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Cesare Pavese, scrittore
dall'esistenza amara e
tormentata, aprì nuovi orizzonti
culturali nella letteratura italiana
del '900, pur mantenendo sempre
un legame col mondo primigenio
e autentico della Langa della
sua infanzia.
"Io penso che a dischiudermi la vita sono stati in gran parte i libri.
Non le grammatiche o i vocabolari ma tutte le opere in cui vive qualche
sentimento. Dapprima, abbagliato dai grandi nomi, mi fermai sui poemi
omerici, sulla commedia, su Shakespeare, su Hugo.
Quattro anni fa, io cominciavo ad avere per le mani le loro opere
e mi esaltavo confusamente senza capirne il perché.
Ora dopo quattro anni di fatiche e dopo che lei ci ha insegnato a leggere,
a poco a poco, credo di esser giunto a capir la loro magia.
La poesia non fa che dare un'esistenza immortale alla vita.
Studio il greco per potere un giorno ben conoscere anche la civiltà
omerica, il secolo di Pericle, e il mondo ellenista.
Leggo Orazio alternato a Ovidio: è tutta
Studio il tedesco sul Faust, il primo poema moderno.
Divoro Shakespeare, leggo il Boiardo e il Boccaccio alternati, tutto il
rinascimento italiano, e finalmente
Foglie d'erba di Walt Whitman, questo è il più grande. Scorazzo così,
aiutato dalla conoscenza ( poca ma cresce sempre ) del pensiero del tempo,
tra tutte queste civiltà che durano ora unicamente nella poesia, mi esalto
dei loro ideali, e in essi guardo il cammino."
(Lettera a Augusto Monti, agosto 1926. )
Cesare Pavese
Introduzione
La figura di Cesare Pavese ha suscitato fascino ed interesse tra i contemporanei, ma ancora oggi a oltre cinquanta anni dalla morte, evoca un interesse molto vivo; è un autore ancora letto, le sue opere sono tradotte in tutto il mondo, gli amici ne hanno trasmesso un ricordo appassionato e vivo.
Forse questo "mito" è legato in parte alla sua tragica morte, però la sua opera testimonia una presenza importante nella nostra storia letteraria moderna.
In una delle ultime note scritte sul suo diario "Il mestiere di vivere" il 16 agosto del 1950 si legge: "La mia parte pubblica l'ho fatta, ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene del vivere.", il 17 agosto scrive: "Non ho più nulla da desiderare su questa terra. Questo il consuntivo dell'anno non finito, che non finirò.", le ultime parole del diario, il 18 agosto, sono: "Più il dolore è determinato e preciso, più l'istinto della vita si dibatte, e cade l'idea del suicidio. Sembrava facile a pensarci. tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più."
( C. Pavese: "Il mestiere di vivere", Einaudi,1981, pagg. 361, 362).
Sulla copia di un suo libro, "Dialoghi con Leucò", scrive una frase che indica la grande discrezione e la sensibilità dello scrittore: " Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi."
Qualche giorno
dopo, il 27 agosto
Forse dovette sembrargli insopportabile l'idea di un nuovo giorno , per di più di festa, da trascorrere solo in una città vuota.
Dall'idea del suicidio, Pavese era ossessionato da sempre, ne parla nel suo diario, nelle sue opere giovanili, nelle lunghe discussioni con i suoi amici.
Davide Lajolo, cha ha scritto nel 1960 una biografia dell' amico, "il vizio assurdo", parla nell'introduzione delle ultime lunghe passeggiate con Pavese. In un giorno assolato, parlando delle Langhe, Pavese dice all'amico: "L'unica cosa che lascerò sono pochi libri, nei libri c'è detto tutto o quasi tutto di me. Certamente il meglio, perché io sono una vigna, ma troppo concimata. Forse è per questo che ogni giorno sento marcire in me anche le parti che ritenevo più sane."
In un'altra passeggiata Pavese dice: "Ti ricordi quella conversazione quando parlammo di me, della vigna e del concime? Ora i vermi hanno divorato tutte le radici e la vigna è morta. E' tempo di concludere.".
Lajolo parla poi dei suoi tentatiti di sconfiggere il pessimismo profondo dell'amico e del dolore di non aver capito che quelle parole non erano solo l'esito di un tragico e disperato pessimismo, ma erano anche una premonizione del suicidio.
(D. Lajolo, "Il vizio assurdo"; Il saggiatore, 1977, pagg. 10,11).
" Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incidersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica "..
CAPITOLO 1
Biografia
Cesare Pavese nasce il 9 settembre
Ultimo di cinque figli la sua infanzia è presto segnata da un doloroso lutto, la morte del padre, cancelliere presso il tribunale di Torino.
Al tal proposito così scrive Giuseppe Trevisani: "Pavese ricordò che suo padre era morto di cancro; il timore superstizioso che il cancro fosse ereditario, lo turbava. (Nessuno ha paura della morte del padre come chi è affetto da mania suicida, si sa.) Pavese fece un racconto atroce di questa morte: un uomo a letto, a soffrire, per mesi, condannato.
Quello strazio era visto con gli occhi di un bambino di sei anni."
(G. Trevisani < a cura di >, Chi l'ha visto, Cesare Pavese, Milano, Trevi 1961, pagg. 9).
L'educazione di Cesare resta così interamente affidata alla madre Consolina Mesturini, figlia di ricchi commercianti di Ticineto Po', una donna energica e severa, che non riesce a far superare al figlio, timido e introverso, le incertezze e le paure nei riguardi della vita.
"Mia madre aveva cercato di tirarmi su come farebbe un uomo, e ne aveva ottenuto che tra noi non usavamo né baci, né parole superflue, né sapevo che cosa fosse famiglia. Fin che fui debole e dipesi da lei ne ebbi soprattutto paura, una paura che non escludeva le fughe e i ritorni, e quando fui uomo la trattai con impazienza e sopportazione come una nonna." (Cesare Pavese, Il Signor Pietro, da : Ferie d'Agosto)
Fortemente legato alla sua terra, Pavese subisce, due anni dopo la morte del genitore, un altro trauma, quello dello "sradicamento" dai luoghi natali, Consolina decide di vendere i possedimenti dei Santo Stefano e trasferirsi in città, a Torino.
