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Alessandro Manzoni
Lettera
a
Cesare Taparelli D'Azeglio
Pregiatissimo signore
Le debbo grazie singolari per
l'onore ch'Ella mi ha fatto di ripubblicare quel mio inno, per le copie che rne ne ha voluto trasmettere, e singolarissime poi per la
lettera con la quale si è degnata accompagnarle. La lunghezza nella quale
prevedo che trascorrerà questa risposta, Le sarà una prova, forse troppo
convincente, del conto ch'io faccio e della lettera e della occasione per essa
offertami di trattenermi con Lei.
Il componimento che me l'ha
procurata, non era da prima mia intenzione di pubblicarlo, se non quando avessi
potuto dargli qualche altri compagni; per servire al desiderio di alcuni amici,
senza dar fuori al pubblico sì poca cosa, ne feci tirare un picciolissimo
numero di copie. Non ne avendo alcuna qui in villa, mi do invece l'onore di
trasmetterle quell'una che mi trovo avere di due versioni latine che ne furon fatte; lodate entrambe dagli intendenti per un
diverso genere, di merito. Eccole tolto lo scrupolo
d'essere stato il primo a pubblicarlo: ma in verità se la cosa fosse stata
così, Ella non dovrebbe sentire altro scrupolo che di aver troppo solleticato
il mio amor proprio, col farsi editore d'un mio componimento.
Le rendo pur grazie dell'avermi
Ella creduto degno di sentire il nobile ed affettuoso pensiero, col quale Ella
ha cercato di raddolcire l'afflizione del suo amico, che Dio ha visitato con
severa misericordia: e se mi verrà il caso, le protesto che mi varrò di quel
pensiero come di cosa mia, poichè Ella me ne ha così
gentilmente messo a parte.
E grazie pure (è forza ch'io
ripeta questa espressione, poichè Ella me ne
moltiplica le occasioni), grazie pure le debbo ch'Ella m'abbia avvertito dello
svarione topografico incorso nel viaggio del Diacono ravennate.
Al leggere il luogo della sua pregiatissima che tocca questo punto, io andava
pensando come mai potessi esser caduto in quell'equivoco, quando ho immaginate
e cercate di descrivere le posizioni quali Ella le indica, e quali sono in
fatti. Mi sono poi avveduto che l'equivoco in quelle parole: Alla destra
piegai verso aquilone: ed è nato dall'aver io, scrivendole, dimenticato
affatto che in quel momento io rappresentava il viaggiatore tornato indietro
dalle Chiuse verso l'Italia. Non badai a quella sua situazione accidentale, e
lo immaginai rivolto con la persona verso il campo di Carlornagno,
dove, per dir così, guardavano i suoi disegni. Se Adelchi avrà vita per una
seconda edizione, io approfitterò del cortese suo avviso: così si fosse Ella
compiaciuta di correggervi errori di maggior momento.
Ma in quel troppo indulgente
giudizio de' miei pochi e piccoli lavori drammatici,
Ella ha anche lasciato trasparire un'opinione poco favorevole, o almeno un
presagio di poca durata, al sistema di poesia, secondo il quale quei lavori
sono concepiti. Cos'ha mai fatto? Con due righe di modesta dubitazione
se n'è tirate addosso Dio sa quante, Dio sa quante pagine, di cicalamento affermativo. Nella sua gentilissima lettera
Ella ha parlato d'una causa, per la quale io tengo, d'una parte, che
seguo; e questa parte è quel sistema letterario, a cui fu dato il nome di romantico.
