sono riusciti a sollevarsi un poco al di sopra della loro condizione iniziale. Come il motivo della violenza, anche questo del denaro è continuamente presente nell'opera di Rea, fino a giungere al personaggio di Assuero in "Una vampata di rossore" che ne è il maggior testimone. In Assuero la brama di denaro ne soffoca lo spirito, le emozioni e i sentimenti positivi che a tratti manifesta. E ancora una volta Rea sembra non volerne incolpare il protagonista; l'autore, infatti, capisce che quest'atteggiamento è dovuto alla paura di tornare in uno stato di miseria da cui si è sollevato. Questa non esplicita assoluzione da parte di Rea verso Assuero è chiara nel fatto che, nonostante il protagonista sia un egoista, non riusciamo ad avere un sentimento di ripugnanza verso di lui. E' chiara l'ossessione del denaro in questo passo del romanzo: "Maria chiese al padre oltre mille lire per comprare un quarto di profumo a buon mercato. Il padre lentamente aprì il cassetto del canterano dove erano quei brutti fogli verdognoli e diede alla figlia il denaro, emettendo un sospiro annoiato e dolente. Cominciava male la sessantottesima giornata di quella strana malattiaintanto volavano via e per sempre (come appunta fa il denaro che va via e non torna più indietro) altre mille lire". Come si può facilmente notare sono molte le parole che si ricollegano al denaro, che non a caso viene associato l'immagine della malattia. Tutto il romanzo infatti sembra ruotare alla malattia da cui dipende strettamente il denaro, conservato nel canterano. Pur di sfuggire alla sua infanzia di sporcizia e di fame Assuero non esita a compiere le "sue" violenze sulle due mogli e sulla figlia. Ne "Le due Napoli" Rea scrive "per denaro Andreuccio è truffato, per denaro una madre offre la figlia al Cellini, e credo che per denaro i napoletani ascoltarono i canti di Nerone". In "Ninfa plebea" si vede come la miseria ha portato all'indifferenza verso l'infanzia. Ma di tutti i mali generati dalla miseria fino ad ora, non abbiamo ancora parlato del più grave, del più antico di quel fatalismo esistenziale che alla miseria si stringe e si intreccia fino a rendere difficile la distinzione fra la causa e la conseguenza.
IL FATALISMO
E' il fatalismo il dramma di fondo dell'animo meridionale, che porta i personaggi di Rea dall'azione alla passività, dalla partecipazione alla vita, all'inerzia che fa subire l'evento e le sue conseguenze come inevitabili, e che fa credere all'esistenza di una predestinata dannazione. L'impossibilità di sfuggire ad un ordine sociale che secoli di malgoverno, sfruttamento e repressione avevano reso sempre più forte e potente ha finito per conferire a quest'ordine un carattere di ineluttabilità. Rea scrive che due cose sono eterne: i poveri e i ricchi, e sono eterne perché i poveri col tempo diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Questo concetto è impresso come un marchio nel cuore di tutti i personaggi meglio riusciti di Rea e si concretizza con una rassegnazione cieca e muta di fronte a qualsiasi manifestazione proveniente dall'"altra" metà del mondo. Attivi e vivaci all'interno della propria dimensione sociale, del proprio universo, questi personaggi sembrano invece perdersi non appena muovono un passo fuori di esso: si paralizzano, subiscono. Il personaggio plebeo di "Gesu, fate luce" è in possesso di una sua dolorosa carica di energia individuale che si manifesta con l'azione. In "Piededifico" l'incontro-sfida tra il mondo plebeo e l'"altro" mondo si risolve nell'astuzia momentanea del singolo nel guizzo geniale, ma limitato nel tempo e nell'effetto, del mendicante rinfubito dalla fame. Infatti, quando l'incontro tra queste due metà del mondo si pne come conflitto, come scontro, emerge la tragica ombra del fatalismo, della rassegnazione, delaa passività comportamentale. Lo stesso Assuro è un passivo dal momento che, per opporsi alla miseria, sfrutta il lavoro delle due mogli, senza attuare però un suo diretto intervento nel mondo del lavoro. Ma d'altra parte questo stesso fatalismo tarpa le ali e che stronca qualsiasi speranza di una vita migliore o se non altro diversa, è anche alla base di tutta quella serie di meravigliosi rapporti umani che caratterizza la vita di tutti i personaggi di Rea. La coscienza di un comune destino di miseria e sofferenza da cui è assolutamente inutile tentare di sfuggire genera quella solidarietà e quella comprensione che crea legami profondi e che cementa i singoli in folla. Naturalmente non ci troviamo di fronte ad un'unione cosciente di individui mossi da un'offesa comune, o contro quest'offesa pronti a cooperare ed opporsi: qualsiasi tipo di coscienza o di lotta di classe è esclusa da quello stesso fatalismo dominante che genera l'affratellarsi di questa gente. Fin dall'infanzia ci si abitua a cercarsi, a trovarsi, a riporre in qualsiasi condizione la solidarietà che nasce dalla comune sofferenza. E' in quest'ottica di necessaria partecipazione alla vita altrui, perché in fondo essa è anche vita propria che si inseriscono le numerosissime manifestazioni corali dei vari racconti. Terribile non è dunque, morire, (di fame, stenti, sofferenze), ma morire soli: Terribile è perdere il conforto di presenze simili e di simili dolori nel momento conclusivo dell'esistenza. All'interno di quell'universo di rapporti umani cementati dal fatalismo, invece, il personaggio plebeo, nel bene e nel male, non si troveà mai solo: la solitudine sarà la terribile condanna di tutti coloro che tenteranno un riscatto della propria condizione umana rinnegando le comuni origini popolane.
