De Vulgari Eloquentia
Trattato
latino ideato e composto nei primi anni dell'esilio (1303-4), contemporaneo o
di poco anteriore alla stesura del primo libro del Convivio, dove sotto altro
punto di vista, ma con evidente analogia di concetti, si affronta lo stesso
problema della lingua e dell'arte in volgare. Nella lucida concisione di un
pensiero, che vi si organizza dialetticamente su se stesso con logica e
stringente necessità, e negli atteggiamenti stilistici, che assecondano con
pause o clausole ritmiche ('cursus') il giro del periodo e l'animato
tono della discussione, il trattato si rivela come il frutto di una salda
cultura scolastica e dettatoria. Il fine didattico a cui s'ispira lo colloca
nel solco della retorica tradizionale ('eloquentia', 'arte del
dire'); ed era, nelle intenzioni di Dante, indirizzato esclusivamente ai
rimatori forniti di cultura e d'ingegno, perché nelle loro composizioni non
procedessero 'casualiter', con pieno abbandono all'onda della loro
ispirazione, ma la dominassero 'regulariter', con magistero d'arte,
padroneggiando nel tempo stesso la materia e il reale. Dante concepì la sua
opera come sintesi e somma di tutte le varie esperienze di lingua e di stile,
in prosa e in verso, attraverso le quali era passata la sua arte; qui giustificata
in se stessa nel suo valore formale ed espressivo: dichiarata e illustrata
entro lo svolgimento storico della lingua e della cultura letteraria italiana.
Pur troppo il trattato, incominciato con bell'impeto dimostrativo, rimase
bruscamente interrotto a mezzo il capitolo decimo quarto del libro secondo,
proprio quando l'insegnamento dell'espressione d'arte in volgare
('doctrina vulgaris eloquentiae') cominciava a disnodarsi e a
concretarsi con dovizia di argomentazioni e di esempi. Così come ci è pervenuta,
l'opera ci nega la possibilità di fissarne con esattezza la particolare
fisionomia e di determinare quanto manca alla sua compiutezza, pur sapendo per
espliciti rimandi (II, IV, 1; XIII, 8) ch'essa si sarebbe per lo meno estesa a
un quarto libro. Prima pubblicazione a stampa è quella curata da Jacopo
Corbinelli a Parigi nel 1577. La materia o 'subiectum' che Dante pone
a fondamento della sua trattazione è la 'locutio vulgaris'; il
linguaggio umano inteso nella sua universalità, come mezzo di espressione e di
comunicazione da uomo a uomo; 'naturalis', in quanto risponde ai fini
immanenti alla natura umana ordinata essenzialmente alla vita sociale o
politica, ma opera dello spirito e della libertà, che s'aggiunge allo sforzo
della natura e la continua nella sua stessa linea. Accanto alla 'locutio
vulgaris' si pone, ma non sempre, una 'locutio secundaria potius
artificialis': il linguaggio della cultura, espressione di una determinata
civiltà, come svolgimento propriamente umano e principalmente intellettuale,
morale (pratico e artistico) e spirituale, nella più generica accezione della
parola. Questo linguaggio della cultura si dice anche 'grammatica',
come forma linguistica ideale che si conquista con lungo addestramento e
assiduo studio, imponendosi come norma a coloro che, nella vivente realtà del
linguaggio, prendono coscienza del suo valore espressivo. A dar sostanza di
verità a questi due concetti ('locutio vulgaris' e 'locutio
secundaria') Dante procede con ragionata dimostrazione che occupa tutto il
primo libro e ne dichiara il carattere specifico di introduzione generale. Il