"Santo Stefano, abbandonato prestissimo, diventerà il paese delle memorie e della nostalgia" (F. Vaccaneo <a cura di> C. Pavese, biografia per immagini, la vita, i libri, le carte, i luoghi, S.S.B. Cuneo Gribando Editore 1989 pagg. 155).
Il difficile rapporto con la madre, i vari problemi familiari, contribuiscono certamente ad accrescere la sua fragilità psicologica e ad alimentare quei disagi che lo accompagneranno per tutta la sua esistenza, ostacolando quello che egli stesso definisce "Il mestiere di vivere".
Frequenta le scuole medie in un istituto della ricca borghesia e vi si trova non sempre bene a causa dei modi impacciati di cui egli stesso acuisce il carattere provinciale.
Le difficoltà di inserirsi nell'ambiente cittadino lo inducono a desiderare continuamente la sua campagna, i luoghi dell'infanzia (dove torna ogni estate) e a considerarli un rifugio in cui potersi abbandonare all'evasione e al fantasticare.
"Sempre, ma più che mai questa volta, ritrovarmi davanti e in mezzo alle mie colline mi sommuove nel profondo. Rivedere questi alberi, case, viti, sentieri,ecc.. mi dà un senso di straordinaria potenza fantastica, come se mi nascesse ora, dentro, l'immagine assoluta di queste cose, come se fossi bambino, ma un bambino che porta, in questa sua scoperta, una ricchezza di echi, di stati, di parole, di ritorni, di fantasia insomma che è davvero smisurata!"
(Da lettera a Fernanda Pivano, 27 giugno 1942).
" Oltre le collinette basse di Canelli c'è il mondo, le città, i porti, il mare.
Per fuggire bisogna passare di lì. "
Dominique Fernandez, saggista francese attento studioso del nostro scrittore, afferma: "Pavese manifesta, molto precocemente due personalità, ma non riesce a farne coincidere alcuna con l'esperienza direttamente vissuta. In campagna si comporta da cittadino, in città da contadino. In tal modo egli non è soltanto sdoppiato, non è mai interamente se stesso. Ecco, senza dubbio, il primo sintomo al suo disadattamento, della sua incapacità di vivere"
Tale contraddizione impernia totalmente la vita di Pavese, che nella ricerca di una possibile identità, nel dissidio fra campagna e città, proietta un nodo complesso di problemi psicologici ed esistenziali, che diventeranno il fulcro delle sue intere opere.
La giovinezza a Torino
Se la vita in città conclude la stagione dell'adolescenza , con lo "sradicamento" dal paradiso dell'infanzia, apre però il fervido periodo dell'apprendistato culturale che lo condurrà alla grande maturità intellettuale.
Dopo il ginnasio, Pavese frequenta il Liceo D'Azeglio, sotto la guida di un illustre professore di italiano e di latino, il narratore e saggista Augusto Monti figura di grande prestigio della Torino antifascista. Monti, a quel tempo, è un collaboratore attivo della rivista di Gobetti, vive con particolare dedizione i problemi della scuola ("I miei conti con la scuola", 1965) e, in particolare, costruisce il punto di riferimento e di aggregazione per quei giovani, fra i quali Pavese, che poi avranno un posto di rilievo nella cultura italiana: il filosofo Noberto Bobbio, il musicologo Massimo Mila, lo storico Federico Chabod, gli scrittori Carlo Levi, Leone Giuzburg e tanti altri intellettuali, legati da una comunanza di interessi e da un atteggiamento di avversione nei confronti del Regime.
Rievocando la sua esperienza di insegnante, Monti scrive: "Ai miei scolari, a quelli di Torino, a quelli più miei, ho dato una cosa che potevano benissimo trovare da sé: la lettura dei classici; e una cosa di cui avrebbero benissimo fatto a meno, la politica, l'antifascismo. Essi a me han dato infinitamente di più, m'han dato la mia vera vita, m'han dato la loro vita".
(A. Monti, in Cesare Pavese, biografia per immagini: la vita, i libri, le carte, i luoghi, S.S.B., Cuneo, Gribando Editore, 1989, pagg. 30).
Questo è uno dei periodi più intensi ed attivi di Pavese, nel 1927 si iscrive alla Facoltà di Lettere, seguendo però un piano di studi diverso da quello del letterato tradizionale: legge molti classici del realismo italiano e straniero e discute con il francesista e comparatista Ferdinando Neri, una tesi intitolata: "Interpretazione di Walt Whitman poeta".
Dopo la laurea prosegue i suoi interessi per la letteratura straniera, dedicandosi ad una vasta serie di traduzioni di B. Lewis, H. Melville, S. Anderson, J. Steinbeck, J. Joyce, J. Dos Passos, Gertrude Stein, C. Diekens, W. Faulkner, D. Defoe, ecc.. che oltre a procurargli una meritata e precoce fama, contribuiscono alla diffusione del mito dell'America, che rende caratteristico il clima culturale italiano degli anni trenta.
In questi anni di
intense traduzioni, Pavese diviene anche attivo collaboratore della rivista "
Il confinio in Calabria
Nel 1935 "
Condannato a tre anni di confinio (ma ne sconta solo uno) a Brancaleone Calabro, un piccolo paese della Costa ionica, trascorre qui il tempo dedicandosi agli studi, alla letteratura e inizia a tenere un diario letterario ed esistenziale " Il mestiere di vivere".
Il alcune epistole dal confinio così scrive: "La mia stanza ha davanti un cortiletto, poi la ferrovia, poi il mare. Cinque e sei volte al giorno ( e la notte) mi si rinnova così la nostalgia dietro i treni che passano. Indifferente mi lasciano invece i piroscafi all'orizzonte e la luna nel mare, che con tutti i suoi chiarori mi fa pensare solo al pesce fritto. Inutile, il mare è una gran vaccata."
(Lettera dal confinio alla sorella Maria, 19 agosto 1935).
" Lei sa come io odi il mare; mi piace nuotare, però mi serviva molto meglio Po'. Trovo indegno della gravità di uno spirito contemplativo quel perenne giochetto delle onde sulla riva e quel basso orizzonte odor di pesce. leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio insomma venir notte, ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà: nel mio caso per tre anni.