Ma questa parola è applicata a così vari sensi, ch'io provo un vero bisogno
d'esporle, o d'accennarle almeno quello ch'io c'intendo, perché troppo
m'importa il di Lei giudizio. Oltre la condizione comune a tutti i vocaboli
destinati a rappresentare un complesso d'idee e di giudizi, quella, cioè,
d'essere intesi più o meno diversamente dalle diverse persone, questo povero
romanticismo ha anche de' significati espressamente
distinti, in Francia, in Germania, in Inghilterra. Una simile diversità, o una
maggior confusione, regna, se non m'inganno, in quelle parti d'Italia dove se
n'è parlato, giacché credo che, in alcune, il nome stesso non sia stato
proferito, se non qualche volta per caso, come un termine di magia. In Milano,
dove se n'è parlato più e più a lungo che altrove, la parola romanticismo, è
stata, se anche qui non m'inganno, adoprata a rappresentare un complesso d'idee
più ragionevole, più ordinato, più generale, che in nessun altro luogo. Potrei
rimettermi a qualche scritto, dove quelle idee sono esposte e difese molto
meglio di quello ch'io sappia fare; ma, oltre lo scopo di rappresentarne un
concetto complessivo, Le confesso che l'onore ch'Ella m'ha fatto di toccarmi
questo tasto, m'ha data la tentazione di sottoporle un qualche mio modo
particolare di considerar la questione. M'ingegnerò di ridurre e una cosa e
l'altra nei termini più ristretti che mi sarà possibile, e di fare almeno un
abuso moderato della sua pazienza.
Ciò che si presenta alla prima
a chi si proponga di formarsi il concetto, che ho accennato di quel sistema, è
la necessità di distinguere in esso due parti principali: la negativa e la
positiva.
La prima tende principalmente
a escludere - l'uso della mitologia - l'imitazione servile dei classici - le
regole fondate su fatti speciali, e non su princìpi
generali, sull'autorità de' retori, e non sul
ragionamento, e specialmente quella delle così dette unità drammatiche, di
tempo e di luogo apposte ad Aristotele.
Quanto alla mitologia, i
Romantici hanno detto, che era cosa assurda parlare del falso riconosciuto,
come si parla dei vero, per la sola ragione, che altri, altre volte, l'hanno
tenuto per vero; cosa fredda l'introdurre nella poesia ciò che non richiama
alcuna memoria, alcun sentimento della vita reale; cosa noiosa il ricantare
sempre questo freddo e questo falso; cosa ridicola ricantarli con serietà, con
un'aria reverenziale, con delle invocazioni, si direbbe quasi ascetiche.
I Classicisti hanno opposto
che, levando la mitologia, si spogliava la poesia d'immagini, le si levava la
vita. I Romantici risposero che le invenzioni mitologiche traevano, al loro
tempo, dalla conformità con una credenza comune, una spontaneità, una
naturalezza, che non può rivivere nelle composizioni moderne, dove stanno a
pigione. E per provare che queste possono vivere (e di che vita!) senza quel
mezzo, ne citavano le più lodate, nelle quali, la mitologia fa bensì capolino,
ora qua, ora là, ma come di contrabbando e di fuga, e ne potrebbe esser levata,
senza che ne fosse, né sconnessa la compagine, né scemata la bellezza del
lavoro. Citavano, dico, specialmente la Divina Commedia e la Gerusalemme,
nelle quali tiene una parte importante, anzi fondamentale, un maraviglioso soprannaturale, tutt'altro che il pagano; e le
rime spirituali del Petrarca, e le politiche, e le
rime stesse d'amore; e l'Orlando dell'Ariosto, dove invece di dei e di dee, vengono in scena
maghi e fate, per non parlar d'altro. E citavano insieme varie opere straniere,
che godono un'alta fama, non solo ne' paesi dove nacquero, ma presso le persone
colte di tutta l'Europa.
Un altro argomento de' Classicisti era, che nella mitologia si trova involto
un complesso di sapientissime allegorie. I Romantici rispondevano che, se,
sotto quelle fandonie, c'era realmente un senso importante e ragionevole,
bisognava esprimer questo immediatamente; che, se altri, in tempi lontani,
avevano creduto bene di dire una cosa per farne intendere un'altra, avranno
forse avute delle ragioni che non si vedono nel caso nostro, come non si vede
perché questo scambio d'idee immaginato una volta deva divenire e rimanere una
dottrina, una convenzione perpetua.