linguaggio, come attività spirituale che presuppone il pensiero, è necessario
soltanto all'uomo; non agli angeli, che nella loro beatitudine celeste
possiedono una reciproca intuizione dei loro pensieri; non ai bruti, che sono
guidati dall'istinto. Solo l'uomo, che è un composto di anima e di corpo, ha
bisogno della parola: un 'signum' intellettuale e sensibile a un
tempo, di cui si serve per far presente agli altri il proprio verbo interiore
('ratio') e risvegliare negli altri la stessa attività del pensiero;
in modo che colui che ascolta pensi ciò che pensa l'intelligenza di colui che
parla. Animale naturalmente socievole, l'uomo tende a manifestarsi mettendo in
luce la sua persona morale con quell'attività del pensiero ('forma
locutionis') che fu concreata con l'anima prima. Ond'è ragionevole
supporre che Adamo, creato in istato di grazia, sia stato il primo parlante,
manifestando con la parola la sua gioia e la sua gratitudine verso Dio
creatore. Di questa stessa attività di pensiero, che fu un dono gratuito di Dio
e per la quale il primo parlante si rivelò spontaneamente come persona rilegata
a Dio per amore, si servirono i discendenti di Adamo fino a Cristo, perché il linguaggio
della grazia fosse pure il linguaggio umano del figlio di Dio. L'idioma che
Adamo si foggiò con le sue labbra si storicizzò nella lingua del popolo
ebraico: fu l'ebraico. Ma quel naturale orgoglio che fece gli uomini ribelli a
Dio al tempo della torre di Babele, infranse l'unità spirituale della prima
famiglia umana. I vari gruppi dei costruttori della torre, volti
appassionatamente ai loro fini particolari e soggettivi, non s'intesero più tra
loro.
Così la
primitiva 'forma locutionis' propria della persona morale si continuò
soltanto nel popolo eletto, mentre, accanto a essa, sorsero altre 'formae
locutionis' nate dall'orgoglio e dall'egoismo. Esse originarono nuovi
idiomi, come espressione comune delle singole comunità sociali che si costituirono
vitalmente per opera della ragione. Queste comunità si dispersero in varie
direzioni per tutta la terra; e quella che si diffuse in Europa portò con sé un
unico idioma, presentemente differenziato in triplice varietà
('tripharium'): a nord il germanico, con i suoi molteplici volgari; a
sud-est il greco; a mezzogiorno un terzo idioma, che a sua volta si differenzia
nei tre volgari d''oc' d''oil' e di 'sì'.
Quest'ultimo 'idioma tripharium' non può essersi costituito al tempo
della confusione babelica delle lingue, opponendosi a tale ipotesi la
convenienza di molte voci nei tre volgari che lo differenziano: convenienza da
cui si deduce un'anteriore unità. Se poi osserviamo il volgare di
'sì', eccolo differenziato in altri volgari particolari. Il linguaggio
umano - eccetto quello che fu concreato con l'anima del primo parlante - si
ricostituì dunque come mezzo di comunicazione da uomo a uomo dopo la confusione
delle lingue, e poiché l'uomo è un animale estremamente instabile e mutevole,
il suo linguaggio, in quanto effetto della libera attività dello spirito,
continuamente si trasforma e si differenzia per lontananza di tempi e di
luoghi, come nel tempo e nello spazio si differenziano e si trasformano usi e
costumi. Per ovviare a tale instabilità sorsero coloro che determinarono le
forme in cui artisticamente si realizza l'espressione ('inventores
gramaticae facultatis'), non essendo la grammatica che una 'certa
identità di linguaggio inalterabile attraverso a tempi e luoghi diversi'.
