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Dante e i Due Soli
Il tema politico nella Commedia rappresenta uno dei nodi centrali dell'opera stessa, che si propone come proposta di salvezza praticabile dall'umanità intera, una salvezza che contempla anche la rinascita politica.
La Commedia, infatti, non è un libro mistico, che si occupa dell'aldilà come di qualcosa di assolutamente slegato dalla realtà terrena; è un testo nel quale l'aldilà e l'aldiquà sono indissolubilmente legati, dove la realtà terrena acquista spessore proprio in quanto fissata nell'eternità, in quanto trasformata da semplice "figura" in realtà compiuta, che della precedente figura riesce a svelare i tratti essenziali.
Il mondo ultraterreno è cioè il mondo in cui è possibile conoscere il destino degli uomini e dell'umanità, dei singoli individui come delle istituzioni terrene che li dovrebbero guidare. Per Dante, infatti, realtà politica e realtà sociale sono indivisibili. Il poeta vive nel pieno di una profonda crisi politica e sociale, che investe in primo luogo l'Impero e la Chiesa: le due fazioni principali erano formate dai Ghibellini, che parteggiavano per l'imperatore, e dai Guelfi, che invece sostenevano il papa ed anche quelle istituzioni comunali che si sono proposte come valida alternativa a ogni pretesa universalistica ma che si dimostrano oramai incapaci di arginare le lotte intestine che lacerano le città italiane come quella tra Bianchi e Neri, entrambe facenti parte della fazione dei Guelfi, della quale è stato vittima lo stesso Dante.
Ma per il poeta la crisi non è irreversibile e la Divina Commedia ha proprio questa funzione: additare all'umanità la strada della sua possibile redenzione che, politicamente, si traduce nel ritorno a un passato ideale, a un mondo, mai dato storicamente, dove Chiesa e Impero, dimensione terrena e dimensione religiosa, non si urtino, ma armonicamente si integrino e si completino; un mondo dove un comune arcaico fondato sulla frugalità e la fraternità sia la cellula fondamentale della convivenza civile.
Questo è il sogno di Dante, elaborato negli anni, attraverso il Convivio e la Monarchia, un sogno anacronistico ma che prende vita nelle pagine delle Commedia grazie all'umanità dell'autore, alla sua fremente passione civile e alla sua incommensurabile capacità di tradurre tutto questo in poesia. Un sogno al quale attribuisce tanta importanza da dedicargli una precisa posizione nella struttura dell'opera: al tema politico, infatti, pur tornando in diverse parti del poema, è dedicato il VI canto di ciascuna delle tre cantiche; i contenuti sono organizzati in modo tale da offrire il progressivo ampliarsi dello sguardo e della riflessione dalla situazione di Firenze (VI canto dell'Inferno) a quella dell'Italia (VI canto del Purgatorio) e dell'Impero (VI canto del Paradiso).
Nel canto VI dell'Inferno, Ciacco definisce la città in cui ha vissuto "piena di invidia", oltre che arsa dalle altre due faville della superbia e dell'avarizia, e pronuncia le prime profezie sul futuro fiorentino: il degenerare nello scontro fra Bianchi e Neri, la temporanea vittoria dei Bianchi e poi quella, definitiva, dei Neri, ottenuta con l'appoggio nascosto di Bonifacio VIII.
Il richiamo di Ciacco a Farinata degli Uberti, il celebre capo ghibellino che sconfisse la Firenze guelfa, da fuoriuscito, nella celebre battaglia di Montaperti (1260), ci conduce al canto X dell'Inferno, dove la discussione fra il superbo Farinata e Dante sulle responsabilità riguardanti quell'episodio storico diventa occasione per descrivere l'asprezza dello scontro politico all'interno della città; non a caso dopo il "rinfaccio" attraverso il quale i due interlocutori si scambiano come avversari politici accuse e ironie, il dialogo si stempera in una comprensione più meditata e meno partigiana della radice comune di diffidenza e di rancore che impedisce ogni pacificazione autentica. Ricordiamo che Dante nacque 5 anni dopo la battaglia di Montaperti; ma questo excursus sulla vecchia generazione, che viveva tra guelfi e ghibellini invece di quelle fra Bianchi e Neri, è un viaggio alle origini stesse dei mali che hanno devastato la cittadinanza fiorentina.
