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Canto XIII, Pier delle Vigne




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Canto XIII, Pier delle Vigne


Tutto il XIII canto è caratterizzato da uno stile aspro, ricco di numerose figure stilistiche e complicati artifici retorici tipici dell'ars dictandi di quel periodo, e ancora più numerosi in questo capitolo, come se l'autore volesse fornire una cornice appropriata al personaggio principale che lo caratterizzerà: Pier delle Vigne. Alcuni esempi si possono ritrovare nell'anafora in "non" che caratterizza i primi iniziali, nell'artificio retorico del v. 25("Cred'io ch'ei credette ch'io credesse") oppure ancora nei vv. 41-45 dove il verbo "usciva" regge contemporaneamente un doppio soggetto sottointeso (geme e cigola) e un doppio soggetto espresso(parole e sangue).

Pier delle Vigne era un grande rimatore volgare e maestro dell'ars dictandi, rappresentante della poesia lirica volgare siciliana e contemporaneamente uno dei consiglieri più autorevoli del re Federico II. Nel 1249 viene accusato di tradire il monarca e quindi carcerato. La storia non ci dice se sia veramente colpevole o no, ciononostante Dante sembra ritenerlo innocente.

Il canto corrisponde al II girone del VII cerchio; qui si trovano i suicidi, trasformati in "uomini-pianta"(saggio di Leo Spitzer), condannati ad essere continuamente mutilati dalle arpie e dagli scialacquatori che, a loro volta, inseguiti da cagne rabbiose, sono condannati ad essere continuamente sbranati.

Non è ben chiaro il motivo per cui suicidi e scialacquatori siano condannati insieme, probabilmente è perché spesso una tragedia finanziaria era associata al suicidio.

La legge del contrappasso regola la pena per somiglianza: i suicidi sono condannati a rivivere in eterno il momento in cui hanno mutilato e rifiutato il proprio corpo e rende eterna la separazione tra il corpo e l'anima. I peccatori, infatti, sono condannati a vivere in piante mantenendo la memoria della propria vita, hanno subito una metamorfosi impensabile nella legge divina, sono stati trasformati in creature inferiori secondo la concezione teocosmogonica tipicamente gerarchica che dettavano la Bibbia e Aristotele. Questa metamorfosi è negativa perché contraria alla legge divina. Nella Divina Commedia, oltre agli uomini-pianta, si trovano anche i ladri che nel XXIV cerchio sono trasformati in serpenti.

L'elemento della metamorfosi viene ispirato in Dante dalla letteratura latina: Virgilio e prima ancora Ovidio trattano questo argomento.

Ovidio, nelle sue Metamorfosi racconta tutti i miti greci in cui è presente la trasformazione di un uomo in una pianta o un animale (ad es. Aracne trasformata in ragno o Dafne trasformata in alloro per sfuggire ad Apollo).

Ma in queste metamorfosi c'è una differenza: non sono negative, bensì positive in quanto non si scontrano con la concezione panteistica pagana, per la quale Dio è in tutto e tutto è Dio. Nei miti delle Metamorfosi, il cambiamento è completo, il corpo, prima umano, prende tutte le caratteristiche del nuovo  "oggetto" in cui si trasforma.

In Virgilio già si intravede una visione negativa: infatti, ad esempio, la pianta di Apollodoro è una pianta, ma sanguina e percepisce sensazioni come se fosse ancora una persona, non è una metamorfosi completa, ma piuttosto una trasgressione della natura. A questo episodio si ispira Dante per i suoi uomini-pianta, come lui stesso ammetterà in seguito.

Pier delle Vigne parla per la prima volta quando Dante ne spezza un ramo. Solo cosi, infatti, queste piante possono parlare: allo stesso modo in cui quando uno si fa male e libera il proprio dolore attraverso urla e lacrime, così gli uomini-pianta usano il linguaggio per liberarsi dal dolore della propria mutilazione. Dalla ferita escono insieme parole e sangue, come da un rametto verde quando, bruciato ad un'estremità, dall'altra estremità emette vapore(sangue) e crepitii(parole), (vv. 40-42).

Questo gesto di Dante rappresenta una vera e propria mutilazione materiale, in quanto il tronco è comunque il nuovo corpo del suicida e nel quale è comunque contenuta l'anima. La prima cosa che chiede Pier delle Vigne è la pietà umana di Dante (umana in quanto Dante è un vivo e non un dannato, appellandosi al fatto che anche esso prima era un uomo e non una pianta. Segue poi un discorso nel quale il giurista spiega il suo suicidio, con un'analisi soggettiva e psicologica, nella quale dice di aver visto nella morte l'unico modo di riscattarsi dall'ingiusta accusa, quella fatta dagli altri uomini alla corte siciliana, perché invidiosi della sua influenza sul re; la stessa invidia che si trova in ogni corte e che è la causa del peccato originale (Lucifero viene trasformato nel diavolo perché, invidioso di Dio, si ribella).

Questa è una di giustificazione, tipica dei dannati(come si può trovare anche nella vicenda di Paolo e Francesca) e che permette al Dante protagonista di provare pietà per il dannato (infatti, nei vv. 82-84 Dante chiede a Virgilio di parlare direttamente con Pier delle Vigne perché, tale è la pietà e l'angoscia che prova per questa vicenda, che non riuscirebbe a parlargli egli stesso). Subito dopo però, il Dante narratore spiega ai lettori in cosa consiste il peccato compiuto, attraverso la voce di Pier delle Vigne che ammette di essersi sbagliato nel compiere un gesto così atroce perché in realtà, credendo di sfuggire all'ingiustizia con la morte, ha invece compiuto un'ingiustizia proprio contro il suo stesso corpo, dando cosi ai propri calunniatori, prova di colpevolezza e attirando su di se l'ira di Dio per aver violato una legge divina ("L'animo mio, per disdegnoso gusto, / credendo col morir fuggir disdegno, / ingiusto fece contra me giusto ). In questo modo il Dante narratore condanna in ogni caso Pier delle Vigne, a prescindere dal rispetto e dalla venerazione che prova per questo grande poeta.

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