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Dal 'Decameron' di Giovanni Boccaccio




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Dal 'Decameron' di Giovanni Boccaccio



Panfilo, cui Pampinea, la 'regina' della prima giornata, ha affidato il compito di narrare la prima novella, afferma che sia necessario che l'uomo inizi qualsiasi cosa nel nome di Dio, che di tutte le cose fu creatore.

Fa quest'affermazione perché è intenzionato a raccontare una delle 'sue meravigliose cose', in modo che, una volta udita la sua novella, la speranza che ognuno ha in Dio esca rafforzata, immutabile ed eterna.

Inizia la narrazione chiedendo conferma in maniera retorica al suo pubblico di un luogo comune, secondo cui tutto ciò che è terreno sia soggetto a pericoli, dolore ed angoscia, per poi affermare che senza la forza e l'intelligenza forniteci dalla Grazia divina, l'uomo non sarebbe in grado di sopravvivere in esse, cioè né resistere né trovare riparo durante la vita terrena.

Panfilo continua la sua digressione sulla Grazia divina, sottolineando come Essa non venga in aiuto dell'uomo per qualche suo merito particolare, ma solo perché mossa dalla generosità divina e dalle preghiere che i Santi gli rivolgono sollecitati dalle preghiere che noi rivolgiamo a loro, non sentendoci adatti a rivolgerle direttamente a 'tanto giudice', e considerandoli intermediari adatti in quanto hanno conosciuto la fragilità della condizione umana.

A volte però, vedendo in Dio qualcosa di così grande da non poter essere raggiunto dall'acutezza dell'occhio (e della mente) umano, accade che per rivolgerci a lui, ingannati da una falsa opinione, usiamo come intermediario qualcuno che da lui è stato condannato all'Inferno.

Dio, al quale nessuna verità è celata, sa comunque capire la purezza della preghiera e la buona fede con cui il 'pregatore' si è servito di un intermediario sbagliato, e perciò esaudisce comunque le richieste di coloro che gli si rivolgono.

Panfilo afferma infine che tutto ciò che lui ha provato ad esprimere a parole sarà palesato dalla novella che sta per narrare, non dal punto di vista di Dio, ma degli uomini.


Si racconta che Musciatto Franzesi, grande e ricco mercante toscano che aveva ottenuto titoli nobiliari alla corte di Francia, dovendo accompagnare Carlo 'Senzaterra' in Italia, e sapendo che i suoi affari erano molto intricati e disseminati in molti luoghi, e che non si potevano concludere velocemente, pensò di affidarli a diverse persone: rimase solo indeciso sul chi mandare a riscuotere i suoi crediti in Borgogna.

Il motivo della sua titubanza era che conosceva i 'borgognoni' come uomini litigiosi, di carattere cattivo e sleali, e non gli veniva in mente nessun uomo così cattivo che potesse a loro opporre.

Dopo aver riflettuto a lungo su questo problema, gli venne in mente un certo Ser Cepparello da Prato che spesso gli aveva chiesto riparo nella sua casa di Parigi, e che i francesi chiamavano erroneamente Ser Ciappelletto.

Questi era un notaio che provava grandissima vergogna quando doveva redigere un documento autentico, infatti, faceva documenti falsi gratis meglio che chiunque altro a pagamento. Diceva il falso per divertimento, sia quando era necessario per la sua professione, sia quando non lo era, e siccome allora in Francia si prestava gran fede ai giuramenti, aveva vinto molti processi giurando il falso, cosa che faceva senza nessuno scrupolo o preoccupazione.

Inoltre si divertiva e s'impegnava molto a far sorgere tra amici e parenti odi, scandali, inimicizie, e più ne scaturivano malvagità più era contento e divertito.

Invitato ad assistere ad un omicidio o a qualsiasi altro reato, vi andava di propria volontà senza mai negarlo, e più volte si trovò a ferire e uccidere uomini con le proprie mani, provandone un gran piacere.

Bestemmiava inoltre per ogni piccola cosa, poiché era la persona più irascibile che potesse esistere; non andava mai in chiesa, insultava i sacramenti con orrende parole e, al contrario, visitava volentieri e frequentemente le taverne e tutti gli altri luoghi disonesti.

Desiderava le donne come i cani le bastonate, mentre più che ogni altra persona provava piacere nell'andare con altri uomini.