IL RISCATTO
Ci fu un momento, sostiene Rea, in cui quell'ordine sociale, che da sempre genera e tiene in vita quel fatalismo esistenziale della plebe napoletana, che abbiamo appena considerato, si infranse. Gli uomini uscirono dalle loro tane, dai vicoli, dai bassi e respirarono per la prima volta la possibilità di una vita piena ed umana. E' questo il periodo che Rea chiama dell'interregno, in quello spazio di tempo tra il 1993 e il 1947, quando l'Italia fu retta da un "Governo fantasma". Fu un periodo in cui la leggi, i divieti, le limitazioni che determinarono il regime e l'ordine della vita normale, furono aboliti, e abolito fu innanzitutto l'ordine gerarchico e tutte le forme ad esso collegate di "terrore, devozione, pietà, etichetta". Fu abolita qualsiasi distanza fra le persone ed entrò in vigore il libero contatto familiare tra gli uomini. Il ruolo ideale per la realizzazione di queste azioni fu il cortile, con i vicoli, adiacenti; oppure l'inferno, in cui tutti gli uomini furono livellati (ad esempio la cantina dell'"Interregno" o il purgatorio di "Ninfa plebea). All'interno di questa situazione di assoluta libertà, l'uomo del basso poté sviluppare completamente quella creatività e quella capacità di azione che in condizioni normali di vita erano state costantemente soffocate e represse. L'interregno rilevò che la passività, la non azione non erano tratti congeniti del loro caratteri, ma dovuti dal contesto storico e sociale. L'interregno, per Rea, acquistò il ruolo di "rivelatore" di sopite possibilità e divenne una rigenerante conferma delle proprie speranze per il futuro dell'uomo del basso.
Ma al di fuori dell'atmosfera dell'interregno, all'interno della vita reale dell'Italia del dopoguerra del mondo da sempre, non è sempre possibile il riscatto dalla miseria, non è sempre possibile neanche la sconfitta del fatalismo e la conquista di una dimensione completamente umana per i personaggi di Rea. Compare subito chiaro nella figura di Assuero. Assuero, nella sua fuga dal basso dell'infanzia, si trova solo finché un giorno "dal beccaio s'era visto perduto. Nessuno aveva pronunciato una parola in suo favore, e c'era anche gente amica, o che lui almeno aveva sempre ritenuto tale". L'errore e la condanna di Assuero nascono dal disprezzo con cui l'uomo ha allontanato in un mondo remoto il basso, insieme ad esso la fitta rete di rapporti umani che al basso erano intrecciati. Nella sua lotta contro il passato, contro la miseria Assuero non ha fatto altro che ripiegarsi su se stesso. Migliorarsi è forse possibile ma significa rimanere soli. Anche Miluzza si migliora accanto a don Peppe poiché può comprarsi i vestiti costosi, ma rimane sola. Si delinea così l'amara visione che ha del mondo lo scrittore.
PERSONAGGIO FEMMINILE
E' da notare anche la particolare attenzione che lo scrittore ha sempre manifestato nei confronti delle figure femminili. "Invano [nella letteratura napoletana] vi cercheremo la femmina violenta, acida e triste, che non tira dalla gola un solo rigo di canzoni per un anno intero. Invano vi troveremo, non so, una Madame Marneff balzachiana. E di queste femmine è piena Napoli, non la letteratura Napoli è una drammatica, tragica, terra di vergini cinquantenni". In questa breve citazione tratta dal saggio "Le due Napoli" Rea volle riassumere i torti e le mancanze della maggior parte della "letteratura romantica meridionale" nei confronti del personaggio femminile, troppo spesso coperto da un alone passionale, ben lontano dalla vera essenza della donna del Sud. Il personaggio femminile si pone anche come tentativo di ridare credibilità umana all'immagine letteraria della donna napoletana, cercando di superare quelle belle, ma non reali, idealizzazioni. E' possibile individuare diversi "tipi" di personaggi femminili. Il tipo più frequente è la madre e/o moglie. Questo tipo di donna viene descritta come una montagna di carne mite e sottomessa a cui si accompagnano determinate caratteristiche morali: fedeltà, sottomissione, la gelosia che può portare fino alla morte.