Un linguaggio letterario o 'secondario' nelle cui forme espressive
concorda, come libera attività dello spirito che crea, una vasta comunità di
parlanti, opponendosi all'arbitrio individuale. Questo linguaggio permette agli
uomini di intendersi tra di loro anche se di regioni diverse, e di tramandare
il loro pensiero ai discendenti più lontani. Chiarito in tal modo il concetto
di linguaggio, nella sua universalità di natura e quello di lingua letteraria o
'grammatica', le cui forme ideali, nella vivente realtà del
linguaggio, coincidono con le forme storiche, Dante passa a paragonare tra loro
le tre lingue letterarie (francese, provenzale e italiano) nate in seno al
triforme idioma dell'Europa meridionale. Egli rileva subito che una certa
preminenza pare arrogarsi la lingua letteraria italiana, per il fatto che i
codificatori dell'uso ('gramaticae positores') hanno preso
'sic' come avverbio di affermazione. Tuttavia egli riconosce alla
lingua d''oil', in virtù della sua facile e piacevole diffusione, il
vanto della prosa narrativa e didattica; a quella d''oc', come più
dolce e più perfetta, il merito di aver servito ai primi poeti in volgare; e a
quella di 'sì' un duplice pregio: primo, perché coloro, che presero
coscienza del suo valore e l'ebbero cara, poetarono con dolcezza d'accenti e con
nobiltà di pensiero, come Cino da Pistoia e il suo amico (Dante); secondo,
perché mostra d'appoggiarsi maggiormente alla lingua letteraria
('gramatica') che è comune: cioè al latino, che sovrasta alle tre
lingue volgari. Con questi due criteri, che sono d'arte e di maggiore aderenza
delle forme espressive volgari alle forme letterarie del latino, Dante passa in
rassegna, paragonandole tra loro, le varietà dialettali del volgare italico
('vulgare latium'), individuale ciascuna entro i limiti segnati dalla
geografia e dalla storia. Sono quattordici le varietà principali; e queste si
differenziano in varietà secondarie; e ognuna di esse in ulteriori varietà, sì
che a volerle annoverare si supererebbe il migliaio. In mezzo a tanta varietà
di parlate regionali, municipali e locali, Dante si pone in cerca di una lingua
che risponda, in se stessa, alle esigenze di una lingua letteraria che sia
veramente italiana ('decentiorem atque illustrem Italiae loquelam').
Ed è qui che si rivela lo spirito informatore del Trattato; lo spirito di
Dante, che nel volgare italico, come egli stesso afferma, nel Convivio (I,
XIII, 4 sgg.), sente vibrare la vita della sua anima, profondamente radicata
nella vita della sua nazione, e perciò nella storia dello spirito italiano.
Sotto questa luce e in armonia con i due criteri dianzi fissati, di stile e di
lingua, Dante esamina i singoli dialetti italiani nell'immediatezza delle loro
espressioni concrete e nella particolarità delle loro pronunzie; e li condanna
tutti, riconoscendo però che alla lingua letteraria d'Italia si sono avvicinati
quanti si risollevarono dal linguaggio regionale o municipale. In primo luogo i
poeti della Corte di Federigo II e di Manfredi, i due principi che favorirono
quanto nelle cose umane è opera della ragione e delle virtù; onde ciò che di
meglio compirono allora gli italiani uscì dalla loro Corte; e poiché il loro
titolo era di re di Sicilia, si disse siciliana la prima nostra produzione
poetica. La perfezione artistica nelle proprie singole parlate Dante la
riconosce ai toscani: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, 'un altro' (se
stesso) e Cino da Pistoia; ai bolognesi Guido Guinizelli, Guido Ghisilieri,
Fabruzzo e Onesto; ai faentini Tommaso e Ugolino Bucciola e a Ildebrandino da
Padova. Quanto ai dialetti settentrionali di confine, Dante nega che possano
assurgere al vero parlare italiano ('vere latium'), a causa della
loro contiguità a parlate straniere. Poiché ciò che Dante cerca è un linguaggio
letterario che sia, in se stesso, spiritualmente italiano ('latium
illustre'); il quale c'è, esiste, dando sentore della sua presenza in ogni
città d'Italia, senza essere di nessuna. Italianità del linguaggio, la quale è
un 'unum in multis': qualcosa che non si può cogliere nella sua
essenza semplicissima se non trascendentalmente, attraverso alle sue
manifestazioni concrete, come segni esteriori che ne dichiarano l'esistenza.