Nel canto XXIV dell'Inferno viene introdotto il ladro pistoiese Vanni Fucci. La bestialità del personaggio, evidente sin dall'autopresentazione, si rivela nella profezia malevola del dannato nei confronti di Dante, che non solo lo ha sorpreso nella sua triste condizione eterna, ma lo ha anche costretto a confessare la verità sul furto del tesoro della cappella di San Jacopo, di cui fu accusato un altro: il ladro vaticina il breve prevalere dei Bianchi a Pistoia nel 1301, il colpo di stato fiorentino nel novembre dello stesso anno e infine la guerra (1302-1306) in cui il marchese della Lunigiana morello Malaspina e i Neri fiorentini riusciranno a sconfiggere i Bianchi Pistoiesi.
Un altro personaggio incontrato da Dante è il conte Ugolino della Ghirardesca, nobile pisano di parte Ghibellina, il quale aveva tramato contro la sua città e il suo partito, aiutando il genero Giovanni Visconti a istaurare a Pisa un governo Guelfo. Nel 1288 il conte Ugolino fu esiliato e ,accusato di tradimento dall'Arcivescovo Ruggirei, fu imprigionato nella torre dei Gualandi con due figli e due nipoti: lì furono lasciati morire di fame.
La prima parte del canta è incentrata sul racconto che il conte Ugolino fa della sua vicenda, che ricrea in un'atmosfera densa di pathos lo strazio e la rabbia del conte per la sorte toccata ai 4 giovani innocenti che egli non può vendicare.
Il canto VI del Purgatorio è propriamente dedicato ai mali dell'Italia; Dante denuncia la mancanza di un'autorità imperiale che faccia valere le leggi del codice di Giustiniano. Egli inoltre distribuisce la responsabilità di questa mancanza fra gli italiani che non riconoscono l'autorità imperiale e l'imperatore stesso, nella persona di Alberto d'Asburgo, che si disinteressa delle sorti dell'Italia, preoccupato dai problemi del mondo Tedesco.
Nel canto VI del Paradiso, il tema della monarchia universale è sviluppato in forma di ampia digressione. L'imperatore d'oriente Giustiniano esalta le imprese dell'aquila, simbolo dell'impero, considerando gli uomini che le hanno compiute come semplici strumenti della provvidenza divina, di cui egli percorre l'itinerario partendo dalla fuga di Enea da Troia e giungendo sino al Sacro Romano Impero. In questo straordinario volo storico, viene legato ciò che nella storia siamo abituati a separare: le tre fasi della storia romana (monarchia, repubblica, impero); le vicende dell'Impero Romano d'Occidente e dell'Impero Romano d'Oriente; l'impero antico e il Sacro Romano Impero di Carlo Magno. Il racconto di Giustiniano va letto non come un'analisi precisa di fatti, ma come l'articolazione millenaria di un disegno provvidenziale che attraversa la volontà inconsapevole degli uomini. A fronte di questa rappresentazione, risuona l'invettiva contro i Ghibellini, che utilizzano il simbolo dell'aquila non per fini di giustizia ma per perseguire interessi di fazione, e contro i Guelfi, sotto il cui nome Dante pone i seguaci della casa reale di Francia, avversaria dell'impero e portatori del simbolo usurpatore dei gigli.
Il centro della concezione politica dantesca è costituito dall'idea dell'Impero universale, che Dante considera non come una creazione umana, ma come un'istituzione dal fondamento divino, analogamente al papato: mentre quest'ultimo ha il compito di guidare l'umanità verso la felicità celeste, l'Impero deve condurla verso la felicità terrena.