Avrebbe rubato con astuzia e violenza, mettendosi gli stessi scrupoli che si mette un sant uomo per fare l'elemosina. Così goloso e amante del vino che spesso i suoi vizi gli procuravano orrendi malesseri, accanito giocatore e abile baro ai dadi.

Ma perché mi dilungo tanto a descriverlo? Egli era probabilmente solo il peggior uomo che mai fosse nato.

La potenza e la situazione sociale di Messer Musciatto a lungo protessero la sua malvagità, così che fu trattato con ogni riguardo sia dai privati cui spesso arrecava oltraggio, sia dai tribunali, ai quali ne faceva continuamente.

Essendosi ricordato di Ser Cepparello, Messer Musciatto pensò che fosse proprio la persona che la malvagità dei borgognoni richiedeva, e perciò dopo averlo fatto chiamare gli chiese di assumersi questo incarico in cambio di una cospicua ricompensa e della protezione della corte reale.

Ser Ciappelletto che sapeva di avere problemi economici e di essere senza lavoro, e che vedeva andarsene colui che a lungo era stato il suo protettore, senza nessun indugio accettò volentieri.

Ricevute da Messer Musciatto le lettere di raccomandazione firmate dal re e la procura per agire nelle veci del suo protettore, partì per la Borgogna dove nessuno lo conosceva, e qui, diversamente dalla sua natura, cominciò a comportarsi in modo benevolo e comprensivo, cominciando a svolgere il compito per il quale era lì, come se si stesse accumulando la propria rabbia e violenza, per scatenarla poi tutta in una volta alla fine.

E comportandosi in questa maniera trovò alloggio in casa di due fratelli fiorentini i quali svolgevano la professione illecita di usurai, e che gli riservarono ogni cortesia in onore di Messer Musciatto, e qui accadde che Ser Ciappelletto fu colto da infermità.

I due fratelli fecero subito accorrere servitori e medici in modo che li servissero e che facessero di tutto per fargli recuperare la salute. Ma ogni aiuto si dimostrò inutile, e visto che l'uomo era ormai anziano e aveva vissuto in maniera sregolata, i medici sentenziarono che peggiorava ogni giorno di più come colui che sta andando in contro alla morte.

Un giorno passando vicino alla camera dell'infermo, i due fratelli cominciarono a discutere su come liberarsi di colui che era diventato per loro un grosso problema: liberarsene dopo averlo accolto e fatto medicare in maniera così sollecita, sarebbe stato un segno di poco senno che la gente non avrebbe accolto bene. D'altra parte però, loro sapevano benissimo che genere di uomo era stato fino ad allora Ser Ciappelletto, e perciò sapevano anche che non avrebbe mai accettato di confessarsi, e perciò nessuna chiesa avrebbe mai accolto il suo corpo e probabilmente sarebbe stato gettato in una fossa come un cane. E se anche avesse deciso di confessarsi, i suoi peccati dovevano essere così tanti che avrebbe fatto la stessa fine.

E se mai egli avesse subito questa fine, la gente di questa città, che sempre parlava male del loro lavoro che considerava il peggiore di questo mondo, avrebbe causato dei tumulti per derubarli e forse per ucciderli; in ogni caso avrebbero avuto comunque da rimetterci.

Ser Ciappelleto, che giaceva lì vicino e avendo l'udito fine aveva udito questi discorsi, fece chiamare i due fratelli e li rassicurò, assicurando loro che non avrebbero dovuto temere di nulla a causa sua, infatti, egli aveva ormai commesso così tanti peccati, che uno più o uno meno non avrebbe ormai fatto differenza, perciò li istruì affinché quando egli si trovasse in punto di morte gli chiamassero il più valente frate della regione, garantendogli che avrebbe pensato lui ad aggiustare gli interessi suoi e loro.

I due fratelli, nonostante non avessero mola fiducia nell'infermo, andarono in un convento a chiamare uno dei frati più conosciuti e rispettati della regione, il quale una volta giunto al capezzale del moribondo, dopo averlo confortato, gli chiese quando fosse stata l'ultima volta che si era confessato.

Ser Ciappelletto, il quale non si era mai confessato, a questa attesa domanda rispose che era solito confessarsi una volta la settimana, se non più spesso, ma che purtroppo, da quando l'infermità l'aveva colpito, non aveva più potuto confessarsi, e purtroppo erano già passati otto giorni.