Ci rivedremo al mio ritorno. a meno che qualche mattina non mi scappi la mano, annodandomi la cravatta. Nel qual caso la saluto fin d'ora".
(Lettera ad Augusto Monti dal confinio, 11 settembre 1935).
L'insofferenza di Pavese si accentua, nelle lettere successive " Del mare faccio la mia sputacchiera. Lo costeggio e mi ci spurgo, provocandolo a drizzare le corna e inabissare tutto il continente. Ma lui, carogna, mi lecca i piedi."
(Lettera ad Augusto Monti dal confinio, 29 ottobre 1935).
" Il mare, già così antipatico d'estate, d'inverno è poi innominabile: alla riva, tutto giallo di sabbia smossa, al largo, un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello d'Ulisse: figurarsi gli altri".
(Lettera a Mario Sturiani dal confinio, 27 novembre 1935).
Al ritorno dal confinio <per condono> Pavese scopre che la donna amata si è sposata, ciò gli procura un altro trauma che " traccerà dolore, di disperata frustrazione" (L. Mondo) che lo rende sempre più disilluso di fronte alle esperienze affettivo- sentimentale, facendogli ritenere che " ciò che è accaduto accadrà ancora".
Si accentua quella "vocazione di morte", quel "male oscuro" contro i quali combatte per altri 14 anni della sua vita.
In questo periodo
lo salvano: l'intensa attività letteraria e dal maggio del '38 un rapporto di
lavoro sempre più impegnato e stabile con
La coscienza della
propria fragilità psicologica e della propria "inadeguatezza" il disagio di
fronte all'impegno politico si esasperano durante
Richiamato alle armi e congedato, perché affetto da asma, il giorno dell'armistizio, l'8 settembre 1943, egli si trova a Roma per organizzare l'apertura di una sede Einaudi.
Al suo rientro a Torino non trova più gli amici, attivamente impegnati nella lotta contro il regime. Pavese non riesce a far come loro e, per sottrarsi ai bombardamenti, si rifugia a Serralunga di Crea, nel Monferrato, dove rimane da sfollato con la sorella, dal 1943 al 1945 circa, "recluso tra le colline".
In una lettera del 1944 ad un amico, scrive: "Sono in campagna coi miei e lavoricchio nella vicina città, mi ha ripreso il tormento. Brutta cosa esser nelle grinfie della storia."
L'epistole testimonia l'intenso dramma, il conflitto interiore di Pavese di fronte alla condizione storico-politica che del tempo richiede scelte determinate, precise, difficili oltre l'angosciosa solitudine esistenziale, umana amorosa che impernia tutta quanta la sua opera letteraria.
Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana
"Mamma adorata, quando riceverai la presente sarai già straziata dal dolore. Mamma, muoio fucilato per la mia idea. Non vergognarti di tuo figlio, ma sii fiera di lui, il mio sangue non si verserà invano."
Achille Barilatti, 22 anni, studente, fucilato il 23 marzo 1944.
"Cari compagni, con queste poche righe vi faccio sapere che oggi sono stato condannato a morte. Non importa, io muoio contento perché so che un giorno mi vendicherete. Non mi resta che mandarvi un grido di Viva i partigiani di tutte le vali perché sono sicuro che fate il vostro dovere come l'ho fatto io."
Pompeo Bergamaschi, 18 anni, operaio, fucilato il 23 ottobre 1944.
"Carissimi genitori, ricevendo questa mia lettera avrete certamente già appreso la brutta notizia che sto per darvi, fatevi coraggio, soprattutto tu mamma che sei così debole, cerca di essere forte e di sopravvivere più che puoi magari fino a cento anni, così almeno potrai vedere l'opera che tuo figlio, benché contrario alle tue idee, ha iniziato (dico contrario perché non volevi che mi mettessi in questo movimento che tu chiamavi pasticcio). Tuo figlio è innocente dell'accusa che gli hanno fatto, perché accusato di terrorismo, ed invece non era che un semplice socialista che ha dato la sua vita per la causa degli operai tutti".
Quinto Bevilacqua, 27 anni, operaio, fucilato il 2 aprile 1944.
"Carissimi mamma, papà, fratello, sorella e compagni tutti, mi trovo a breve distanza dall'esecuzione. Mi sento però calmo e muoio sereno e con l'animo tranquillo. Contento di morire per la nostra causa: per il comunismo e per la nostra cara e bella Italia."
Albino Albico, 24 anni, operaio, fucilato il 28 agosto 1944.
"Cara mamma, vado a morire, ma da partigiano, col sorriso sulle labbra ed una fede nel cuore. Non stare malinconica, io muoio contento."
Domenico Caporossi, 17 anni, elettricista, fucilato il 21 febbraio 1945.
"Miei cari, nelle mie ultime ore è vivo più che mai il mio affetto per voi. Muoio, ma vorrei che la mia vita non fosse sprecata inutilmente, vorrei che la grande lotta per la quale muoio avesse un giorno il suo evento. Termino per sempre salutandovi e chiedendovi perdono di tutto ciò che ha potuto rattristarvi."
Bruno Frittaion, 19 anni, studente, fucilato il 1 febbraio 1945.
Questi brani di lettere di condannati a morte della Resistenza, scelti casualmente, ci danno l'idea delle motivazioni ideali che hanno spinto molti giovani a scegliere da che parte stare durante la lotta di liberazione e ci fanno capire come la resistenza fosse realmente un movimento di popolo. Nell'Europa occupata nella sua quasi totalità dalle armate tedesche si sviluppò un forte movimento di Resistenza.
A fianco dei partigiani
jugoslavi, dei 'maquis' francesi, dei resistenti polacchi, norvegesi, russi,
olandesi, greci, anche in Italia si formò un esercito di volontari per
combattere contro i tedeschi che occupavano l'Italia e contro i fascisti che
avevano formato
Il 25 luglio 1943 il re si era finalmente deciso a spodestare Mussolini e a sostituirlo alla guida del governo con il maresciallo Badoglio.
L'8 settembre dello stesso anno veniva firmato l'armistizio con gli Alleati e il re con Badoglio si rifugiavano nell'Italia meridionale già occupata dagli alleati.