Contrapposta alla donna madre è la prostituta, raffigurata a volte come un personaggio volgare e sgradevole, altre volte come un personaggio in possesso di una dignità morale. Il terzo "tipo" di personaggio femminile che ci presenta Rea è la donna-angelo, quasi una donna comparsa nel sogno, casta e intoccabile. Rea distingue bene come deve essere la moglie "ricca, onesta, materna, grassa, religiosa" e l'amante "povera, disonesta, snella e senza assoluzioni". Rea comunque descrive personalità di donne combattute tra istinto e ragione, tra fantasia e realtà, costrette a non dare nulla per mantenere intatto quello stesso onore che in seguito le destinerà a un destino di mogli e madri abbandonate e insoddisfatte.
Un esempio emblematico di come queste donne vivono la sessualità è dato da un breve episodio de "L'interregno". Rinchiuso in una cantina per sfuggire ai bombardamenti, con poche speranze di uscire vivo, in una condizione estrema, il protagonista assilla di richieste amorose la sua legittima fidanzata: "sapevo che una parte della sua persona, quella meno in vista, forse era d'accordo con me e che, se fosse stata agli ordini del suo cuore, avrebbe ceduto sia pure a occhi chiusi, stando tra vita e morte<<Ma se usciamo da qua sotto?>> sembrava rispondermi, guardandomi come alla tentazione. <<Se usciamo?>>". Se Elena fosse certa di morire allora potrebbe concedersi all'amato. Si viene a creare quindi una tragica corrispondenza fra amore sessuale e morte.
Non a caso tutti i personaggi femminili di Rea vivono l'amore, inteso nel senso più completo, in modo tragico e spesso nell'amore si perdono o si rovinano: "<<povera donna>><<Aspetta il marito,. Com'era bello! L'aveste visto! Con certi birocci! Con certi Cavalli! Ma com'era delinquente. Lo hanno detto che è scomparso, ma lei non ci crede. Lo attende ancora: di la dalla speranza>>". In queste immagini di donne dolenti, sole, straziate da un sentimento tormentoso e raramente venato di gioia, nulla è concesso al folklore canterino e ridanciano che molte opere non reali hanno disseminato per il mondo. La donna plebea riconquista così nelle pagine di Rea la dimensione autentica della sua dolorosa umanità.
"Vulcanismo, fuoco, fosforo, sangue, estro, dinamismo, truculenza di immagini, becerismo, napoletanismo ostentato e burattinesco con gesti di maschera, caricatura, beffa talvolta esclusiva, buffoneria con sberleffi e sghignazzate, arruffio, eccesso; e ancora pittoricismo rutilante, pirotecnia, lampi di magnesio, sfarfallio, mobilità, fumisteria, barocchismo, vernacolismo alleato ai modi della tradizione classica". Con questa lunga serie di immagini Francesco Lora cercò di sintetizzare una parte dei commenti espressi dalla critica alla comparsa di "Spaccanapoli". Il criterio seguì con intensa partecipazione l'esordio ed i primi successi del giovane scrittore.
Sergio Antonelli rimproverava a Rea l'eccessiva rapidità nella "meditazione della proprie intenzioni d'arte", Antonelli invita lo scrittore ad uscire dai moduli ormai eccessivamente collaudati del bozzetto, tentando di impegnarsi in un'opera di più vasta "architettura".
Carlo Bo scrisse che "un racconto, e un racconto così libero come quello di Rea, non può perdere di vista un punto centrale non dico che si debba arrivare a una morale, a una verità, ma bisogna lasciare al lettore una ragione a portata di mano". Richiedendo a Rea delle conclusioni maggiormente motivate, e quindi un "impegno" crescente, un approfondimento dell'analisi della realtà, al di là del gesto scoppiettante, Bo, s'unì all'Antonelli nell'invito a dilatare la misura del racconto, ad avviarsi verso una "dimensione di più vasto respiro".
