CONFRONTO
TRA MACCHIAVELLI E GUICCIARDINI
Il Guicciardini si
può considerare insieme al Macchiavelli il più grande
teorico del pensiero politico rinascimentale. Nessuno degli altri storici e
politici riuscì ad arrivare ai livelli del binomio fiorentino. Vissuti nello
stesso periodo storico e nella stessa città, partono entrambi dalle stesse
premesse (l'autonomia della politica, la concezione pessimistica degli uomini).
Già nei "ricordi politici e civili", il G. critica il valore esemplare della
storia romana. Infatti, ciò che è accaduto non può ripetersi. Anche se le
circostanze e le situazioni sembrano identiche, non necessariamente sortiranno
lo stesso effetto. Del resto certe situazioni, certe condizioni storiche in
Roma nascevano da un tessuto sociale, culturale e religioso diverso da quello
dei suoi tempi e per questo non potevano essere assunte come modello.
Macchiavelli crede , che si possano fissare sulla base di esempi tratti dalla
storia passata e dalla storia recente, dei principi da tenere presente
nell'agire politico. Indubbiamente tra i due è più pessimista il G. che non
crede in una resurrezione dell' Italia e nella validità di una scienza
politica. In lui manca la fiducia del M., non ha
entusiasmi e non assume toni profetici. L'unica alternativa che il G. offre al
politico è quella di adattarsi alle circostanze.
Il "Savio", come lo definisce il G. deve
guardare gli eventi politici cercando di destreggiarsi tra di essi
affrontandoli e cercando di risolverli volta per volta. Alla virtù del Principe
(quella di saper fare le scelte giuste al momento giusto) il G. sostituisce la
virtù del Savio, al quale consiglia la ricerca del proprio "particulare",
cioè del tornaconto personale. Il G., pur essendo stato luogotenete
generale della chiesa ed intimo con vari papi, è contrario al potere temporale
e al dominio dei preti. Egli visse col desiderio di vedere distrutta prima
della sua morte, la tirannide degli ecclesiastici. Ma, pur condividendo il
giudizio espresso dal M. che il potere temporale della chiesa ha impedito la
formazione nella nostra penisola di uno Stato unitario, non ne accetta l'idea
del principato unitario indigeno da opporre alle monarchie nazionali europee.
Egli propone una forma di municipalismo
caratterizzato da un sapiente equilibrio di stati, in armonia tra di loro e
liberi dallo straniero. Possiamo concludere che mentre il pessimismo del G. è
privo di una qualsiasi luce ideale, quello del M. non gli impedisce di
innalzarsi alla visione di un principe capace di riunire le sparse membra
dell'Italia, di dare forma alla materia informe, di non-Stato, in cui si
trovava la penisola (questo è il segreto che anima il Principe).