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Commento al passo dell'Orlando Furioso 'Astolfo sulla luna'
Uno degli episodi più interessanti e significativi dell'intera opera dell'Ariosto è sicuramente quello di Astolfo sulla luna. Il paladino, partito dalla Francia per puro desiderio di avventura, si trova a dover compiere una delle imprese più importanti dell'intera vicenda: la discese agli Inferi e la successiva risalita al Paradiso, da cui poi, grazie ai consigli e all'aiuto della sua guida San Giovanni, raggiungerà la luna con lo scopo finale di recuperare il senno di Orlando.
Il passo si apre con la descrizione paesaggistica del luogo in cui il protagonista si trova, parlando delle dimensioni e dell'aspetto della Terra vista dal suo satellite. In seguito si descrive in generale il vallone delle cose perdute, infatti sulla luna si radunano tutte le cose che le persone, e che una volta raggiunta la superficie lunare non possono più essere recuperate. Alla fine della strofa LXXIII l'autore elenca le tre cause che possono essere all'origine dello smarrimento di qualcosa: si perde o per nostro diffetto, o per colpe di tempo o di Fortuna. Perciò si può perdere a causa degli errori individuali, a causa del tempo o a causa della sorte, appunto la Fortuna latina. Gli esempi che in seguito l'Ariosto ci fornisce sulla vanità umana nelle strofe LXXVI-LXXXI sono chiaramente perdite causate da errori individuali, che si possono anche interpretare come peccati. Le lacrime e i sospiri degli amanti, l'inutil tempo che si perde a giuoco, e l'ozio lungo d'uomini ignoranti, vani disegni che non han mai loco sono invece cose perdute a causa del tempo, mentre quelle perdute per colpa della sorte sono ovviamente gli oggetti e le ricchezze che si perdono accidentalmente, talvolta senza nemmeno accorgersene.
Ma sulla luna di Ariosto c'è pochissimo spazio per i beni materiali, le cose perdute dagli uomini non sono semplici oggetti: sono viste sopratutto come le virtù inutilizzate, o le azioni vane prodotte dagli individui che commettono dei peccati.
Le cause sopra descritte, potrebbero essere collegate a loro volta alle diverse accezioni che il verbo 'perdere' acquista durante la descrizione dell'avventura di Astolfo. Infatti, esso può essere inteso nel senso di perdere-cessare di avere, l'effetto causato dalla sorte per l'appunto, di cui troviamo un esempio nella strofa LXXIV, quando si parla di regni e ricchezze in che la ruota instabile lavora; il perdere-cessare di esistere, esaurirsi, che si può riferire alla molta fama della strofa LXXIV, o anche al senno stesso, che non esiste più nel senso che la persona a cui appartiene non può più utilizzarlo né recuperarlo, se non grazie ad un intervento divino, come quello che avviene nell'Orlando Furioso. Gli altri generi possono essere quello del perdere-produrre senza risultati o con risultati precari, evidenziato sopratutto tra la fine della strofa LXXIV e la LXXV, causato dal tempo, in cui sono compresi gli infiniti prieghi e voti, le lacrime e i sospiri degli amanti, l'inutil tempo che si perde a giuoco, l'ozio lungo d'uomini ignoranti e i vani disegni che non han mai loco; e, più importante di tutti gli altri, a cui l'Ariosto dedica una parte maggiore di analisi ed esemplificazione, il perdere-sprecare, quello causato dagli errori individuali. Per descrivere quest'ultimo, l'autore ha costruito moltissime metafore tra la strofa LXXVI e la LXXX, riferendosi nella maggior parte dei casi alla realtà a lui più conosciuta: quella cortigiana. Dedica infatti l'intera strofa LXXVII ai cortigiani corrotti, la LXXVIII ai signori corruttori, proseguendo poi nella LXXIX e nella LXXX descrivendo i peccati presenti nella vita politico-sociale dell'epoca in cui l'Ariosto ha vissuto. Così facendo, lo scrittore ferrarese rivela anche una marcata autoironia, riuscendo ad analizzare i mali che attanagliavano la società cinquecentesca e al tempo stesso focalizzandosi sulla corte, vale a dire il suo mondo quotidiano, evidenziandone i difetti.
Alcune delle metafore che rappresentano la vanità umana nel testo sono particolarmente efficaci: tra quelle che si riferiscono ai cortigiani corrotti, quella degli ami d'oro e d'argento, che stanno ad indicare i regali offerti ai superiori con la speranza di entrare nei loro favori, o quella delle cicale scoppiate, che riportano alle composizioni create dai cortigiani per elogiare i propri padroni (esattamente come Ariosto aveva fatto componendo l'Orlando Furioso in onore del cardinale Ippolito d'Este). Nella strofa sui signori corruttori spiccano le immagini dei nodi d'oro e ceppi gemmati, che sono gli amori sfortunati fin dall'inizio, e i mantici, che sono gli onori che gli aristocratici concedono ai propri favoriti, ma che, appena la gioventù di questi finisce, gli negano. Le figure più espressive sulla vita politico-sociale sono invece ruine di cittadi e di castella, le rotture di trattati e le congiure; serpi con faccia di donzella, ossia le malefatte di ladri e falsari di denaro; le boccie rotte, i cortigiani, gettati via come spazzatura quando non servono più; le minestre versate, le inutili elemosine fatte in punto di morte, per paura del giudizio divino; varii fiori che putia forte, la donazione del castello di Sutri, fatta da Costantino a Papa Silvestro.
La luna nell'Orlando Furioso assume quindi un significato simbolico assai particolare: essa funge da discarica per tutte le cose che gli uomini perdono sulla Terra, è un luogo filosofico in cui Ariosto, attraverso gli occhi pieni di curiosità e di voglia d'avventura di Astolfo, invita tutti i lettori a riflettere sulla vita umana e sui suoi sprechi, ma sopratutto sugli aspetti peggiori dell'attualità cinquecentesca, cogliendo per l'ennesima volta nel poema l'occasione di ricordare che il destino dell'uomo è basato sulla follia.
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