Per provar poi, con de' fatti anche loro, che la mitologia poteva benissimo
piacere, anche nella poesia moderna, i Classicisti adducevano
che l'uso non se n'era mai smesso fino allora. A questo i Romantici rispondevano
che la mitologia, diffusa perpetuamente nelle opere degli scrittori greci e
latini, compenetrata con esse, veniva naturalmente a partecipare della
bellezza, della coltura, e della novità di quelle per gl'ingegni che, al
risorgimento delle lettere, cercavano quelle opere con curiosità, con
entusiasmo, e anche con una riverenza superstiziosa, come era troppo naturale;
e che, come non era punto strano che tali attrattive avessero invogliati, fino
dal principio, i poeti moderni a dare alle invenzioni mitologiche quel po' di
posto; così era non meno facile a intendersi che quella pratica, trasmessa di
generazione in generazione coi primi studi, e trasformata in dottrina, non solo
si sia potuta mantenere, ma, come accade delle pratiche abusive, sia andata crescendo,
fino a invadere quasi tutta la poesia, e diventarne il fondamento e l'anima
apparente. Ma, concludevano, certe assurdità possono bensì tirare avanti, per
più o meno tempo, ma farsi eterne non mai: il momento della caduta viene una
volta; e per la mitologia è venuto.
Infatti, quello stesso vigore
straordinario e apparente, che aveva acquistato presso di noi, ne poteva esser
riguardato come un indizio, giacché non era l'espansione d'una forza innata
della poesia, l'esercizio più vasto e più potente d'un suo mezzo naturale, ma
l'applicazione sempre più esagerata d'un'aggiunta estrinseca e accidentale. E a
chi volesse riflettere, doveva parere ugualmente difficile, e il supporre che
quell'uso delle invenzioni mitologiche, sia prese per soggetto di componimenti
poetici, sia, e molto più spesso, anzi a sazietà, introdotte in quelli, come
agenti, come cause di avvenimenti, e pubblici e privati, potesse diventare una
forma permanente della poesia; e l'immaginarsi quale parte più ristretta gliene
potesse rimanere; in quale misura, con quale distinzione, un tale uso potesse
venir mantenuto; dove si potesse trovare una ragione speciale, per la parte
d'un tutto riconosciuto come irragionevole.
Tali, se mal non mi ricordo,
giacché scrivo di memoria, e senza aver sott'occhio alcun documento della
discussione, erano le principali ragioni allegate pro e contro la mitologia.
Le confesso che quelle dei
Romantici mi parevano allora, e mi paiono più che mai concludentissime.
La mitologia non è morta certamente, ma la credo ferita mortalmente; tengo per
fermo che Giove, Marte e Venere faranno la fine, che hanno fatta Arlecchino,
Brighella e Pantalone, che pure avevano molti e feroci, e taluni ingegnosi
sostenitori: anche allora si disse, che con l'escludere quei rispettabili
personaggi si toglieva la vita alla commedia: che si perdeva una gloria
particolare all'Italia (dove va qualche volta a ficcarsi la gloria!); anche
allora si sentirono lamentazioni patetiche, che ora ci fanno maravigliare, non senza un po' di riso, quando le troviamo
negli scritti di quel tempo. Allo stesso modo, io tengo per fermo, che si
parlerà generalmente tra non molto della mitologia, e della sua fine.
Intendo per fine, come
l'intendevano i Romantici, e appariva da tutte le loro parole, il cessar
d'essere una parte attiva della poesia; e questo mi fa venire in mente un'altra
difficoltà che si opponeva loro, e che è un esempio curioso del vezzo tanto
comune, d'allargare, cioè di trasformare delle opinioni, per combatterle più
comodamente. - Stando alle vostre proposte, si diceva loro da alcuni, s'avrà a
mutare una parte, non solo della poesia, ma del linguaggio comune. Non si potrà
più dire: una forza erculea, un aspetto marziale, degli augùri sinceri, e una bella quantità d'altre locuzioni
prettamente mitologiche. - A questo era facile il rispondere che l'istituzioni,
l'usanze, l'opinioni che hanno regnato lungo tempo in una o più società,
lasciano ordinariamente nelle lingue, delle tracce della loro esistenza passata,
e ci sopravvivono con un senso acquistato per mezzo dell'uso, e reso
indipendente dalla loro origine: la stessa risposta che si darebbe a chi
venisse a dire: o rimettete in onore l'astrologia, o bandite dal linguaggio i
vocaboli: influsso, ascendente, disastro, e altri derivati
dalla stessa fonte.