Italianità, che si rivela nei costumi, nelle disposizioni naturali e nel
linguaggio di tutti gli italiani, costituendo in se stessa l'essenza propria di
quel volgare 'illustre, cardinale, aulico e curiale', sul quale si
misurano, si pesano e si paragonano i vari volgari municipali d'Italia. In
ordine alla sua essenza (il 'quid'), questo volgare deve dirsi
'illustre', perché, sublimato dall'arte, si illumina e illumina: cioè
si mette in luce nelle sue proprie capacità espressive dominando gli animi,
mentre dà luce di gloria a coloro che lo coltivano e se ne servono. Ne sono
esempi Cino da Pistola e l'amico suo (Dante). In ordine alle sue operazioni, tale
volgare deve dirsi 'cardinale', in quanto agisce da cardine; ossia,
con le sue proprie virtù, da vero 'pater familias', trae i dialetti
municipali dal loro stato di selvatichezza o incultura e li solleva a una sfera
superiore di cultura, che è appunto la 'civilitas' italiana. E poiché
tale linguaggio è manifestazione di 'civilitas', che è 'forma
rationis', deve ancora definirsi 'aulico' e 'curiale'.
E cioè: 'colto o civile', come è il linguaggio della Corte
('aula'), che è la casa comune del regno e la governatrice augusta di
tutte le sue parti. E 'curiale', perché l'esprimersi civilmente è un
dovere che scaturisce dal seno stesso della 'civilitas', che è vita
di ragione e di virtù: un dovere morale, che le 'curie' sanzionano
come equilibrata norma di agire ('curialitas') e che in Italia è
dettato dalla sua curia più alta. È vero che in Italia non c'è, come in
Germania, una curia unificata da un solo principe; ma ce ne sono le membra, le
quali sono unificate dal lume della ragione naturale, che è un dono gratuito di
Dio. Questa ragione naturale, a cui Dante allude, è quella che opera vitalmente
nelle cose umane, stringendo tra loro gli uomini in organismi sociali sempre
più vasti e complessi, dalla 'domus' alla 'civitas', dal
'regnum' all''imperium' (Convivio, IV, 4; Monarchia, I, 5).
Il volgare che è di tutta l'Italia, e nel quale poetarono maestri illustri di
distinte regioni, è il 'vulgare latium': il linguaggio della
'civilitas' italiana; il 'volgare italico', che Dante esalta
nel Convivio (I, VII, 5) in quanto per esso si sente unito, in una vita che è
di storia, di usanze e di costumi, 'con li parenti e con li proprii
cittadini e con la propria gente'. - Fissati i caratteri del volgare
illustre, Dante passa, nel secondo libro, a farlo oggetto della sua arte del
dire ('eloquentia').
Il volgare
illustre, che si può usare tanto in prosa quanto in verso, esige uomini che
concordino con lui per similitudine di natura ed eccellano perciò per ingegno e
dottrina. Questa conformità ('convenientia') si richiede ancora circa
gli argomenti da trattarsi; i quali non possono essere se non il massimo e
l'ottimo secondo la triplice natura dell'uomo (vegetativa, sensitiva e
razionale) ordinata a un triplice fine: utile, dilettevole e onesto; e cioè:
'salus, venus et virtus', prodezza d'armi, gaudio d'amore,
rettitudine della volontà ('drittura'). Tre motivi poetici, nel primo
dei quali si distinse Bertrand de Born, nel secondo eccelsero Arnaldo Daniello
e Cino da Pistoia, e, nel terzo, Giraut de Borneil e Dante. Tra le forme
metriche consuete: canzone, ballata e sonetto, soltanto la prima si conviene al
volgare illustre, perché propria dello stile più elevato o tragico; mentre le
altre due s'addicono allo stile mediano o comico; al di sotto del quale è lo
stile umile o elegiaco. Distinzione di stili sanzionata dai retori antichi, ma
legata medievalmente a tre forme letterarie, che sono poi tre atteggiamenti
della coscienza estetica. Poiché la poesia è 'invenzione o creazione
fantastica espressa in versi con bello stile e arte musicale', la canzone,
che è la forma lirica più nobile, non deve essere composta 'a caso'.