Affrontando l'antica disputa sullo scontro di potere tra papa e imperatore, Dante sostiene la necessità e nello stesso tempo la separazione delle due sfere di governo del mondo. La situazione storica all'inizio del Trecento vede invece, da un lato la netta decadenza della carica imperiale (ridotta ormai a una dimensione ristretta, essenzialmente germanica) dall'altro un processo di degradazione politica del papato, attirato in sfere d'azione di potere temporale (il trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone ne è segno estremo). La situazione scontenta profondamente Dante e gli suggerisce due linee di polemica: una colpisce la mancanza di interesse o l'aperta ostilità verso la riaffermazione dell'universalità dell'Impero; l'altra affronta la questione della corruzione della Chiesa, rivoltasi indegnamente a interessi terreni.
L'idea universalistica dell'Impero emerge non solo all'interno della Commedia: Dante dedica a essa un'ampia parte del quarto trattato del Convivio, e naturalmente la Monarchia, quel trattato politico la cui stesura viene collocata dalla critica più recente intorno al 1317, dunque negli stessi anni di composizione del Paradiso. Nelle pagine della sua opera politica in latino come nel quarto trattato del Convivio, Dante si preoccupa di dimostrare l'origine divina dell'Impero, sulla base di alcune prove (esiti straordinari per ampiezza e rapidità dell'espansione dell'Impero romano, valore eccezionale degli uomini che per esso combatterono, origine divina di Enea, nascita e crocifissione di Cristo sotto la giurisdizione del potere imperiale); inoltre, considera la monarchia universale come necessaria all'umanità, perché ispirata dalla giustizia divina. Dante pensa infatti all'imperatore come a un sovrano che può garantire la giustizia proprio perché è immune dalla cupidigia: il suo potere universale è effettivo, anche se non annulla i poteri locali, che gli sono sottomessi. La passione politica dantesca trova precisa conferma in alcune delle lettere scritte in occasione della discesa di Arrigo VII: ai principi italiani e fiorentini per esortarli ad appoggiare l'imperatore; all'imperatore stesso, per incoraggiarlo nell'impresa.
Nel canto VIII del Paradiso, Carlo Martello sottolinea l'azione contraria alla volontà divina degli Angioini che, macchiatisi di comportamenti vili e indegni della dignità di governo, non rispettano le inclinazioni naturali degli individui, piegandole alle logiche del potere ereditario. Il discorso di Carlo Martello ripropone la questione della nobiltà, già svolta da Dante: rifiutando il concetto di nobiltà di sangue, l'autore sostiene che le doti degli uomini discendono sulla terra come dono di Dio attraverso gli influssi celesti e che tale distribuzione delle qualità non procede secondo un criterio familiare, ma riguarda i singoli, senza rispetto per la loro condizione sociale. La difesa delle prerogative della nobiltà di sangue non fa dunque che distorcere la volontà divina, destinando gli individui a compiti che non si accordano con le loro attitudini. Il tema degli influssi celesti è sullo sfondo non solo delle critiche rivolte agli Angioini, ma anche dei lamenti danteschi sulla degenerazione politica e morale che investe tutto quel periodo.
Se la corona di Francia appare come la principale nemica dell'ordine universale voluto da Dio, anche altri monarchi e nobili vengono posti sotto accusa da Dante. Nei suoi giudizi, il poeta sottolinea spesso la decadenza etico-politica che aveva coinvolto le ultime generazioni. Autentico topos nel poema è quello del rimpianto per la cortesia degli antichi signori, che è stata soppiantata dai vizi dei loro discendenti. Nell'Inferno, il motivo è implicito nell'idea della lupa-avarizia, il leone -superbia, la lonza-lussuria e il veltro che è visto come il liberatore dell'Italia che domina il mondo (Canto I), nei numerosi passi che mettono sotto accusa Firenze (Canti VI, XVI, XXVI) e nella raffigurazione dei nobili stemmi familiari sulle borse appese al collo degli usurai (Canto XVII). Ma è nel tono più pacato e meditativo della seconda cantica che la riflessione dantesca prende corpo. Il primo esempio è nel gruppo dei principi negligenti raccolti nella valletta dell'Antipurgatorio. Nel canto XIV del Purgatorio, il rimpianto finale per il tempo antico ispirato da amore e cortesia è la conclusione inevitabile dopo la descrizione dell'imbestialimento della Toscana e della triste degenerazione delle famiglie romagnole come quella di Folcieri da Calboli.