Carlo Muscetta fu invece di parere opposto e sconsigliò vivamente e con ragione a Rea di intraprendere la via del romanzo, ritenendo il racconto il mezzo più congeniale alle doti narrative dello scrittore napoletano. Egli riprese il motivo dell'"impegno" e invitò lo scrittore "a parteggiare chiaramente per i suoi eroi straccioni, per il suo <<quinto stato>>".
A Claudio Varese spetta il merito di aver indicato per primo l'importanza del ruolo che il saggio "Le due Napoli" rivestì nell'evoluzione artistica dello scrittore napoletano. "Per intendere Domenico Rea e non lasciarsi né per elogio né per biasimo influenzare dal barocco del suo stile e dimenticare il meglio della sua ispirazione e il fine al quale tende la sua pagina, occorre forse cercare"Le due Napoli" e in "Gesù, fate luce" la "Breve storia del contrabbando". L'ispirazione di queste due opere è secondo Varese, storica ed insieme fantastica, "ma non compiaciuta di falsa realtà". L'esempio migliore in questo caso è rappresentato da "La cocchiera", in cui si intrecciano tutti i motivi di Rea: "il gusto barocco, com'è stato detto, della grande immagine ampia e insieme l'amore, tessuto di realtà, per questa povera gente, che cerca evasioni e consolazioni fantastiche; l'analisi della realtà di Napoli e insieme la nostalgia di un mondo irreale e fiabesco".
Arnaldo Bocelli seguì con grande interesse i primi passi di Rea in campo letterario, perché giudicava lo scrittore come il più napoletano fra i giovani talenti meridionali della nostra letteratura degli anni '50. Secondo il critico i racconti di "Gesù, fate luce" mostravano di saper cogliere e di far convergere "nel fuoco di una metafora o analogia, le immagini più distanti e contrastanti, gli aspetti più corpulenti delle case e le loro più aeree trasparenze, le passioni più torbide e le estasi più serene".
Leone Piccioni aveva indicato l'insidia delle formule facilmente ripetibili, della "tecnica del bozzetto tipico, sempre vivace e appassionante, ma troppo verosimilmente destinato ad un intero esaurimento".
Piccioni invitò lo scrittore ad una più attenta meditazione, "giacché questi temi potranno accendersi di luce non peritura, potranno toccare e commuovere in profondo, solamente quando siano davvero riscaldati, riscattati da un possesso di verità".
Geno Pampaloni diede un riconoscimento alla lenta, ma tenace maturazione dello scrittore, al suo continuo progredire in una ricerca personale.
Giorgio Barberi Squarotti prese invece le distanze da chi tendeva ad inserire l'opera di Rea nell'ambito della produzione neorealista. Se nei primi libri il rapporto dello scrittore napoletano con le cose si era configurato nei modi di una mimesi totale, di una riproduzione perfetta del gesto, della parola e dell'inflessione che potevano far pensare ad una soluzione neorealista, non bisogna mai dimenticare come questa mimesi inglobasse "tutto ciò che cadeva sotto la ricerca eclettica dello scrittore, cioè, sì, i personaggi della miseria napoletana, ma anche il ritmo fantastico del colore comico, la libera invenzione fantastica, il sogno, la magia, il macabro, la disperazione funebre". Sostenitore della vocazione di Rea alla narrazione "breve", Piccioni non vede il romanzo come un tradimento a questo tipo di narrazione, ma come una riproposta della stessa, l'unica all'interno della quale lo scrittore può rimanere fedele alle applicazioni statistiche a lui più congeniali. La pubblicazione del volume "I racconti" fu un'occasione per riproporre il discorso di Rea e per tentare valutazioni complessive sulla sua opera.
Walter Pedullà, considerando l'opera dello scrittore napoletano nel suo complesso, ritiene di poterla collocare appropriatamente "in quella forma meno rigida di naturalismo che è il neorealismo, col suo determinismo, con la rivalutazione dei fatti e del presente". Walter Mauro fu uno dei primi critici a dare particolare rilievo all'opera saggistica di Domenico Rea, fino ad allora piuttosto trascurata, e proprio in quest'opera saggistica, "molto più vasta e impegnata di quanto non si creda, e soprattutto tesa ad indagare le ragioni di fondo di certe crisi sociali, ed anche di certe reazioni della collettività, che formano lo stato dei suoi racconti e dei romanzi", egli ritenne di poter individuare l'antefatto di tutta la narrativa dello scrittore.
Corrado Piancastelli ha sottolineato vivacemente la distanza che separa lo scrittore dalla prosa neorealista degli anni '50, basandosi sia sulla ricchezza del linguaggio, che sull'assenza di una denuncia esplicita, che sulle motivazioni più profonde dello scrittore, che prende a soggetto della propria narrativa la plebe meridionale.
