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Tacito e l'impossibilità di individuare una forma di governo ideale
Della vita di Tacito abbiamo poche e vaghe notizie. Fra due tendenze che erano in contrasto quando Tacito ha coltivato i suoi studi, lo stile nuovo, sminuzzato e talora brusco e artificioso di Seneca e lo stile classico, armonico e robusto, il suo ideale è il ciceronianesimo professato dalla scuola di Quintiliano; ma egli non si dissimula le cause che impediscono il risorgere di quell'eloquenza appassionata e combattiva: le mutate condizioni politiche toglievano alla parola quel colore che nasce da un interesse vivo e attuale. Dopo Augusto, ridotti al silenzio i comizi, divenuto il senato poco più che un'ombra, l'eloquenza trovava chiusa la sua paleestra quotidiana e si rifugiava nelle scuole diventando tecnica e precettistica, lontana dalla vita quotidiana. Non aveva più un interesse da far valere, un partito da sostenere, una causa da vincere, e si perdeva nella trattazione di temi fittizi, sempre più astratti. Così Tacito, giù sui quarant'anni, dopo la morte di Domiziano, cerca nella storia un conforto allo spirito, esaltandosi nella rievocazione delle virtù recenti, e sfogando l'odio contro i tiranni.
Ma anche la storia, si sa, è genere massimamente oratorio: è arte piuttosto che scienza, è inno alla grandezza della patria, è richiamo al culto della virtù attraverso gli esempi delle grandi figure del passato. Più che l'esattezza, cerca la vittoria della propria tesi, del proprio punto di vista etico, politico. Un primo ciclo storica si era concluso con Livio; il popolo cessava di essere protagonista e le sorti dello stato si decidevano ora nel chiuso della corte imperiale. Affermatasi ormai la necessità del principato, la storia in atto è opera del monarca, e la storia scritta è biografia di imperatori. Con questo la storiografia non cessa di diventare opera di eloquenza; la passione politica occupa ancpra l'animo dello scrittore, turbato o dallo spirito antimonarchico o dal bisogno di adulatore. Di fronte alla tradizione adulatrice, che Seneca fa risalire ai tempi seguiti alle guerre civili, sta, non meno dannosa alla fides storica, la tendenza anticesarea a deprimere gli imperatori morti a maggior gloria del nuovo Cesare. Tacito riconosce che il periodo da Tiberio a Nerone è viziato da questa tendenza. Eppure, per quanto si avvertisse in tutti la diffidenza verso la storiografia partigiana, alla critica non si pervenne, perché anche nelle scuole di retorica troppo dominavano i temi del panegirico. Dal fare la storia del presente per lo più ci si asteneva; anche il pubblico se ne disinteresava: le vittorie sui nemici esterni parevano vittorie del principe, non della nazione. L'indifferenza per la virtù, favorita dai Cesari, non poteva non generare il pessimismo negli spiriti eletti, come Tacito, che avrebbero volentieri rivendicato il merito degli onori dovuti. Ma purtroppo:
noi disprezziamo la virtù finchè è viva dinanzi a noi,
la ricerchiamo solo quando è tolta ai nostri occhi.
Sentenza severa, condanna di una generazione avvilita nella servitù e dimentica del bene:
L'età nostra non si cura dei suoi grandi
è ancora Tacito che parla; e altrove:
indifferenti dinanzi alle glorie recenti, andiamo a esaltare le antiche.
Di fronte poi al problema se l'oratore dovesse avere una cultura filosofica, vecchio problema già posto con matura consapevolezza fino dai tempi di Cicerone, Tacito ha anche lui il suo ideale pedagogico, più sentito e più tormentato. Con spirito pratico, Cicerone e Quintiliano piegarono la filosofia a fini politici: reagì Seneca, assegnandole un fine trascendente, la vita dello Stato. Tacito propende per la tesi di Quintiliano, ma, per qunato più moderato nel tono, non arriva a quella conciliazione tra filosofia e politica già tentata da Cicerone. Tacito rimprovera allo stoicismo anticesareo un'astrattezza utopistica, un atteggiamento di intransigenza privo di risultati pratici, lontano dalla vita e dalla esatta percezione delle cose. Alla adrogantia, alla intempestiva sapientia Tacito contrappone la moderazione e l'equilibrio disciplinato di un Agricola, che, senza venir meno ai suoi principii morali, seppe ritirarsi a tempo e dignitosamente in disparte, qunado le condizioni politiche e l'atteggiamento di Domiziano erano contrari alla sua etica, e un opposizione sarebbe stata inutilmente pericolosa. Lo stoico che va incontro alla morte decretata dal principe, e l'affronta con un bel gesto di indipendenza di fronte alla sorte, ponendo il suo ideale al di là della vita stessa, questi per Tacito, che giudica le azioni umane dagli effetti e dai risultati pratici, è un ambizioso in cerca di applausi, il quale noon reca alcun aiuto alla comune causa della libertà.