Ma la ragione, per la quale io
ritengo detestabile l'uso della mitologia, e utile quel sistema che tende ad
escluderla, non la direi certamente a chiunque, per non provocare delle risa,
che precederebbero, e impedirebbero ogni spiegazione; ma non lascerò di
sottoporla a Lei, che, se la trovasse insussistente, saprebbe addirizzarmi,
senza ridere. Tale ragione per me è, che l'uso della favola è idolatria. Ella
sa molto meglio di me, che questa non consisteva soltanto nella credenza di
alcuni fatti naturali e soprannaturali: questi non erano che la parte storica;
ma la parte morale era fondata nell'amore, nel rispetto, nel desiderio delle
cose terrene, delle passioni, de' piaceri portato
fino all'adorazione, nella fede in quelle cose come se fossero il fine, come se
potessero dare la felicità, salvare. L'idolatria in questo senso può sussistere
anche senza la credenza alla parte storica, senza il culto; può sussistere
purtroppo anche negli intelletti persuasi della vera Fede: dico l'idolatria, e
non temo di abusare del vocabolo, quando San Paolo l'ha applicato espressamente
all'avarizia, come ha anche chiamato Dio de' golosi
il ventre.
Ora cos'è la mitologia
conservata nella poesia, se non questa idolatria? E qual prova più espressa se
ne potrebbe desiderare, di quella che ne danno gli argomenti sempre adoprati a
raccomandarla? La mitologia, si è sempre detto, serve a rappresentare al vivo,
e rendere interessanti le passioni, le qualità morali, anzi le virtù. E come fa
questo la mitologia? Entrando, per quanto è possibile, nelle idee degli uomini,
che vedevano un dio in ognuna di quelle cose; usando del loro linguaggio,
tentando di fingere una credenza a ciò, che quelli credevano; ritenendo in
somma dell'idolatria tutto ciò che è compatibile con la falsità riconosciuta di
essa. Così l'effetto generale della mitologia non può essere, che di
trasportarci alle idee di que' tempi in cui il Maestro (Cristo, ndr) non era venuto, di quegli uomini che non ne avevano né
la previsione, né il desiderio; di farci parlare anche oggi, come se Egli non
avesse insegnato, di mantenere i simboli, l'espressioni. le formule dei
sentimenti chEgli ha inteso distruggere; di farci
lasciar da una parte i giudizi ch'Egli ci ha dati delle cose, il linguaggio che
è la vera espressione di quei giudizi, per ritenere le idee e i giudizi del
mondo pagano. E non si può dire che il linguaggio mitologico, adoperato com'è
nella poesia, sia indifferente alle idee, e non si trasfonda in quelle che
l'intelletto tiene risolutamente e avvertitamente. E
perché dunque si farebbe uso di quel linguaggio, se non fosse per affezione a
ciò che esprime? se non fosse per produrre un assentimento, una simpatia? A che
altro fine si scrive e si parla? Sia dunque benedetta la guerra che gli si è
fatta, e che gli si fa; e possa diventare testo di prescrizione generale quel
verso:
Vate, scorda gli Achei, scorda le fole
dettato in una particolare occasione da una illustre di Lei
amica (Marchesa Diodata Saluzzo di Roero, ndr), la quale fu de' pochissimi, che col fatto antivennero le teorie,
cercando e trovando spesso così splendidamente il bello poetico, non in quelle
triste apparenze, né in quelle formole convenute, che
la ragione non intende o smentisce, e delle quali la prosa si vergognerebbe; ma
nell'ultimo vero Dio, ndr), in cui l'intelletto
riposa.
Insieme con la mitologia
vollero i Romantici escludere l'imitazione dei classici; non già lo studio,
come volle intendere la parte avversaria. Se ho bene intesi gli scritti, e i
discorsi di alcuni di loro, nessuno di essi non sognò mai una cosa simile.