Nella terza cantica i mali terreni non sono dimenticati. L'intero canto XV del Paradiso è dedicato da Cacciaguida alla rievocazione delle virtuose famiglie fiorentine di un tempo contrapposte nella profezia del XVII ai mali del presente. E un richiamo sprezzante ai vizi dei principi cristiani è contenuto nel canto XIX del Paradiso, nel cielo degli spiriti giusti: l'autore misura la distanza fra il tripudio dei beati che modella la figura imperiale dell'aquila e coloro che hanno indegnamente esercitato il potere.
Nel canto III del Purgatorio nei versi dal 104 al 145, il poeta fiorentino narra la storia di Manfredi di Svevia, il quale era stato scomunicato da Clemente V e mai perdonato. Pentito in punto di morte si trova nel Purgatorio, ma la Chiesa terrena non avendolo mai perdonato, lo fece disseppellire per ordine del vescovo di Cosenza, disperdendone i resti. Questo fatto sta a indicare come non sempre la Chiesa agisca secondo il volere di Dio e non sempre in buona fede: infatti Manfredi viene perdonato da Dio ma non dagli uomini, ciò significa anche che il volere di Dio prevale sempre su quello degli uomini.
Nel canto V del Purgatorio è Bonconte da Montefeltro che parla, narra le sue vicende e la morte trovata sul campo della battaglia di Campaldino, ferito gravemente il giovane ghibellino è costretto a fuggire, si ritrova sulle sponde del fiume Archiano dove infine perde la vita invocando il nome della Madonna "quivi perdei la vista, e la parola nel nome di Maria finì" (vv. 100-101). Immediatamente dopo la morte un angelo litiga con un diavolo per la salvezza o la dannazione dell'anima di Bonconte, l'angelo riesce ad appropriarsene e l'ira del diavolo si scatena sul corpo del giovane, che viene trascinato dal fiume in piena fino a essere sommerso dai detriti. Ancora una volta si parla della battaglia di Campaldino, centrale anche nella vita di Dante, che contrappone i Bianchi e i Neri, che segna la degenerazione del potere temporale del papa che porta la Chiesa a essere un sostituto dell'impero, in contraddizione ovviamente con la teoria dei due soli, che vede divisi potere temporale e potere spirituale, rispettivamente all'Impero e alla Chiesa.
Due esempi di personalità che si sono rivelate del tutto positive, una nell'ambito della Chiesa e l'altra dell'Impero, sono San Francesco, Arrigo VII e Cangrande.
Il primo, di cui Dante scrive nel canto XI, fondò un ordine monastico votato alla povertà che ebbe numerosi discepoli (v. 83 "Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro"), nonostante il rigore e la severità delle regole.
Le tre tappe fondamentali della vita di San Francesco sono caratterizzate dai sigilli ricevuti dal suo ordine, in un climax ascendente si meritò: per primo il sigillo da Papa Innocenzo, successivamente la conferma da parte di Papa Onorio e infine il più grande riconoscimento, da parte di Cristo, con le stimmate v. 107 "da Cristo prese l'ultimo sigillo"
Il secondo, citato più volte nel corso della Commedia, nel Paradiso è soggetto di una profezia politica da parte di Beatrice nel XXX Canto, che anticipa a Dante la futura collocazione di Arrigo nel seggio su cui è posta la corona.
Arrigo VII rappresenta le buone intenzioni del potere imperiale, il quale intendeva scendere in Italia per liberarla dalle discordie interne; nonostante ciò il tentativo non va a buon fine per due ragioni: v.v. 137-138 " L'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia verrà in prima ch'ella sia disposta" ossia che gli italiani non erano ancora pronti a quel avvenimento. La seconda ragione è l'ambiguità del Papa Bonifacio che ostacolò la sua discesa.