-IL NEOREALISMO MERIDIONALE E REA-
Il mondo naturale e sociale del meridione italiano è entrato nella letteratura alla fine dell'Ottocento, con il regionalismo naturalistico e veristico di Verga, Capuana e degli altri scrittori del tempo.
Questa prima fase è caratterizzata dalla presenza di tendenze contrapposte: da una parte la volontà di offrire elementi di conoscenza della vita delle classi più umili del meridione, scoprendone le qualità istintive, liberandone dagli schemi convenzionali, inserendole nel giro della vita nazionale (Verga); dall'altra la tendenza a cadere di nuovo in schemi letterari convenzionali, compiacendosi di aspetti pittoreschi e folkloristici, limitandosi ad un'illustrazione bozzettistica di quella vita (D'annunzio).
La critica letteraria è propensa a distinguere altre due fasi nel "meridionalismo" della letteratura italiana. La seconda fase si sarebbe avuta negli anni Trenta e Quaranta del Novecento con autori di spicco come C. Alvaro, V. Brancati, I. Silone, F. Jovine, E. Vittorini. Con il secondo dopoguerra sarebbe iniziata la terza fase della letteratura meridionalista. Essa non è più solo caratterizzata dall'opera di scrittori di origine meridionale, ma anche da quella di scrittori settentrionali che osservano le diversità e specificità di queste regioni rispetto a quelle a loro note. L'autore che meglio rappresenta questa terza fase è C. Levi.
Si ripresenta durante le ultime due fasi, quella duplice tendenza ad opere che da una parte riescono a penetrare, con analisi conoscitiva, nella realtà sociale e culturale del sud; e dall'altra parte opere che cadono nel bozzettismo, nelle nostalgie populistiche e mitizzanti di una civiltà contadina che si sta ormai dissolvendo, nelle facili e moralistiche denunce degli antichi mali. Sono poi questi pericoli che Rea presenta nel saggio "Le due Napoli". E Rea, scrittore sicuramente meridionale, combatte appunto contro quella tradizionale falsificazione perpetrata dagli scrittori napoletani della vita napoletana e dei caratteri del suo popolo. La spinta a porre il meridione al centro della ricerca letteraria è venuta dalle poetiche del "neorealismo". E il neorealismo come ha scritto Calvino "non fu una scuolafu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l'una all'alta - o che si supponevano sconosciute -, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato "neorealismo". Ma fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco.
La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità ad una rappresentazione cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondoContinuo a parlare come se alludessi ad un movimento organico e cosciente, anche ora che sto spiegando che era proprio il contrario".
E', a questo punto, doveroso aprire una parentesi su come la critica abbia considerato Rea nel contesto culturale-letterario del periodo. I critici, che hanno analizzato Rea, si sono spaccati fra chi lo ha definito neorealista e chi invece lo ha dichiarato un autore più autonomo, senza collegarlo a particolari correnti letterarie. Alla luce della particolare definizione di neorealismo data da Calvino mi sembra giusto dichiarare Rea appartenente a questo insieme di voci. Calvino, infatti, non definisce il neorealismo una scuola che ha, quindi, un programma preciso a cui aderire, ma lo definisce un insieme di voci, un movimento non organico e cosciente. Secondo questa definizione emerge chiaramente come ogni autore abbia potuto vedere e rappresentare la realtà secondo il proprio punto di vista, lontano da qualsiasi tipo di canone prestabilito.
Neorealista, ancora, secondo la descrizione di Calvino, perché la sua è una voce periferica, che racconta di una delle tante Italie, e cioè quella meridionale, e in particolare l'Italia di Napoli. Una città sconosciuta poiché come afferma Rea nel saggio "Le due Napoli", è stata trasfigurata e idealizzata da molti autori che ne hanno dato un'immagine falsa. E' neorealista anche perché Rea riesce a far "lievitare e impastare" il dialetto nella lingua letteraria, sono molti infatti i criteri che apprezzano questa dinamicità del linguaggio dello scrittore napoletano. E soprattutto perché "non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco", infatti nelle sue descrizioni della città si riconoscono i caratteri di una realtà più ampia, Napoli o Nofi appaiono delle collocazioni geografiche superflue. Certo Napoli c'è, perché Rea deve legare il racconto secondo la propria esperienza e sensibilità formatesi nella plebe napoletana. Ma lo scrittore, cogliendo l'essenza, finisce con il descrivere situazioni fenomeniche (psicologiche, storiche, economiche) comuni ad un concetto di Mezzogiorno che non è più solo italiano. Proprio cogliendo i contrassegni comuni della miseria, Rea arriva a trarre da essi un insegnamento universale, che non è cioè valido solo per Napoli o il meridione Italiano. E' giusto a questo punto chiarire perché molti critici non considerano Rea un Neorealista. L'accusa che maggiormente questi critici rivolgono a Rea è quella di non aver espresso chiaramente una denuncia sociale nei suoi racconti. Se Rea infatti esprime una denuncia, questa si verifica solo nei saggi. A difesa del neorealismo di Rea vorrei citare nuovamente l'espressione di Calvino "insieme di voci", cioè diversi modi di ogni autore di interpretare la realtà che uniti hanno dato vita a questa corrente.