Per dimostrare che Tacito non professò idee stoiche, basterebbe certo il suo fatalismo, che, se si accorda con lo stoicismo greco, è in contrasto col concetto di Provvidenza elaborato a Roma, quale noi conosciamo da Seneca. Già nel 'Dialogo' un passo allude ironicamente alla concezione fatalistica; ma è diretto contro il fatalismo pauroso e superstizioso dei volghi, per i quali Tacito non nasconde mai il suo intimo disdegno. Il problema diventa più tormentoso nell'ultima opera, negli 'Annali':
Quando sento racconti di questo genere, io rimango in dubbio se le cose umane si producono per un destino prestabilito o per puro caso.
Così sentenzia Tacito, e prosegue affermando un libero arbitrio limitato, un libero arbitrio iniziale per cui l'uomo può scegliere a un dato momento la propria vita, ma, una volta che l'abbia scelta, ha fissato irrimediabilmente il suo destino. Più precisamente, egli non parla in generale di fato, ma più spesso di fortuna, termine indefinito alla sua stessa coscienza, che non è la predestinazione divina dei poeti augustei, né il fato inesorabile, superiore agli stessi dei di un Lucrezio. Anzi, a volte di fortuna e disciplina: ora una forza sovrumana, ora una virtù intrinseca all'uomo, ora l'una e l'altra cosa insieme, legge storica fatta di umano e di divino, che può egualmente nascere dall'individuo, dagli dei, dall'incontro delle circostanze. Le oscillazioni derivano da un perenne e cupo malcontento, da una insoddisfazione che affiora dal profondo a rendere più complessa la stessa concezione della storia, ma si afferma come individualismo, nella opposizione tra personalità singola e dominio degli eventi, dato che dall'insoluto contrasto tra le forze immanenti e le trascendenti, invocate a spiegare la storia, è l'uomo quello che finisce per affermarsi. Sicuramente attore determinante degli 'Annali' è il singolo individuo, non la massa anonima, cieca esecutrice della volontà di chi la dirige. E' un errore storico quello di Tacito di non aver compreso quale decisivo contributo piò portare la massa al movimento delle idee e alla trasformazione della società.
Invece Tacito vede la virtù nella nobiltà, connessa al nome che si porta, segno distintivo di una casata, da cui non si deve strabordare: vecchia concezione tradizionalistica cha fa ancora della plebe una gente moralmente ed intellettualmente inferiore, pericolosa, nella sua vita inattiva ed inerte, alla conservazione dell'antico costume. Il passato, dunque, è il vero depositario dei ogni virtù, come nell'esempio degli avi è la norma di vita.
Insorge qui il contrasto tra il passato e il presente, tra la grandezza morale di un tempo e la viltà di oggi; lo spirito conservatore si manifesta attraverso l'amarezza acuta del pessimismo. La pace ordinata sotto il nuovo principe non basta a cancellare il volto della società romana degenerata, né il doloere dell'animo di Tacito. La 'Germania', scritta nel 98, non oppone con tono amaro ai costumi romani un ideale di vita più primitiva, ma più ingenua e più pura? Tacito, questo severo giudice di una società infiacchita dalla tirannide dei successori di Augusto, è dunque un nemico della monarchia?
Se la posizione di Tacito di fronte al problema appare più volte contradditoria, va spiegata all'atmosfera di queste inquietudini di una società che non osa aspirare al passato, e carezzare l'antico ideale repubblicano, ma solo può di volta in volta animarsi al desiderio provvisorio di un imperatore migliore dell'attuale, anzi, di un imperatore qualsiasi, purchè diverso dal predecessore. L'atteggiamento di Tacito è quello stesso del 'Dialogo': un senso di rassegnazione a riconoscere che la Repubblica aveva, coi sui pregi, anche i suoi difetti; che, se il popolo ha rinunciato a delle prerogative, è perché non aveva saputo usarle; che la monarchia ha almeno assicurato la pace e ha dato stabilità alla compagine dell'Impero. Quando Tacito osserva che l'eloquenza è decaduta, oltre che per l'artificiosità retorica imperante nelle scuole, per la mancanza di una vita politica che si combatta nel Foro, non arriva con questo a deprecare il cesarismo, e non rimpiange l'antico ordine democratico, perché la pace e la forza dello Stato valgono più che le sorti di un genere letterario, e la folla turbolenta, discorde, volubile, non è meno pericolosa che arbitrio di un solo uomo.