Di Papa Bonifacio VIII Dante narra anche nel canto XIX dell'Inferno, con un profezia che vedrà il papa collocarsi nel girone dei simoniaci, dopo aver prostituito la Chiesa per più anni. In questo canto è evidente il pensiero politico di Dante che condanna totalmente il comportamento del papa e conferma il suo pensiero che l'unico elemento positivo in tutto il suo pontificato fu l'indizione del primo giubileo del 1300.
DANTE I "DUE SOLI" IN TOBINO
INFERNO
BONIFACIO VIII:
Tobino ci parla di questo personaggio nel capitolo 4 in quanto accusato di cercare di distruggere gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella. Nel capitolo 5 Bonifacio VIII chiede a Firenze "denari e soldati" per combattere i Caetani e per accrescere le terre della sua famiglia: i Colonna. Firenze non cede alle pressioni e il pontefice appoggia i Neri ricevendo in cambio l'obbedienza. Nel sesto capitolo, in cui Tobino racconta la vita di Corso Donati, narra di come questi si alleò con papa Bonifacio, suo degno compare, e a lui dette in pasto il partito dei Bianchi, tra i quali Dante e la stessa Firenze. Nel capitolo 7 Tobino ci offre un ritratto di Bonifacio. Lo rappresenta come uomo altissimo, dal volto deciso, avido, che poteva tutto, accumulando per sé e i Caetani, e che si riteneva il successore dei Cesari, Dio sulla terra. Insaziabile e superstizioso, tiene sempre con se amuleti e porta al dito un anello dotato di poteri magici . Nel decimo capitolo ci giungono inoltre notizie sulla morte di questo personaggio descritto come "il papa, il vecchio dalla lingua vibrante del serpente, il nemico primo, fonte di tutte le sventure"."quel papa era sudicio di ogni vizio, commerciante di cose sacre, adoratore della paganità, eretico, nemico della Chiesa, negatore dell'immortalità dell'anima", Egli rianimò una scintilla di speranza per coloro che credevano in una Chiesa priva di corruzione e scissa dal potere imperiale. Inoltre in questo capitolo Tobino descrive il saccheggio avvenuto nel palazzo di Bonifacio, per tre giorni "Il popolo di Anagni, i soldati di venutra, accecati dalla cupidigia invadevano le stanze alla ricerca dell'immenso tesoro". Nel 21° capitolo Bonifacio VIII viene definito come simoniaco, antagonista del re di Francia Filippo il Bello. L'ultimo capitolo in cui compare è il 24° in cui Dante risponde alle domande di Guido da Polenta riguardanti la vita di papa Bonifacio.
FARINATA:
Nel primo capitolo il nome di Farinata viene associato a quello del Mosca e del Tegghiaio, in quanto Dante ascolta i loro nomi ripetuti dal popolo, accompagnati dai particolari delle loro imprese. Nel quinto capitolo Farinata viene ricordato con nostalgia da Dante e viene definito magnanimo e vecchio popolano. Nel capitolo 11 il nome di Farinata viene associato alle insegne ghibelline, in quanto suo nipote rappresentava per il suo sestiere la famiglia Uberti.
CLEMENTE V:
Il capitolo 18° descrive la potenza del Papa a quei tempi al quale "tutti si dovevano inginocchiare", alleato con il Re di Napoli, trovava sostegno anche da parte dei alcuni fiorentini, che non vedevano di buon occhio la discesa di Arrigo VII. Nel 19° capitolo Clemente V toglie l'appoggio all'imperatore Arrigo VII, dopo averlo incoraggiato, benedetto e incoronato, perché quest'ultimo aveva deciso di punire il re di Napoli, suo nemico. Nel capitolo 21 Tobino narra di come il Pontefice "insudicia il manto", sottomettendosi a Filippo il Bello, re di Francia, così facendo perde la sua integrità e la sua dignità. In questo capitolo ci sono anche notizie riguardo alla morte di Clemente V, accusato dell'assassinio dei templari e di avere numerosi vizi. Viene sottolineato come anche lui debba presentarsi all'eterno giudizio.