Il frate allora si compiacque dell'assiduità con cui egli si confessava e gli suggerì di continuare a fare così in futuro, e affermò con piacere che per questo la confessione sarebbe stata molto rapida.

Ser Ciappelletto allora, deciso a recitare la sua parte fino in fondo, confidò al frate che nonostante si fosse già confessato in più e più occasioni, ogni volta voleva confessarsi di tutti i peccati che poteva ricordarsi, dal giorno della sua nascita a quello della confessione; e per questo lo pregò di interrogarlo con precisione come se non si fosse mai confessato, senza avere riguardo e compassione per la sua condizione di infermo.

Queste parole piacquero molto al sant uomo e gli parvero indizio di una mente ben predisposta, ragione per cui dopo averlo lodato di questa sua usanza cominciò ad interrogarlo, chiedendogli se avesse mai peccato di lussuria con alcuna donna.

Messo da parte su invito del frate il timore di farsene vanto, Ser Ciappelletto confidò a questi di essere Vergine come era uscito dal corpo di sua madre, e a sentir questo l'interrogatore se ne compiacque molto, tanto più perché egli non era vincolato a questa scelta da alcuna regola, come invece lo sono coloro che appartengono ad un ordine religioso.

Il frate ben disposto passò allora ai peccati della gola, ed il malato, molto rattristato, gli confessò che in quelli era caduto molte volte, infatti, sebbene oltre ai giorni preposti dalla religione, egli solesse digiunare tre volte la settimana, spesso gli era capitato che soprattutto in seguito al lavoro o alla preghiera ad alta voce, non era riuscito a resistere e aveva comunque bevuto con piacere e appetito l'acqua che si era preposto di abbandonare, altre volte aveva desiderato cibarsi di verdure come le donne quando vanno in campagna, e altre volte ancora il cibo gli era sembrato più buono di quanto dovesse apparire a chi se ne priva per devozione.

Il frate allora lo rincuorò assicurandogli che erano peccati di piccola entità dei quali la sua anima non sia sarebbe dovuta preoccupare, in quanto era cose più che normali; sempre più conquistato dalla devozione di Ser Ciappelletto, l'uomo gli chiese se mai avesse peccato in avarizia, desiderando più di quello che si conviene o tenendo ciò che non avrebbe dovuto tenere.

Ser Ciappelletto subito cercò di far capire al frate che il fatto che si trovasse in casa di due usurai non doveva trarlo in inganno, perché lui era lì per ammonirli, punirli e fargli abbandonare quel lavoro che li faceva arricchire in maniera ignobile.

Raccontò al confessore di come la ricchezza che il padre gli aveva lasciato in eredità fosse da lui stata devoluta alla Chiesa, e di come in tutti i piccoli commerci che aveva dovuto attuare per sostentarsi avesse sempre rifiutato di trarne alcun guadagno, dividendo ogni proprio bene con i poveri e, con l'aiuto di Dio, era sempre riuscito a farsi i fatti propri.

Continuando nella sua menzogna l'infermo affermò di essersi purtroppo adirato molte volte, non riuscendo a trattenersi di fronte ai peccati che gli uomini compiono ogni giorno, senza rispettare i comandamenti di Dio e senza temere le sue punizioni.

Il frate lo rassicurò nuovamente, assicurandogli che in questo caso si trattava di buona ira, per la quale non avrebbe ricevuto nessuna punizione, a meno che questa non l'avesse portato a commettere atti violenti.

Quasi offeso, Ser Ciappelletto assicura invece che ciò non gli mai neanche passato per la mente, altrimenti Dio non l'avrebbe tollerato così a lungo.

Il frate sempre più impressionato dalla finta santità di quest'uomo deprecabile gli chiese se avesse mai mentito, offeso o rubato, e questi fiero di sé gli rispose che una volta aveva parlato male di un uomo con i parenti della moglie che lui picchiava ogni volta che si ubriacava.

L'uomo di chiesa indagò allora sul suo passato da mercante, chiedendogli se non avesse mai truffato nessuno e Ser Ciappelletto confessò che una volta gli era capitato di incassare più denaro del dovuto senza accorgersene, ma una volta resosene conto aspettò di poterli restituire per un anno, ma non avendo più avuto l'occasione di incontrare questa persona, aveva poi devoluto la somma in eccesso in beneficenza.