-REA E BOCCACCIO-
"Se si dovesse indicare un altro scrittore che ha visto Napoli nella sua plasticità e la sua gente incatenata ad una omertà di interessi, dobbiamo riaprire l'"Andreuccio da Perugia" del Boccaccio. Il Boccaccio ha scritto il più realistico racconto napoletano, di una attualità sconcertante. Andreuccio è il cafone che viene a Napoli. Cafone è colui che abita fuori Napoli - la grande città con i suoi trabocchetti - e perciò è designata vittima del destino prima che degli uomini. Nell'"Adreuccio" c'è l'astuzia feroce delle prostitute, la violenza dei magnacci. Quella notte oscura, quel vicolo puzzolente e spaventoso, sono una sintetica storia del nostro mondo uno scrittore fermo e sano come Boccaccio occorrerebbe per una rappresentazione artistica del nostro mondo". E' in questo modo che Rea nel saggio "Le due Napoli" parla di Boccaccio. Rea si accorge che Boccaccio descrisse Napoli, in questa novella del Decamerone, già nella prima metà del Trecento e ancora oggi, questa descrizione, potrebbe considerarsi, per molti aspetti, attuale.
"Andreuccio da Perugia" è la quinta novella, raccontata da Fiammetta nella seconda giornata, dedicata alle avventure a lieto fine. Andreuccio viene subito descritto come "rozzo e poco cauto" e cioè inesperto e imprudente nel far vedere i suoi soldi, per una città come Napoli. Subito dopo compare la prima figura che cerca e riesce a raggirare Andreuccio e cioè "una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per piccol pregio". L'astuta prostituta, sentita da una vecchia la storia di Andreuccio, si fa passare per una sua sorella illegittima. Significativo è il nome del quartiere dove abita la donna: "Malpertugio", "mal" sta per disonesto e "pertugio" per un'apertura nelle mura della città di lì non molto distanti. Ed è lo stesso Boccaccio a farci notare il nome del quartiere "la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra". Andreuccio di fronte a questa donna che sapeva tutta la sua storia, finisce per credere alla menzogna raccontatagli. E a causa di questa donna Andreuccio finisce per rimanere prima a cena e poi a dormire. Spogliatosi, Andreuccio sente il bisogno di andare in bagno e quindi chiede al garzone che ha in camera dove sia e gli indica una porta. "Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra la tavola, la quale dalla contrapposta parte sconfitta del travicello sopra il quale era; per la qual cosa capolevando questa tavola con lui insieme se n'andò quindi giuso: e di tanto l'amò Iddio che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, si imbrattòEgli era in un chiassetto stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l'una casa e l'altra posti, alcune tavole eran confitte il luogo da seder posto, delle quali tavole quella che con lui cadde era l'una".
Ecco che qui Boccaccio ci à una descrizione fortemente realistica di come appariva questo posto. Andreuccio caduto in questo "chiassetto" che non è altro che un vicoletto sormontato da un passaggio comincia a chiamare la sorella, la quale, visto che Andreuccio aveva lasciato i soldi nella camera, fa finta di non conoscerlo. Il rumore, che fa Andreuccio, finisce per svegliare i vicini della siciliana, i quali lo credono un ubriacone. E fra gli altri si sveglia anche un "magnaccio" e cioè un protettore di prostitute, che è una figura corrente nelle descrizioni di Rea, e che Boccaccio sa cogliere. Ecco come lo scrittore fiorentino ci descrive il suo "magnaccio": " mostrava di dover essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto, e come se dal letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi". Così Andreuccio, spaventato da quest'uomo, decide di andar via senza, però, sapere di preciso dove. Andreuccio conosce allora due uomini che, ascoltata la sua storia, lo invitano a partecipare con loro ad un saccheggio dove sicuramente potrà rifarsi dei soldi perduti. Si trattava di saccheggiare la tomba dell'arcivescovo Filippo Minutolo, seppellito quel giorno, ornato di ricchissimi gioielli fra i quali un anello con un rubino che vale più di tutti i soldi che ha perso Andreuccio. Una volta aperta la tomba, i due riescono a convincere Andreuccio ad entrare nella tomba dalla quale egli passa tutti i gioielli tranne l'anello. Andreuccio si è scaltrito, sa che se passerà l'anello i due fuggiranno senza dividere con lui niente. Ma una volta che Andreuccio finisce di passare tutto ciò che si poteva rubare i due scappano chiudendolo nella tomba. Il protagonista tenta più volte di uscirne, ma non ci riesce e, quando ormai ha perso ogni speranza di uscire vivo, arrivano altri ladroni per far ciò "che esso co' suoi compagni avean già fatto". Anche fra questi ladri si pone il problema di chi debba entrare nella tomba. Stavolta però si offre volontario un prete, il quale, dopo aver messo una gamba dentro la tomba se la sente tirare e allora emette un fortissimo grido di paura, che fa scappare via tutti, lasciando la tomba aperta. Andreuccio può così uscire e tornarsene a Perugia con il suo rubino.