UGOLINO:
Nel capitolo 15 Tobino scrive dell'incontro di Dante con la figlia del conte e ritrova in lei i lineamenti del padre. Viene inoltre ricordato come il conte Ugolino fu molto noto fra i suoi compagni di nobiltà e la sua tragica morte fu ricordata proprio perché morì come un uomo povero in preda alla miseria. Colui che era stato abituato ad avere tutto, era stato obbligato ad elemosinare il pane. Sempre in questo capitolo si parla di "padre e innocenti figli e nipoti" riferendosi alla tragica fine della famiglia. Tobino inoltre ci narra dell'incontro di Dante con la figlia del conte Ugolino, che è sposa di Guido di Battifolle. Il poeta cerca di richiamare alla memoria, attraverso i lineamenti della figlia, la figura del padre. Nel capitolo 24 il conte Ugolino viene descritto come il tramite dell'amore di Dante nella Divina Commedia, mentre nel capitolo 25 viene sottolineato soprattutto il suo strazio paterno.
MOROELLO:
Nel capitolo 14 Moroello Malaspina viene presentato come amico di Dante e amante della musica, del disegno, del latino e in generale uomo di grandissima cultura. Nel capitolo 16 Dante invia a Moroello dei versi appartenenti a vari canti della Commedia. Inoltre Dante confessa al suo amico di voler dedicare i suoi ultimi anni alla scienza, alla astronomia, alla teologia e in generale al sapere affermando che troppo era il tempo perso inseguendo gli amori e la bellezza femminile. Moroello ascolta Dante ammirato e attivo nella conversazione. Viene descritto come vecchio amico e si incontrano grazie agli impegni diplomatici in una città del settentrione. Il capitolo si chiude con la presa di coscienza da parte di Dante dell'impossibilità a mantenere i suoi propositi in quanto innamorato.
LE TRE FIERE:
Le tre fiere in Tobino vengono citate solo nel capitolo 5 e descritte come i mali di Firenze. Secondo Tobino lussuria, invidia, superbia e avarizia si aggirano per ogni strada di questa città, si infilano in ogni porta socchiusa e dividono i componenti di una stessa famiglia.
IL VELTRO:
Nel capitolo 17 il Veltro viene identificato con l'imperatore Arrigo VII(citato anche nel canto diciannovesimo nel quale vengono descritti i preparativi per la sua discesa in Italia, e nel canto ventiduesimo in cui Tobino sottolinea l'imprudenza dei Neri che festeggiavano sul cadavere dell'imperatore) che scendendo in Italia avrebbe eliminato tutte le divisioni interne, portando in ogni paese la pace. Egli, mandato da Dio, è la suprema autorità allla quale tutti devono obbedienza. Nel 19° capitolo Tobino descrive con precisione la discesa di Arrigo VII in Italia, evidenziando tutte le tappe del suo viaggio. Nonostante l'imperatore venga colpito dalle febbri e la situazione si faccia più critica, Tobino mostra come molti ancora credano in lui, nell'imperatore, nel Veltro, nel salvatore e nella pace universale.
GUIDO DA MONTEFELTRO:
Nel capitolo 10 viene nominato assieme a Nogaret, Filippo il Bello, Alberto d'Austria, confessando che gli sarebbe piaciuto conoscere la storia di Matelda.
PURGATORIO
MANFREDI:
Tobino inserisce Manfredi nel capitolo 15 e si parla di lui a proposito di suo padre Federico II e della bellezza di sua sorella. Sarà l'unico personaggio di tutto la Divina Commedia ad essere descritto fisicamente. "Biondo era e Bello" dal titolo del libro, esattamente come Dante.