L'Italia era così
spezzata in due: mentre al sud si riformavano i partiti e si costruiva un
sistema democratico, al nord iniziava l'occupazione tedesca e si formava
Erano comunisti e socialisti, che durante la dittatura fascista si erano organizzati in modo clandestino, ma c'erano anche cattolici, appartenenti al movimento Giustizia e Libertà.
I partigiani nell'inverno del 1943 erano appena 10.000, ma già nella primavera del 1944 erano 40.000, per diventare 80.000 nell'inverno dello stesso anno e circa 120.000 alla vigilia della Liberazione.
Si trattava di un vero e proprio esercito, strutturato e organizzato in brigate. Politicamente i partigiani si richiamavano ai partiti antifascisti; si calcola che circa il 40% erano comunisti, il 30% apparteneva alle formazioni del Partito d'Azione, il resto erano socialisti, cattolici, ma anche monarchici.
La composizione sociale delle bande rifletteva l'intera articolazione della società italiana: dai ceti medi urbani, ai contadini, agli operai, agli studenti ed intellettuali, con una netta prevalenza, però, di operai e di contadini, che all'impegno della lotta contro i tedeschi univano la speranza di un futuro riscatto sociale. Erano soprattutto giovani, impegnati in una lotta feroce, con il rischio altissimo di essere uccisi; si calcola che i partigiani uccisi furono circa 45.000.
La tecnica di combattimento era quella della guerriglia: attacchi di sorpresa e fuga nelle montagne. A questi attacchi i tedeschi rispondevano con le rappresaglie sulla popolazione civile per ricattare i partigiani e togliere loro l'appoggio della popolazione; si spiegano così i massacri di Marzabbotto, Boves, Sant'Anna di Stazzona ed altri, in cui è stata uccisa dai tedeschi tutta la popolazione. Malgrado questo i partigiani ebbero sempre l'appoggio della popolazione, altrimenti non avrebbero potuto resistere né avrebbero potuto trovare i rifornimenti.
La guerra partigiana è stata essenzialmente una guerra di popolo, non solo perché i partigiani erano volontari, ma soprattutto perché la popolazione civile, rischiando, li appoggiava e sosteneva la loro lotta.
Il comando politico e militare era affidato al CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), formato dai rappresentanti di tutti i partiti.
Durante la lotta partigiana si sperimentarono nuove forme di governo democratiche dopo venti anni di dittatura. Nei territori liberati dai partigiani si formarono repubbliche (le repubbliche di Montefiorino, Val d'Ossola, ecc.. ) che durano solo qualche mese, ma costituirono un primo esempio di come doveva essere l'Italia liberata.
La lotta partigiana si protrasse fino al 25 aprile 1945, quando ci fu l'insurrezione generale che scacciò i tedeschi dalle ultime città del nord. Mussolini fuggì da Milano per riparare in Svizzera, assieme ad altri gerarchi, ma fu fermato sul lago di Como e fucilato il 28 aprile.
L'Italia repubblicana e la costituzione che ancora oggi è alla base del nostro ordinamento politico hanno origine nella lotta di liberazione e le libertà garantite dalla costituzione sono state conquistate da quelle brigate di giovani che, dovendo scegliere da che parte stare, hanno scelto la parte della democrazia e della lotta contro l'oppressione.
Il dopoguerra
Nell'immediato dopoguerra Pavese riprende e intensifica la sua attività editoriale all'interno dell'Einaudi: tra l'altro progetta e realizza una collezione di studi religiosi, etnografici, antropologi e psicanalitici.
Forse nel tentativo di riscattare di fronte agli amici (Leone Ginzburg, Giaime Pintor, Gaspare Paiette, ecc. morti durante le lotte partigiane) e a se stesso la mancata presa di posizione ai tempi della Resistenza, realizza il momento del suo più importante impegno politico: si iscrive al PCI, cerca la collaborazione attiva con la sinistra, scrive per l'Unità Torinese. Per questo quotidiano pubblica i "Dialoghi col compagno" (1945) e sul primo numero (20 maggio 1945) compare un suo intervento "Ritorno all'uomo" nel quale manifesta il massimo di fiducia sociale e politica nell'uomo e nelle funzioni dell'intellettuale.
Mesi dopo, nel novembre del 1945 il suo entusiasmo scema e si palesa una testimonianza molto più incerta dello scrittore piemontese. "Per 'sentire' la politica devo fare uno sforzo" così egli scrive in una lettera all'amica Bianca Garufi.
Il suicido
Sono questi anni di fervido lavoro e di larghi successi di critica e di pubblico (nel 1950 vince il premio letterario "strega" con "La luna e i falò") ma anche anni di profonde frustrazioni, di laceranti fallimenti amorosi e politici, sentiti come segni ineluttabili del proprio destino. Segni che lo rendono un uomo sempre più introverso, chiuso, scontroso, incapace di comunicazione.
Come lo ricorda N. Ginzburg: "Era, qualche volta, molto triste: ma noi pensammo per lungo tempo, che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo , la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare; sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande. Infine, di scatto, agguantava il cappotto e se ne andava. Umiliati, noi ci chiedevamo se la nostra compagnia l'aveva deluso, se aveva cercato accanto a noi di rasserenarsi e non c'era riuscito; o se invece si era proposto, semplicemente, di passare una serata in silenzio sotto una lampada che non fossa la sua.
Conversare con lui, d'altronde, non era mai facile, nemmeno quando si mostrava allegro: ma poteva essere, un incontro con lui anche composto di rare parole, tonico e stimolante come nessun altro. Diventavamo, in sua compagnia, molto più intelligenti; ci sentivamo spinti a portare nelle nostre parole quanto avevamo in noi di migliore e di più serio; buttavamo via i luoghi comuni, i pensieri imprecisi, le incoerenze.
Ci sentivamo spesso, accanto a lui, umiliati: perché non sapevamo essere, come lui, sobri, né come lui modesti, né come lui generosi e disinteressati. Ci trattava , noi suoi amici, con maniere ruvide, e non ci perdonava nessuno dei nostri difetti; ma se eravamo sofferenti o malati, si mostrava ad un tratto sollecito come una madre."
(N. Ginzburg, Ritratto di un' amico, in "Le piccole virtù, Einaudi, 19.. pagg. 28).