Essa deve esemplarsi sul modello dei grandi poeti latini,
'regulares', poiché 'i grandi hanno poetato con lingua e arte
regolare'. Ideale dantesco di una poesia in volgare 'italico',
che si sollevi alle altezze della poesia classica, imitandola in ciò che è il
suo principio interiore ('forma'); cioè ricreando in noi stessi
l'attività del poeta creatore, mentre tendeva alla bellezza dell'opera come
fine in sé e 'supremo' ('lo bello stile che m'ha fatto
onore'). Ma a ciò fare occorrono, egli dice, ispirazione naturale, fervido
ingegno, lungo esercizio d'arte come regolazione impressa nella materia, e
immediata intuizione sul da farsi 'scientia' nell'ordine operativo: e
perciò 'abito' o virtù dell'intelligenza, che è propriamente la virtù
d'arte. Dopo aver così dichiarato la sua poetica, Dante passa a trattare
dell'endecasillabo come il verso che meglio conviene alla canzone per la durata
ritmica e le possibilità che offre al pensiero, alla costruzione della frase e
alla scelta dei vocaboli. Se associato al settenario, e purché lo subordini a
sé, l'endecasillabo acquista rilievo e vigore. In relazione allo stile tragico
Dante fissa non solo il tipo e il carattere della 'constructio' -
organismo della frase in cui si congiungano insieme profondità di pensiero ed
eleganza di forma - ma ancora i criteri di scelta delle singole parole.
Finalmente egli può esporre, con larga copia di esempi, la teoria della canzone
come complesso artistico di stanze, la natura della stanza e gli elementi ond'è
costituita: la musica, la disposizione delle rime e il numero dei versi. Ma qui
l'opera s'interrompe bruscamente. E tuttavia, anche così incompiuta, essa resta
un documento prezioso di quella che fu la prima fase del pensiero di Dante,
esule da Firenze e ormai peregrino per ogni parte d'Italia. Sul fondamento di
una viva esperienza d'artista e di una larga informazione letteraria, con
originalità di ricerche e di logiche deduzioni, egli viene applicando alla
storia del linguaggio e alla formazione degli idiomi o lingue comuni il
concetto aristotelico tomista della 'civilitas'; premessa a ulteriori
svolgimenti di pensiero, che informeranno il Convivio, la Monarchia e la Divina
Commedia. Il sentimento d'italianità che anima il primo libro con la ricerca
del 'volgare illustre', si associa in Dante all'amore della poesia,
come ispirazione d'ordine naturale che la bellezza suscita: sia questa la
bellezza, che nelle cose ci diletta come un bene dell'anima; sia questa la
bellezza che nell'azione ci esalta come un bene della volontà: un bene morale
(v. Rime). Ma qui Dante si individua tra i poeti italiani come il cantore della
rettitudine ('drittura') e se ne dà vanto in nome di quel volgare
illustre che glorifica i suoi cultori; un'esperienza che egli sente di dover
esaltare poiché 'per la dolcezza di tale gloria' si sente superiore
ai dolori dell'esilio: 'huius dulcedine gloriae nostrum exilium
postergamus'.
Il libro De vulgari eloquio non è un 'fior di rettorica', quale si
costumava allora, un accozzamento di regole astratte cavate dagli antichi; ma è
vera critica applicata ai tempi suoi, con giudizi nuovi e sensati. La base di
tutto l'edifizio è la lingua nobile, aulica, cortigiana, illustre, che è
dappertutto e non è in alcuna parte, di cui ha voluto dare esempio nel Convito.
[Il De vulgari eloquentia] notevolissimo come certamente è, tuttavia non
inaugura, com'è stato detto, per le notizie che offre sulle varie parlate
d'Italia, la moderna filologia, nata invece dal moderno sentimento storico, né
contiene nulla di rivoluzionario e nemmeno di rilevante per la filosofia del
linguaggio, ma è da considerare, da una parte, documento del formarsi
spirituale della nazionalità italiana, e dall'altra, e soprattutto, documento
della formazione artistica di Dante, che in quel libro pose e difese un ideale
di lingua e di stile, il 'volgare illustre', conforme al suo proprio
sentire, quale fu in tempi recenti, e con diverso sentire pel Manzoni, l'ideale
della 'lingua viva fiorentina'.