BONCONTE DA MONTEFELTRO:
Il primo capitolo in cui viene inserito è il numero 6 in cui viene descritta la battaglia di Campaldino di cui Bonconte è stato valoroso guerriero. Nel 15^ capitolo Tobino ci descrive nuovamente la battaglia di Campaldino, in cui Bonconte era a capo degli Aretini. La sua morte è circondata da un alone di mistero, poiché il corpo non fu mai più ritrovato. Dante raccoglie notizie sulla vicenda tramite la figlia di Bonconte, Manentessa, che, però, si dimostra noncurante ed insensibile.
FOLCIERI DA CALBOLI:
Nel quarto capitolo Folcieri da Calcoli, Podestà, uccide un congiunto dei suoi padroni. Nel capitolo ottavo Folcieri è a capo della fazione dei Neri e viene descritto come un ottimo soldato, romagnolo di Forlì, portatore di discordia tra i Fiorentini. Nel capitolo nove viene presentato come forestiero, cattivo e crudele "con gli occhi iniettati di sangue, felice quando maneggia la ferocia"(cap.8) e "ama il sangue e la guerra" (cap. 9) prende il comando della fazione dei Neri, aumentando ancora di più l'odio fra i partiti fiorentini. Gli fu assegnato l'incarico di podestà. Folcieri era stato scelto perché "è un ottimo soldato, ama le armi e la battaglia"(cap. 8), non fiorentino, quindi imparziale e in grado di ristabilire l'ordine tra guelfi e ghibellini, rivelandosi poi una fonte di rovina e di odio.
PARADISO
CARLO MARTELLO:
Carlo Martello nel capitolo 1 arriva a Firenze nel marzo del 1294 accompagnato da duecento cavalieri splendidamente abbigliati. Conosce Dante al corteo che fu indetto in suo onore, e ammira in lui il cavaliere, il musico e il poeta, quasi fosse icona di un nuovo sentimento.
CACCIAGUIDA:
Cacciaguida viene descritto nel capitolo 1 come trisavolo di Dante, egli parlerà al nipote, svelandogli i segreti del suo cuore e della sua fortuna, descriverà la nostalgia per una Firenze virtuosa. Infatti egli lo colloca nella cerchia di Marte nel Paradiso, conferendo grande importanza al personaggio.
CANGRANDE:
Nel capitolo 8 Tobino racconta l'ambasceria di Dante presso Verona, nel palazzo di Cangrande della Scala. Nel capitolo 12 viene esaltata la famiglia degli Scaligeri che è magnifica per liberalità. Inoltre si parla della seconda volta in cui Dante arriva a Verona presso il Cane che già era desideroso di conoscere. Nel capitolo 13 viene semplicemente esaltato come il capo di Verona. Nel capitolo 22 vengono esaltate le capacità politiche del Gran Cane e nei combattimenti e inoltre amava gli splendori della corte e già aveva il fascino di un principe del Rinascimento. L'unico difetto che Dante trova in lui è di appartenere alla fazione dei Ghibellini. Nel capitolo 23 si dice che Dante conosce Cangrande quando era adolescente, al tempo della prima ambasceria. "Sul campo di battaglia è il più imbrattato di sangue e alla sua corte il più amato". Nel capitolo 26 si dice che il Cane invita Dante a Verona per confidargli i suoi sogni e per chiedergli del suo futuro, passarono insieme lunghe ore, in confessione, nasce così una forte amicizia.
GIUSTINIANO:
Giustiniano viene nominato nel capitolo 20, in quanto costituisce una delle grandi anime del glorioso passato di Ravenna, città in cui Dante era stato ospitato da Guido Novello.
SAN FRANCESCO:
Nel capitolo 5 Dante viene descritto come soldato di San Francesco. Nel capitolo 15 San Francesco viene ricordato in quanto era solito dormire nei boschi appartenenti ai territori dei conti Guidi da cui Dante era stato osipitato. Nel capitolo 26 Tobino scrive della morte di Dante e di come ci sia l'accordo di seppellirlo nella chiesa di San Francesco
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