Dei tormenti, dei dissidi di Pavese e dei tentativi di chiarificazione che egli attua attingendo a studi di vario genere <dai classici all'antropologia, alla psicanalisi> ci danno testimonianza gli scritti di quegli anni.
Ad aggravare il suo già fragile equilibrio interiore, la sua depressione psichica interviene un'altra grande delusione sentimentale per un' attrice americana, Constance Dowling, alla quale è ispirata l'ultima breve raccolta di versi "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", una lirica drammatica, un presagio consapevole.
Il 27 agosto 1950, Pavese muore suicida, dopo aver ingerito dei sonniferi nella camera di un albergo torinese.
"Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla. "
Il mestiere di vivere.
"E' morto d'estate. La nostra città d'estate, è deserta e sembra molto grande. Non c'era nessuno di noi. Scelse, per morire, un giorno qualunque di quel torrido agosto; e scelse la stanza d'un albergo nei pressi della stazione: volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un forestiero".
(N. Ginzburg, Ritratto di un' amico, in "Le piccole virtù", Einaudi, 19.. pagg. 31,32).
" Non è affatto ridicolo o assurdo chi, pensando d'uccidersi, si secchi e spaventi di cadere sotto un'automobile o di buscarsi un malanno. A parte la questione del maggiore o minor dolore, resta sempre che volere uccidersi è desiderare che la propria morte abbia un significato, sia una suprema scelta, un atto inconfondibile. E' perciò naturale che il suicida non tolleri il pensiero di cadere per caso sotto un veicolo o crepare di polmonite o qualcosa d'altrettanto insensato (meaningless). E dunque, occhio ai crocicchi o ai colpi d'aria. "
Il mestiere di vivere.
" La scomparsa di Cesare Pavese. Ha scritto morendo: a tutti chiedo perdono. "
In "Stampa Sera", Torino, 1950, 28-29 agosto.
A Santo Stefano Belbo è stato fondato un centro-studi dedicato a Cesare Pavese con un museo che raccoglie materiali relativi allo scrittore. Nel cortile del museo, su cui si affaccia anche una scuola c'è il monumento a Cesare Pavese.
"Esser qualcosa è un'altra cosa. Ci vuole fortuna, coraggio,volontà. Sopra tutto coraggio. Il coraggio di starsene soli come se gli altri non ci fossero e pensare soltanto alla cosa che fai. Non spaventarsi se la gente se ne infischia. Bisogna aspettare degli anni, bisogna morire. Poi, dopo morto, se hai fortuna diventi qualcuno".
Nel paese che fa da sfondo a molte sue opere sono diversi i luoghi che ricordano lo scrittore: il bar delle Poste, la falegnameria dell'amico Nuto, la casa natale dove è affissa la lapide con le parole che Pavese aveva scritto nel suo diario qualche giorno prima di morire
Pavese nel ricordo degli amici
Pavese è morto in estrema solitudine, in una calda giornata di agosto,
in una città semivuota, in una stanza anonima d'albergo. Il suicidio di un
intellettuale sensibile, di un uomo solo, un gesto disperato che giunge nel
momento in cui lo scrittore aveva raggiunto una vasta celebrità con il premio
Strega per il suo ultimo romanzo. Ma Pavese
non era apparentemente un uomo solo, aveva una cerchia di amici con i quali
aveva condiviso interessi e passione, ma la loro amicizia non aveva eliminato il 'vizio' assurdo, la
tendenza al suicidio che lo aveva accompagnato per anni. In seguito gli
amici lo ricorderanno con affetto in diverse occasioni. Davide Lajolo, anche
lui scrittore delle Langhe, con un passato da partigiano, pubblica nel 1960
'Il 'vizio' assurdo' Storia di Cesare
Pavese; una biografia in cui la vasta documentazione ( lettere, pagine del
diario, ricordi di discussioni) si unisce alla ricerca appassionata di
indagare con affetto nella vita e nei sentimenti
dell'amico per capirne la crisi esistenziale, che lo avrebbe portato al
suicidio, una crisi, avverte Lajolo, che non era solo di Pavese, ma di tutta
una generazione cresciuta negli anni bui del fascismo e partecipe
dell'entusiasmo della Liberazione e della disillusione che ne era seguita. A
questo si aggiunge la crisi propria di Pavese, la sua incapacità di farsi amare
da una donna, la sua solitudine, la sua ricerca di impossibili miti. Nella
prefazione Lajolo scrive: 'Ho voluto bene a Pavese. La nostra amicizia,
nata in città, a Torino, si è rinsaldata tra le colline, tra i libri, nel gran
parlare che ne facevamo, nei grandi silenzi, quando ci immergevamo nelle
vallate, e gli olmi, le vigne, i prati, i torrenti parlavano per noi due lo
stesso linguaggio; un'amicizia fatta più intensa dai nostri caratteri opposti.
L'uno sempre deciso e battagliero a vivere; l'altro sempre disperato e deciso a morire. Lo
scrittore può senza dubbio resistere all'urto del giudizio schietto, l'uomo può
anche cedere, ma cederà, se cederà, inquadrato in quel suo tempo difficile,
deluso, dove la cronaca contrasta ad ogni passo con la storia, dove l'eroismo
si confonde con viltà e retorica.' L'ultimo capitolo della biografia si
intitola
'Spenti i falò, la luna splende ancora' e si conclude con queste parole:
'E'stato difficile ricostruire la vita di Cesare Pavese. Dire cioè come
era l'uomo e lo scrittore. L'unica certezza è questa: aver
cercato di dargli quel calore che nessuno di noi, suoi amici, siamo riusciti a
dargli interamente nella vita. Ho arato la sua vigna perchè sulla terra smossa
il ricordo di Cesare Pavese rimanga al di là dei falò, al cospetto
dell'intramontabile luna'.