Sapevano troppo bene (e chi l'ignora?), che l'osservare in noi l'impressione
prodotta dalla parola altrui c'insegna, o per dir meglio, ci rende più abili a
produrre negli altri delle impressioni consimili; che l'osservare l'andamento,
i trovati, gli svolgimenti dell'ingegno altrui è un lume al nostro; che questo,
ancor quando non metta direttamente un tale studio nella lettura, ne resta,
senza avvedersene, nutrito e raffinato; che molte idee, molte immagini, che
approva e gusta, gli sono scala per arrivare ad altre talvolta lontanissime in
apparenza; che insomma per imparare a scrivere giova il leggere, e che questa
scola è allora più utile, quando si fa sugli scritti d'uomini di molto ingegno
e di molto studio, quali appunto erano, tra gli, scrittori che ci rimangono
dell'antichità, quelli che specialmente sono denominati classici.
Non cessarono quindi di
protestare contro il carico che si dava loro, con quella falsissima
interpretazione, di vilipendere i classici, e di riguardare gli scritti che ce
ne rimangono, come anticaglie da mettersi da parte. Anzi non trascurarono
l'occasioni, non solo di lodarli in genere, ma di notare in essi dei pregi, che
non erano stati indicati dai loro più fervidi ammiratori. Taluno perfino lodò
quelle bellezze in molto bei versi; ne riprodusse alcune traducendole, e con
una tale riuscita, che, chi pretendesse d'avere pei classici un'ammirazione più
sentita della sua, mostrerebbe una grande stima non solo di questi, ma di sé
medesimo.
Quello
che i Romantici combattevano, è il sistema d'imitazione, che consiste
nell'adottare e nel tentare di riprodurre il concetto generale, il punto di
vista dei classici, il sistema, che consiste nel ritenere in ciascun genere
d'invenzione il modulo, ch'essi hanno adoprato, i caratteri che ci hanno
impressi, la disposizione, e la relazione delle diverse parti; l'ordine e il
progresso de' fatti, ecc. Questo sistema
d'imitazione, dei quale ho appena toccati alcuni punti; questo sistema fondato
sulla supposizione a priori, che i classici abbiano trovati tutti i
generi d'invenzione, e il tipo di ciascheduno, esiste dal risorgimento delle
lettere; forse non è stato mai ridotto in teoria perfetta, ma è stato ed è
tuttavia applicato in mille casi, sottinteso in mille decisioni, e diffuso in
tutta la letteratura. Basta osservare un solo genere di scritti, le
apologie letterarie: quasi tutti coloro, che hanno perduto il tempo a difendere
i loro componimenti contro coloro, che avevano perduto il tempo a censurarli,
hanno allegati gli esempi e l'autorità dei classici, come la giustificazione
più evidente, e più definitiva. Non è stato ridotto in teoria; e questa appunto
è forse la fatica più gravosa e la meno osservata di quelli, che vogliono
combattere idee false comunemente ricevute, il dover pigliarle qua e là,
comporle, ridurle come in un corpo, metterci l'ordine, di cui hanno bisogno per
combatterle ordinatamente. Non è stato questo sistema né ragionato, né provato,
né discusso seriamente; anzi, a dir vero, si sono sempre messe in campo e
ripetute proposizioni, che gli sono opposte; sempre si è gettata qualche parola
di disprezzo contro l'imitazione servile, sempre si è lodata e raccomandata
l'originalità; ma insieme si è sempre proposta l'imitazione. Si è insomma
sempre predicato il pro e il contro, come meglio tornava al momento, senza
raffrontarli mai, né stabilire un principio generale. Questo volevano i
Romantici che si facesse una volta; volevano che, da litiganti di buona fede,
si definisse una volta il punto della questione, e si cercasse un principio
ragionevole in quella materia; chiedevano, che si riconoscesse espressamente,
che, quantunque i classici abbiano scritte cose bellissime, pure né essi né verun altro non ha dato, né darà mai un tipo universale,
immutabile, esclusivo di perfezione poetica. E non solo mostrarono in astratto
l'arbitrario e l'assurdo di quel sistema d'imitazione, ma cominciarono anche a
indicare in concreto molte cose evidentemente irragionevoli introdotte nella
letteratura moderna per mezzo dell'imitazione de'
classici. E per esempio, sarebbe egli mai, senza un tal mezzo, venuto in mente
a de' poeti moderni di rappresentar de' pastori, in quelle condizioni e con que' costumi che si
trovano nelle egloghe, o nei componimenti di simil
genere, dal Sannazaro al Manara,
se, prima di quello, o dopo questo, non ci furono altri poeti bucolici, o