Il frate gli fece tante altre piccole domande, ma mentre sempre più convinto della sua rettitudine morale si stava avviando a dargli l'assoluzione, Ser Ciappelletto gli confidò di non aver ancora rivelato alcuni suoi peccati, cioè di non aver rispettato in un'occasione il riposo domenicale, e poi di aver sputato per sbaglio in chiesa, e una serie di piccolezze che il frate definì inezie delle quali non doveva preoccuparsi, ma sentite queste parole, il malato cominciò a piangere dicendo di avere un ultimo peccato che non aveva mai avuto il coraggio di confessare, essendo certo che Dio non l'avrebbe mai perdonato.

Sollecitato dal frate al quale aveva chiesto di pregare per lui, e sempre piangendo, Ser Ciappelletto confessò di aver una volta da bambino offeso la propria madre; il religioso allora lo rassicurò una volta per tutte dicendogli che se lui se ne era pentito sicuramente Dio l'avrebbe perdonato.

Il frate vedendo che non c'era altro da fare assolse Ser Ciappelletto e lo benedì considerandolo un sant uomo, avendo creduto in pieno alle sue parole, cosa che avrebbe fatto chiunque sentendo parlare così un uomo in punto di morte.

Il frate infine gli augurò che con l'aiuto di dio potesse guarire, e gli disse che se anche Egli avesse deciso di prenderlo a Sé, sarebbero stati più che contenti di seppellirlo nel loro monastero.

Ser Ciappelletto allora disse al frate che, avendo sempre avuto particolare devozione per il suo ordine, non avrebbe potuto desiderare di meglio, e prima che questi se ne andasse gli chiese di poter ricevere a casa il Corpo di Cristo perché se visse nel peccato desidera almeno morire da cristiano; ed il frate soddisfò immediatamente questo suo desiderio.

I due fratelli che, temendo che Ser Ciappelletto potesse ingannarli, si erano appostati in una camera contigua per poter ascoltare la sua confessione, spesso erano stati sul punto di scoppiare a ridere sentendo le bugie che questi stava raccontando all'ignaro frate, e fra loro si dicevano:

'Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla qual si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a piccola ora s'aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l'hanno potuto rimuovere, né far che egli così non voglia morire come egli è vivuto'.

Ma appena ebbero sentito che i frati l'avrebbero seppellito presso di loro, non si curarono di ascoltare oltre.

Ser Ciappelletto prese la comunione, e peggiorando le sue condizioni, ebbe l'ultima unzione, e il giorno stesso morì e i due fratelli subito prepararono tutti i particolari della sepoltura, pagando con i soldi del defunto.

Saputa della sua morte il santo frate convinse gli altri suoi confratelli che fosse loro dovere accogliere il corpo di quel sant uomo presso di loro; la mattina seguente si tenne la processione funebre a cui partecipò tutta la città e giunti in chiesa il frate che lo aveva confessò portò la sua vita ad esempio per tutti i credenti.

Questi lo lodò così a lungo e in maniera così convinta che tutti vollero, alla fine della messa, baciarlo e prendere un brandello delle sue vesti, e la notte stessa egli fu seppellito in una grande arca di marmo.

Tutti cominciarono ad adorarlo come ad un santo, cominciando a chiamarlo San Ciappelletto, attribuendogli molti meriti e miracoli.


Così visse e morì dunque ser Cepparello da Prato il quale infine divenne santo.

Non voglio negare che sia possibile che sia divenuto veramente beato per volere divino, poiché per quanto la sua vita fu malvagia e scellerata, potrebbe aver suscitato in fin di vita la misericordia di Dio, il quale potrebbe averlo preso nel suo regno veramente, ma per quello che mi è dato sapere, io credo che sia più facile che si trovi in perdizione nelle mani del Demonio che in Paradiso.

E anche nel caso fosse così, la Grazia di Dio è così tanta che non guarda al nostro errore nel servirci di intermediari sbagliati per rivolgerci a lui, ma solo alla purezza della nostra fede, come se rivolgessimo le nostre preghiere ad intermediari legittimi.

Ed è per questo che noi, nel pieno della pestilenza, ci ritroviamo in questa lieta e allegra compagnia, sani e salvi, lodando il suo nome e rivolgendoci a lui per ogni nostro bisogno, sicurissimi che ci ascolterà.


A questo punto panfilo terminò la sua narrazione.

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