La scrittrice Natalia Ginzburg nel 1957 pubblica un articolo, 'Ritratto di un amico', che è, forse, il più bel ricordo di Pavese: " E' morto d'estate. La nostra città d'estate, è deserta e sembra molto grande, chiara e sonora come una piazza; il cielo è limpido ma non luminoso, di un pallore latteo; il fiume scorre piatto come una strada, senza spirare umidità, né frescura. S'alzano dai viali folate di polvere; passano, venendo dal fiume, grossi carichi di sabbia; l'asfalto del corso è tutto spalmato di pietruzze, che cuociono nel catrame. All'aperto, sotto gli ombrelloni a frange, i tavolini dei caffé sono abbandonati e roventi. Andammo, poco tempo dopo la sua morte, in collina. C'erano osterie sulla strada, con pergolati d'uva rosseggiante, giochi di bocce, cataste di biciclette; c'erano cascinali con grappoli di pannocchie, l'erba falciata stesa ad asciugare sui sacchi: il paesaggio, al margine della città e sul limitare dell'autunno, che lui amava. Guardammo, sulle sponde erbose e sui campi arati, salire la notte di settembre. Eravamo tutti molto amici, e ci conoscevamo da tanti anni; persone che avevano sempre lavorato e pensato insieme. Come succede fra chi si vuol bene ed è stato colpito da una disgrazia, cercavamo ora di volerci più bene e di accudirci e proteggerci l'uno dall'altro; perché sentivamo che lui, in qualche sua maniera misteriosa, ci aveva sempre accuditi e protetti. "
(Natalia Ginziburg, Ritratto di un' amico, pagg. 31,32)
Lo storico Paolo Spriano, che aveva conosciuto Pavese nella redazione torinese dell'Unità, pubblica nel 1996 'Le passioni di un decennio: 1946-1956' e dedica un capitolo a Cesare Pavese, 'il primo letterato del dopoguerra che diventa un simbolo, un simbolo 'negativo', e lo diventa con la morte, con il suicidio'. Descrive l'ultimo incontro la sera prima del suicidio, quando Pavese lo va a trovare alla redazione dell'Unità, giornale di cui Spriano è redattore: 'Era molto pallido, smagrito, ma la sua visita aveva l'aspetto abituale di un saluto. Mi cercò e si trattenne al giornale per un paio d'ore, dopo la mezzanotte. Il mio rapporto con lui era quello di un giovane compagno, un ammiratore, un ragazzo dei suoi paesi, verso chi era già una forte personalità culturale e politica insieme. Lo andavo spesso a trovare in casa editrice, da Einaudi.
A volte ce ne uscivamo insieme, e si parlava dei suoi libri, delle Langhe, del suo modo di evocare le colline e le vigne. ' Spriano riporta poi un brano di una lettera di Calvino: 'Si uccise perchè imparassimo a vivere. La sua disperazione non era vanità del vivere, ma di non poter raggiungere quell' interezza di vita che desiderava e che finì per cercare nella morte.' La giornalista Bona Alterocca pubblica nel 1974 la biografia 'Pavese dopo un quarto di secolo'. La giornalista gli fu molto vicina nell'ultimo periodo e racconta come in quei giorni lo scrittore cercasse soprattutto la compagnia di qualcuno. Anche la sera prima del suicidio, dopo di essere passato da Paolo Spriano, l'aveva cercata nel giornale dove lei lavorava, ma non l'aveva trovata, aveva anche telefonato a
Fernanda Pivano, che non si trovava a Torino. L'idea di un nuovo giorno, per di più di festa da trascorrere in solitudine, in una città vuota, dovette diventargli insopportabile, specie verso l'alba. Fernanda Pivano parla dell'interesse trasmessole da Pavese per la letteratura americana e ricorda con rammarico di non essergli stata vicino proprio quella sera di agosto. Il critico musicale Massimo Mila e il filosofo Noberto Bobbio, suoi compagni di scuola e anche loro del gruppo di intellettuali della casa editrice Einaudi, ricordano non solo la sensibilità di Pavese, il suo essere schivo, ma anche le sue curiosità intellettuali e i suoi interessi per il mito e per l'antropologia, temi allora poco presenti nel panorama culturale italiano.
CAPITOLO 2
Il ruolo di Pavese nella letteratura nel Novecento
Cesare Pavese occupa un posto di grande rilievo nella letteratura del Novecento. E' un intellettuale molto complesso, atipico, difficilmente inseribile in un movimento letterario ben definito.
Assieme a Moravia e Vittorini è ritenuto l'iniziatore del Neorealismo degli anni trenta (anzi, il "capofila", secondo l'espressione del critico Gianfranco Contini).
Tuttavia il suo Neorealismo ha carattere lirico, per una mescolanza di decadentismo e Realismo. La matrice lirico- evocativa, infatti, lo discosta da quelle tendenze all'oggettività tipica del movimento neorealista e anche dai moduli dell'impersonalità dell'arte del Verismo e del Naturalismo. Come scrive Francesco Puccio in 'Testi ed Intertesti del Novecento ', 1999: "Pavese coglie dall'eredità decadente il simbolismo della morte, spogliata però da ogni compiacimento nichilistico ed estetico (Verlaine, D'Annunzio). Molti elementi delle sue opere, ad esempio, la 'vigna', la 'collina', la 'luna', i 'falò', ecc.., non vengono mai assunti come dati bozzettistici ma al contrario diventano il ricettacolo inesauribile di un fitto simbolismo che coniuga l'amara vicenda personale dell'uomo Pavese con stimoli esterni che si aprono sia alla letteratura americana che all'antropologia.
E' dall'innesto di queste due spinte esterne con la sua particolare sensibilità che nasce l'intellettuale Pavese, libero da etichette definitorie, autonomo nelle scelte linguistico- contenutistiche, proiettato nella dimensione sospesa della realtà simbolica, ove il reale è assieme fisico e metafisico, ove il simbolo non è mai rarefatto né ermetico, ma nasce sempre da un'esperienza di vita vissuta".
(F. Puccio, Testi e Intertesti del Novecento, Fratelli Conte Editori, 1999, tomo 3, pagg. 977,978).
Le opere di Pavese
Personalità di spicco della cultura italiana del suo tempo, Pavese dà vita ad opere che, ancor oggi, destano l'interesse di un vasto pubblico e della critica nazionale ed estera.
Lavorando
attivamente nell'editoria presso
Le sue poesie, i saggi, i romanzi presentano contenuti complessi ed innovativi rispetto alle tendenze letterarie del tempo. La sua intensa attività di traduttore e di critico concorre a creare assieme a Vittoriani, Fenoglio ed altri illustri scrittori, il cosiddetto "mito dell'America".