Emerge chiaramente in questa descrizione come siano tutti tesi al guadagno, e come per questo guadagno non ci si fermi davanti a niente. La prostituta si dimostra di un'ingegnosità stupefacente. I due ladroni, che inizialmente si dimostrarono amici di Andreuccio, non esitano a chiuderli dentro la tomba, nonostante ciò potesse causare la sua morte.
La prova di denaro non ferma i due ladri di fronte alla morte, né di fronte al fatto che il saccheggio sarebbe avvenuto in una chiesa a danno di un uomo di chiesa. E ad evidenziare ciò Boccaccio pone un prete come ladro nel secondo gruppo di delinquenti. Ecco che veramente Rea ha ragione quando definisce Boccaccio uno di quei pochi autori che sono riusciti a descrivere la realtà di Napoli. Boccaccio, scrittore non napoletano, anche se passò il lungo tempo in questa città, ne riesce a cogliere la drammatica realtà. E come lo stesso Rea dice, sempre nel saggio "Le due Napoli": "La notevole differenza tra il visto e il sentito degli scrittori forestieri e i nostrani, consiste in: i nostrani sono rimasti vittime del pregiudizio tradizionale secondo cui Napoli è un paese di brava gente, dato il sole, l'allegria, ecc. e i forestieri, spregiudicati e potenti scrittori, si sono limitati a rappresentare e spesso hanno fatto centro".
MAFIA E MAFIE
In Italia "le organizzazioni criminali di rilievo internazionale sono la camorra, localizzata soprattutto in Campania, la 'ndrangheta, che opera in Calabria, e la Mafia, o meglio Cosa nostra - che ne è la denominazione più esatta - diffusa in Sicilia. Tutte e tre le organizzazioni possono essere definite in generale come mafiose o di tipo mafioso, in quanto operano secondo metodi che sono tipici della mafia: violenza e intimidazione, attraverso cui producono tra la popolazione una condizione generale di sottomissione e di omertà. Al di là di questi elementi comuni, ogni organizzazione ha strutture e caratteristiche proprie".
Questa è la definizione di mafia data da Giovanni Falcone in una conferenza tenuta in Germania nell'autunno del 1990.
La Camorra è l'organizzazione di tipo mafioso presente in Campania. Essa non ha una struttura unitaria, ma è formata da più "gruppi" locali che sono spesso in competizione tra loro. La camorra è impegnata nel commercio internazionale di droga, la maggior parte cocaina. Essendo composta da più "gruppi" la sua struttura organizzativa non si sviluppa in verticale, ma in orizzontale e cioè non c'è come per Cosa nostra una struttura piramidale. Sono stati vari i tentativi di unire la camorra in un'unica associazione organizzata, ma finora tutti questi tentativi sono, per fortuna, falliti. Quello di Raffaele Cutolo fu il maggior tentativo e finì agli inizi degli anni Ottanta con una strage. Dopo questo fallimento, la camorra si è estesa maggiormente oltrepassando i confini campani, grazie ad un'intensificazione del commercio della droga, alla crescente disoccupazione giovanile e al tragico terremoto del Dicembre del 1980 che, distruggendo larghe zone della Campania, ha permesso il controllo dei finanziamenti pubblici per le ricostruzioni da parte di quest'organizzazione.