Domiziano è già morto quando Tacito scrive l'Agricola, nel quale egli, dopo aver detestato la perversità di quel principe, vede ancor più nitido il suo ideale etico, impersonato da Agricola, nell'astinenza da tutti gli eccessi che sono egualmente pericolosi, perché l'esperienza fatta sotto l'ultimo dei Flavi porta a formulare con sempre maggiore certezza una constatazione non nuova né originale: la stessa eccessività che fa degenerare la repubblica in anarchia è quella che trasforma la monarchia in tirannide. Delle tre forme di governo che la classificazione classica polibiana poneva a base di ogni dottrina dello Stato, monarchia, democrazia, aristocrazia, Tacito, con l'eclettismo caratteristico dei Romani, non non ne preferisce nessuna; egli, che non formula una sua scienza politica al di fuori dei confini della storia, considera queste dorme nella loro attuazione e di ognuna vede pregi e difetti. Si adatta alla monarchia, purchè sul soglio si assida un principe moderato. Monarchia: necessità imposta dalla vastità di un impero che abbraccia il mondo esplorato, un organismo di lunghe propaggini fatto uno e concorde. Quest'ordine diventa a volte per Tacito necessità superiore alla stessa libertà; se non si riesce a conciliare i due termini, venga anche l'assolutismo, ma resti lontatna la discordia civile. Tacito non vede che degenrazione là dove è evoluzione storica; egli sente l''ggressione al mos maiorum, violato dalle ambizioni della gente nuova, che rompe i freni della tradizione e della aequalitas, l'antica uguaglianza repubblicana.
Tacito rispecchia lo stato d'animo di quei congiurati che miravano più alla persona del principe che al regime, più ad un problema contingente che ad un principio generale. Ora, Tacito è in questo stesso stato quando sparla degli imperatori passati per contrapporre ad essi l'imperatore vivente. Ha dunque Tacito mantenuto fede al proposito programmatico di scrivere sine ira et studio? Quanto si è detto proporrebbe un giudizio sereno sulla fides dello storico e sulla sua impassibilità di studioso. Un antico storico romano è in ogni caso uno per il quale la storia ha un fondamento etico, e ha il compito di ispirare l'odio per il male e l'emulazione della virtù, è uno che non conosce ancora la storia come scienza, ma la concepisce come opera di eloquenza e di propaganda. Il fine è dichiaratamente morale e il male è dipinto con le tinte più crude, perché la virtù emerga dal contrasto, soprattutto quando l'ideale etico è visto attraverso le lenti di un pessimismo che presta alla tavolozza dell'artista più tinte cupe per il male che colori vivaci per il bene.
Se a volte ha diffidato di ciò che ha udito contro i successori di Augusto, anche quelli, come Tiberio, per cui ha meno simpatia, vuol dire che si è reso conto delle diverse passioni che hanno alterato la storia, e non ha dimenticato di voler scrivere per suo conto 'sine ira et studio'. Soltanto lo scetticismo gli prende a volte la mano e gli detta frasi aspre, che in altri momenti tornano attenuate, come quando, nelle 'Historie', dopo aver definito il periodo seguiro alla morte di Nerone come il più tenebroso della storia imperiale, ammette poi che neppure quello fu sterile di virtù.
L'azione umana interessa lo storico più che la strategia di una battaglia, le persone che egli descrive con finezza di psicologo richiamano la sua attenzione più che le cose e balzano in primo piano; gli stati d'animo individuali, i contrasti interiori, il tumulto delle passioni, sono le note che scoprono le luci e le ombre di tutto un quadro. In questo sfiduciato scoraggiamento un aspetto positivo, per la critica storica, è nella valutazione che esso offre di quel certo apparente formalismo repubblicano perpetuato sotto i Cesari, che altri storici scambiano per tradizione conservatrice dell'antico spirito democratico e nel quale Tacito, fissando lo sguardo più addentro, vede con maggior senso critico e con più esatta valutazione le caratteristiche del nuovo regime nei suoi lati positivi e negativi: e gli uni ripone nella pace conseguita dall'impero, gli altri nella possibilità di abusi da parte di imperatori grettamente e egoisticamente pensosi del proprio interesse o dominati dal proprio sconfinato capriccio. Il nostro storico, soprattutto sorretto da un senso vivamente psicologico della storia, pone la distinzione e il confronto fra ciò che si è perduto e ciò si è acquistato con il potere monarchico, formidabile strumento di cui il principe si vale in misura diversa sencodo il suo temperamento: se l'assolutismo sfrenato di questo o quell'imperatore rattrista gli spiriti soffocando ogni germe di virtù, solo allora subentra il rimpianto dell'antica constituzione repubblicana, con tutti i suoi difetti intrinseci e con tutti i suoi eccessi.
Se Tacito si trova a dover chiarirsi le idee riguardo alle diverse forme di governo ideali della storia romana contrapposte alle possibilità che offre la realtà, i due autori trattati precedentemente avevano già, più Silone che Orwell, posto chiaramente l'accento sull'assurdo sacrificio richiesto all'individuo dall'ideologia totalitaria.
Nella filosofia del dopoguerra troviamo diversi pensatori che focalizzano la loro dissertazione sull'importanza estrema e sull'inviolabilità dell'indiviuduo. Ora, io mi sento di scegliere di esporre le idee che in merito professò il personalista cristiano Emmanuel Mournier.
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