ignorati o dimenticati da me? E perché dall'imitazione cieca e, per dir così
materiale, si sdrucciola facilmente nella caricatura, avvenne, una mattina, che
tutti i poeti italiani, voglio dire quelli che avevano composti, o molti, o
pochi versi italiani, si trasformarono, loro medesimi (idealmente s'intende) in
tanti pastori, abitanti in una regione del Peloponneso, con de'
nomi, né antichi, né moderni, né pastorali, né altro; e in quasi tutti i loro
componimenti, di qualunque genere, e su qualunque soggetto, parlavano, o
ficcavano qualche cenno delle loro gregge e delle loro zampogne, de' loro pascoli e delle loro capanne. E una tale usanza
poté, non solo vivere tranquillamente per una generazione, ma tener duro contro
le così frizzanti e così sensate canzonature del Baretti,
e sopravvivere anche a lui.
Profittando poi, com'era
facile in ogni cosa, delle contradizioni de' loro avversari, dicevano i Romantici: Non siete voi
quelli che, ne' classici, lodate tanto l'originalità, quell'avere ognuno di
loro, un carattere proprio, spiccato e, per dir così, personale? E non è dunque
in questo, cioè nel non essere imitatori, che, anche secondo voi altri, è
ragionevole l'imitarli?
Le ragioni del sistema
romantico, per escludere la mitologia e l'imitazione, sono, com'Ella ha
certamente veduto, molto consentanee tra di loro. E consentanee ugualmente
all'une, e all'altre sono le ragioni per sbandire le regole arbitrarie, e
specialmente quella delle due unità drammatiche. Di queste non Le parlerò:
forse ne ho anche troppo ciarlato in stampa; e non so s'io deva o dolermi o rallegrarmi
di non avere una copia da offrirle d'una mia lettera (a Chauvet,
ndr) pubblicata in Parigi su questo argomento;
lettera, alla lunghezza della quale spero che non arriverà questa, della quale,
per dir la verità, principio a vergognarmi. Ma la bontà ch'Ella m'ha
dimostrata, mi fa animo, e tiro avanti.
Intorno alle regole generali,
ecco quali furono, se la memoria non m'inganna, le principali proposizioni
romantiche. Ogni regola, per esser ricevuta da uomini, debbe
avere la sua ragione nella natura della mente umana. Dal fatto speciale, che un
tale scrittor classico, in un tal genere, abbia ottenuto l'intento, toccata la
perfezione, se si vuole, con tali mezzi, non se ne può dedurre, che quei mezzi devano pigliarsi per norma universale, se non quando si
dimostri, che siano applicabili, anzi necessari in tutti i casi d'ugual genere;
e ciò per legge dell'intelletto umano. Ora, molti di quei mezzi, di quei
ritrovati messi in opera dai classici, furono suggeriti ad essi dalla natura
particolare del loro soggetto, erano appropriati a quello, individuali per così
dire; e l'averli trovati in quella occorrenza, è un merito dello scrittore, ma
non una ragione per farne una legge; anzi è una ragione per non farnela. Di più, anche nella scelta dei mezzi, i classici
possono avere errato; perché no? e in questi casi, invece di cercare nel fatto
loro una regola da seguire, bisogna osservare un fallo da evitarsi. A voler
dunque profittare con ragione dell'esperienza, e prendere dal fatto un lume per
il da farsi, si sarebbe dovuto distinguere nei classici ciò, che è di ragione
perpetua, ciò, che è di opportunità speciale. Se questo discernimento fosse
stato tentato e eseguito da de' filosofi, converrebbe
tener molto conto delle loro fatiche, senza però ricevere ciecamente le loro
decisioni. Ma invece questa provincia è stata invasa, corsa, signoreggiata
quasi sempre da retori estranei affatto agli studi sull'intelletto umano; e
questi hanno dedotte dal fatto, inteso come essi potevano, le leggi che hanno
volute, hanno ignorate, o repudiate le poche ricerche
de' filosofi in quella materia, o se ne sono
impadroniti, le hanno commentate a loro modo, traviate, o anche qualche volta
hanno messo sotto il nome e l'autorità di quelli le loro povere e strane
prevenzioni. Ricevere senza esame, senza richiami, leggi di tali, e così
create, è cosa troppo fuori di ragione. E quale in fatti, aggiungevano i
Romantici, è l'effetto più naturale del dominio di queste regole? Di distrarre
l'ingegno inventore dalla contemplazione del soggetto, dalla ricerca dei
caratteri propri e organici di quello, per rivolgerlo e legarlo alla ricerca e
all'adempimento di alcune condizioni affatto estranee al soggetto, e quindi
d'impedimento a ben trattarlo. E un tale effetto non è forse troppo manifesto?