"Una delle voci più isolate della poesia contemporanea" le autodefinì lo stesso Pavese quando, nel 1943, apparvero per la prima volta i versi di Lavorare stanca.
In realtà essi erano stati scritti partendo da presupposti non uguali, anzi lontani, e con prospettive assai differenti, rispetto alla poetica italiana di quegli anni. E lo stesso dicasi per la raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi del 1951, che Pavese scrisse pochi mesi prima di suicidarsi.
Sostanza, origini, cadenza, rapporto col reale, modi di "aggredire" il lettore, risultano eccentrici poiché nascono in un clima diverso, e per un altro ordine di idee e di gusto.
Non per questo Pavese si mostra meno "italiano": casomai si lega a un'Italia che ha sue precise patenti dal Vico a Verga. Ma non è appunto da ciò che prende eccezionalità la poesia di Pavese, un' eccezionalità fondata su ragioni abbastanza sicure per comprendere il poeta, come anche il narratore, e per considerarlo fra i pochissimi "classici" del nostro secolo.
" L'arte deve scoprire nuove verità umane, non nuove istituzioni. Invece, in molti libri progressivi attuali io trovo nuove le istituzioni, ma rifritte le verità della fantasia e del cuore. "
Lettera a Rino Dal Sasso, 20 marzo 1950.
Le traduzioni
Nella produzione di Pavese sono importanti le traduzioni di opere di scrittori americani per due motivi:
Tra le traduzioni più interessanti c'è quella di Uomini e topi di Steinbeck, pubblicato nel 1937 negli Stati Uniti, apparso un anno dopo in Italia; è un piccolo intenso dramma che colloca l'amara vicenda dei suoi protagonisti su uno sfondo di denuncia sociale. Il romanzo affronta in chiave simbolica il problema dell'emigrazione contadina all'Ovest, terra di mancate promesse negli anni successivi alla Depressione: è la storia tragica e violenta di due braccianti che trovano lavoro in un ranch della California, il grande Lennie, gigante buono e irresponsabile, e il saggio George, guida e sostegno dell'amico nella vana resistenza alla difesa del mondo. Sfruttamento e lotte sociali, ingiustizia e sofferenza umana, tutti temi che verranno trattati con realismo aspro e risentito nel romanzo Furore, sono qui espressi con una vera di lirica commozione e con quel vigore narrativo che fa di Steinbeck uno dei grandi autori americani.
L'impatto di questo romanzo, come dei racconti dell'antologia "Americana" tradotti da Vittorini, sui lettori italiani fu notevole, sia per i protagonisti dei romanzi, sia per l'ambientazione.
I protagonisti sono contadini, disoccupati, persone posti ai margini della società dalla crisi del '29; l'ambientazione sono gli ampi spazi della California e il muoversi di masse di persone in cerca di lavoro sembra essere un viaggio verso la liberazione. Personaggi e tematiche di questo genere erano estranei alla narrativa italiana di quegli. Queste opere davano la possibilità di pensare che la realtà si poteva modificare, quindi avevano un'oggettiva valenza antifascista, infatti la circolazione di questi libri era ostacolata e, in qualche caso, vietata dalla censura fascista.
Le poesie
L'attività letteraria di Pavese inizia con un libro di poesia "lavorare stanca" edito nel 1936 presso
"Solaria" (riedito con aggiunte e varianti nel 1943 da Einaudi) e dopo un lungo intermezzo narrativo, si conclude con un altro libro di versi: "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", pubblicato postumo nel 1951.
La poetica pavesiana assume un ruolo fondamentale nel panorama della lirica contemporanea. In un periodo di pieno culto ermetico, Pavese intraprende una strada del tutto nuova, originale: quella della poesia-racconto, oggettiva in cui la lirica confluisce nelle prose e il linguaggio si distende in ritmi ampi, in versi lunghi, liberi (alla maniera di Withman) con toni colloquiali, talora dialettali, aderenti alle cose.
Chiarendo l'origine del componimento che apre il volume "I mari del Sud", Pavese sottolinea, nello scritto "Il mestiere di poeta", di concepire ogni poesia come un racconto.
<< Chiaro e pacato>> in quanto avverte << di aver molto da dire e di non doversi frenare a una ragione musicale dei suoi versi, ma soddisfarne altresì una logica >>.
La sua produzione rifiuta talune chiusure all'interno dell'Io e si apre verso l'esterno, stabilendo un più ampio rapporto di comunicazione con i lettori.
Tutto concorre in "Lavorare stanca" a dare un'impressione realistica: personaggi, ambienti, tematiche, ma non mancano nei vari componimenti, elementi simbolici, rievocativi ed elegiaci.
I personaggi sono: villani, giovani contadini, operai, ragazzi di fabbrica, sabbiatori, vagabondi, carcerati, prostitute,ecc..
Gli ambienti: la campagna, le colline delle Langhe, le osterie, le vie della Città, le fabbriche,ecc..
Le tematiche svolgono, spesso, il motivo di fondo della produzione pavesiane: il dissidio tra campagna e città adolescenza e maturità, uomo e donna, ozio e lavoro, individualismo e socialità, solitudine e impegno socio-politico.
A definire lo spirito e il senso complessivo di "Lavorare stanca" l'autore nel 1940 ("A proposito di alcune poesie..") dichiara che gli scritti sono incentrati sull'<< avventure dell'adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma si trova la solitudine e vi rimedia col sesso e la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna e città in una più tragica solitudine che è la fine dell'adolescenza >>.
In queste affermazioni sono racchiusi l'avventura e il tormento dello stesso Pavese che sente sempre dentro di sé, in un contrasto insanabile, la sua anima di campagna, impregnata degli odori e dei sapori delle sue colline, e la sua anima di città, sradicata ed intrisa da una tragica solitudine.
Da qui il "mito dell'infanzia" avvertita come un Eden perduto, dopo le deludenti esperienze di adulto e il "mito della propria terra d'origine" alla quale desidera ritornare come il cugino, protagonista de "I mari del Sud" (<< Camminiamo una sera sul fianco di un colle/ in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo/mio cugino è un gigante vestito di bianco. >>) o, ancora, come Anguilla, il protagonista del suo capolavoro, "La luna e i falò" (1950).