Simili considerazioni si possono fare per la 'ndrangheta, presente in Calabria dove le condizioni economiche e sociali sono peggiori. Anche quella della 'ndrangheta è una struttura organizzativa orizzontale, e composta da più gruppi, detti cosche, i cui membri, differentemente da come avviene per la camorra, sono scelti in base a legami di sangue. Questo porta alla formazione di sanguinose faide fra le diverse famiglie che molto spesso, non hanno niente a che fare con le attività illecite. La 'ndrangheta si è sviluppata soprattutto nei sequestri di persone a scopo di estorsione. I sequestri avvengono soprattutto nell'Italia settentrionale, e questo dimostra che queste cosche conoscono bene il settentrione, e che qui hanno appoggi che permettono loro di nascondere a lungo gli ostaggi e di riciclare il denaro sporco ottenuto. La 'ndrangheta ha modelli di comportamento più arcaici rispetto alle altre organizzazioni, ma questo non la rende certo meno pericolosa. Tutte e tre le organizzazioni condividono però le caratteristiche essenziali e cioè il controllo sul territorio, l'influenza sugli organi amministrativi locali, l'estorsione di denaro a danno delle imprese e l'organizzazione del traffico di droga.
La mafia, nel senso più assoluto come la intendiamo noi oggi ha sede e origine in Sicilia. Qui è presente sotto forma di un'organizzazione unica, strutturata piramidalmente che prende il nome di Cosa nostra. Sono presenti nell'isola anche altre organizzazioni, ma esse sono minori e operano in contrasto con Cosa nostra. Proprio la sua struttura unitaria e piramidale, oltre all'elevato numero dei suoi membri, le permette di muoversi unitariamente e quindi con maggiori risultati. Essa si è sviluppata anche in altre regioni d'Italia ampliando così i suoi confini e divenendo realtà nazionale. Essa è riuscita a svilupparsi anche in America, che però è ormai diventata da anni una realtà indipendente dall'Isola. Cosa nostra è certamente l'organizzazione criminale italiana più pericolosa, poiché, mentre le altre organizzazioni sono unite al loro interno da una sorta di spirito di fratellanza, in esse questo spirito ha assunto l'aspetto di un'alleanza federativa che ha prodotto un'organizzazione unitaria.
Molti esperti, per lungo tempo hanno creduto che essa fosse una sequenza di singole bande criminali, in continua lotta fra loro, e che sarebbero scomparse con un miglioramento delle condizioni sociali. Ma non è stato così. Cosa nostra è, invece, come uno "Stato nello stato" con proprie rigide leggi imposte con la violenza. Ciò che fa di quest'organizzazione criminale la più pericolosa d'Italia è il fatto che essa si fonda su una rigida selezione, in base alla quale, dopo un periodo di osservazione, vengono reclutati solo i più capaci, e in questo caso i più violenti e omertosi. A rafforzare la sua immagine concorre il fatto che le regole che essa impone devono essere eseguite necessariamente, pena la morte. L'omertà, il silenzio, sono due delle maggiori qualità che un mafioso deve avere, e che lo rendono "uomo d'onore". A causa dell'aumentare dei vari pentiti, il nome e il numero delle famiglie appartenenti a Cosa nostra sono a conoscenza solo dei più potenti, questo per meglio salvaguardare l'organizzazione.
Il commercio di droga ha cominciato ad interessare Cosa nostra solo agli inizi degli anni Settanta, poiché prima non aveva i mezzi finanziari, che si è creata con i ricatti a scopo di estorsione e con il contrabbando di sigarette. Attraverso l'infiltrazione nelle altre organizzazioni ha potuto svilupparsi, nel resto del meridione e, tramite l'immigrazione di meridionali al nord, ha potuto svilupparsi anche nell'Italia settentrionale, dove più facile era il riciclaggio del denaro sporco. I motivi della nascita di queste organizzazioni vanno ricercati, secondo me, nella situazione venutasi a creare quando il Regno delle due Sicilie entrò a far parte del Regno Sabaudo dando vita così al Regno d'Italia (17 marzo 1861). Il nuovo stato allora venne visto quasi come un conquistatore al quale si dovevano solo oneri (tasse, servizio militare) senza nessun guadagno. Le nascenti organizzazioni criminali si preoccupavano di ascoltare e cercare soluzioni ai problemi delle masse popolari. Il risultato fu che in queste popolazioni crebbe la sfiducia verso lo stato a favore della mafia. Le organizzazioni criminali nascono quindi grazie all'appoggio delle masse popolari, le quali è vero che sono costrette a pagare forti tributi, ma ne ricevono protezione. Le ultime stragi mafiose, e soprattutto quelle che hanno provocato la morte dei due magistrati Falcone e Borsellino, hanno aumentato un sentimento di insofferenza da parte dei meridionali
verso la mafia. Ma purtroppo, oggi, la mafia non si fonda più sul consenso popolare, ma sugli appoggi politici e finanziari.
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