Il mito riveste una posizione fondamentale nella poetica pavesiana. L'interesse nei suoi confronti, alimentato dalla lettura di autori classici e moderni dà vita, nel dopoguerra, ad alcuni saggi teorici, tra questi è da ricordare "Del mito, del simbolo e d'altro" in cui lo scrittore afferma: <<. a ciascuno i luoghi dell'infanzia ritornano alla memoria; in essi accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico>>.
L'età infantile è sentita come il momento privilegiato, in cui il mito viene vissuto spontaneamente, quando (a suo avviso) si diventa consapevoli l'infanzia è perduta.
Il mito è l'elemento preesistente comune ed universale, ma anche oscuro e misterioso.
Nel saggio "Raccontare è monotono", Pavese afferma: << Senza mito, non si dà poesia: mancherebbe l'immersione nel gorgo dell'indistinto che della poesia ispirata a condizione indispensabile >>. Per cui, secondo il Nostro, la poesia può chiarire il mito dandogli una forma ed un ordine, razionalizzando l'urgere scomposto di una materia irrazionale.
Da qui il travaglio che investe la sua operazione artistica , avendo essa, una funzione conoscitiva, memoriale e, allo stesso tempo, terapeutica (in senso quasi psicanalitico) e liberatoria.
Lo scrittore piemontese parla spesso dell'"arte" come di un "mestiere del poeta" che riguarda a livello letterario lo stesso sforzo faticoso di imparare il << Mestiere di vivere >>.
L'ultima raccolta di versi pavesiani "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", pubblicata postume nel 1951, esprime una realtà sempre più amara e desolata. La donna che in qualche scritto precedente è indicata con immagini mitico-simboliche, quali la terra, il mare, le colline,ecc.. qui non incarna più gli attributi della natura, ma è la morte stessa a recare su di sé, come ultima traccia gli occhi della persona amata.
I romanzi
Il primo esordio di Pavese con la narrativa, in particolare i racconti brevi di "Notte di festa" (1936-1938), pubblicati postumi nel 1953 da Einaudi. In essi emergono già la nostalgia dei luoghi dell'infanzia, l'esperienza dell'esilio, elementi autobiografici, realistici, simbolici ("Terra d'esilio", "Il campo di grano", "Vita in collina") nonché, personaggi, motivi, situazioni che sono tipici di tutta l'opera pavesiana a partire dal primo romanzo "Paesi tuoi" pubblicato nel 1941.
Il secondo romanzo "La spiaggia" pubblicato nel 1942, ripropone alcuni temi del primo e prepara la strada a opere nelle quali viene introdotto l'ambiente borghese che, il Nostro presenta successivamente con uno spirito fortemente critico.
Il tema dell'esilio viene affermato, in particolare, nel romanzo "Il carcere" scritto tra il 1938 e il 1939 ma pubblicato nel 1949, assieme a "La casa in collina", nel volume "Prima che il gallo canti" (il titolo allude al tradimento evangelico di Pietro verso Cristo).
Nel 1950, il Nostro pubblica "La luna e i falò", il suo capolavoro, per il quale ottiene il premio letterario "Strega". Accostandosi a questo romanzo si ha << l'impressione di essere davanti ad un opera finale, conclusiva per espressa intenzione dell'autore, perché si sente la volontà di sintetizzare e mettere a frutto tutte le esperienze di vita e letterarie e del passato >> (G. Manacorda, appena citat., pag. 97).
Il protagonista del romanzo è Anguilla, un trovatello del villaggio, nato sulle Langhe. Divenuto adulto, va in america dove fa fortuna ma ha nostalgia della propria terra.
Nel
dopoguerra ritorna al proprio paese e trova tutto cambiato, uomini e cose.
Nuto, un suo vecchio compagno gli racconta ciò che è accaduto negli anni della
sua assenza: la guerra,
Anguilla e Nuto rievocano i ricordi di un tempo e i volti delle persone scomparse, i falò di San Giovanni, che i contadini accendevano sulle colline per vegliare la terra, simbolo di innocente letizia. Una notte il mezzadro Valino appicca il fuoco alla cascina facendo morire le bestie e la famiglia (si salva solo Cinto, il figlio zoppo).
Sono questi i falò moderni, i falò della follia, a causa dei quali crollano i miti dell'infanzia e cresce la consapevolezza della solitudine irrimediabile sentita come preludio di morte.
" Bruciano ancora sulle colline i falò. In primavera, per eliminare il legno vecchio delle viti e il 4 agosto, nell'ambito di una novena devozionale. Ma i falò sono prer-cristiani, legati ai riti sacrificali per la fecondità della terra. Ne La luna e i falò rappresentano anche il fuoco che distrugge: la famiglia del Valino, il corpo di Santa. Come nella Grecia antica, il falò è di nuovo rito, sacrificio, purificazione. Per questi suoi profondi significati, sempre un falò acceso sulle Langhe ci ricorderà Pavese.
" Effettivamente La luna è il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo -forse sempre- non farò più altro. Non conviene tentare troppo gli dei. "
Il mestiere di vivere.
" Non mi tremarono soltanto le mani a me il giorno orribile che andai
a vederlo nella sua bara, con un vestito grigio e i capelli ben ravviati,
nella sede di Einaudi. Eravamo in molti a essere disperati, tutti col
senso di colpa per non aver fatto niente, proprio niente per evitare
la pazzia di quel suicidio. "
Fernanda Pivano.
" La sera del funerale restammo alzati fino a tardi, senza parlare di lui
e senza avere il coraggio di andare a letto. Nel corteo eravamo rimasti
indietro, dal momento in cui la cassa uscì dal portone della casa editrice.
C'era molta gente. Lui s'era ucciso perché si sentiva solo. Fu quel giorno
che Pavese uscì dal giro. Ora era diventato di tutti, come uomo, come
scrittore, come mito. Cominciava la sua leggenda, grottescamente diversa
dalla sua realtà. I liceali stavano per imparare il suo nome, le mezze
calzette della cultura si preparavano a sospirare: oh, Pavese! "
Trevisani.
" L'uomo mortale, non ha che questo d'immortale.
Il ricordo che porta e il ricordo che lascia.. "
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