Queste regole non sono forse state per lo più un inciampo a quelli, che tutto
il mondo chiama scrittori di genio, e un'arme in mano di quelli, che tutto il
mondo chiama pedanti? E ogni volta che i primi vollero francarsi
di quell'inciampo, ogni volta che, meditando sul loro soggetto, e trovandosi a
certi punti, dove per non istorpiarlo era forza di
violare le regole, essi le hanno violate, che n'è avvenuto? I secondi gli
attendevano al varco; e senza esaminare, né voler intendere il perché di quelle
che chiamavano violazioni, senza provare, né saper nemmeno, che ad essi
incombeva di provare, che l'attenersi alla regola sarebbe stato un mezzo per
trattar meglio quel soggetto, gridarono ogni volta contro la licenza, contro
l'arbitrio, contro l'ignoranza dello scrittore. Ora, poiché ciò che ha data
sempre tanta forza ai pedanti contro gli scrittori d'ingegno, è per l'appunto
questo rispetto implicito per le regole, perché, dicevano i Romantici,
lasceremo noi sussistere una tale confusione, un tal mezzo per tormentare gli
uomini d'ingegno? Non sono stati sempre tormentati più del bisogno?
Dall'altra parte,
proseguivano, non è egli vero che, passato un certo tempo, quella stessa
violazione delle regole, ch'era stata un capo d'accusa per molti scrittori,
divenne per la loro memoria un soggetto di lode? che ciò che s'era chiamata
sregolatezza, ebbe poi nome d'originalità? E, come nella questione della
mitologia, allegavano anche qui la lode che noi italiani diamo a più d'uno de' nostri poeti prediletti, e quella che altre colte
nazioni danno ad alcuni de' loro, d'avere abbandonate
le norme comuni; d'essersi resi superiori a quelle: d'avere scelta una, o
un'altra strada non tracciata, non preveduta. nella
quale la critica non aveva ancora posti i suoi termini, perché non la
conosceva, e il genio solo doveva scoprirla? Se per questi, dicevano, il
trasgredir le regole è stato un mezzo di far meglio. perché s'avrà sempre a
ripetere che le regole sono la condizione essenziale per far bene?
Alla conseguenza che i
Romantici cavavano da questo fatto, mi ricordo, che si dava generalmente una
risposta non nova, ma molto singolare: cioè che molte cose sono lecite ai
grandi scrittori, ma ad essi soli; e che in ciò la loro pratica non è un
esempio per gli altri. Le confesso, che non ho mai potuto comprendere la forza
dell'argomento, che pare essere incluso in questa sentenza. Cercando la ragione
per cui quei grandi scrittori hanno ottenuto l'effetto con la violazione delle
regole, m'è sempre parso che la cagione fosse questa: che essi, vedendo nel
soggetto una forma sua propria che non sarebbe potuta entrare nella stampa (stampo,
ndr)' delle regole, hanno gettata via la stampa,
hanno svolta la forma naturale del soggetto, e così ne hanno cavato il più e il
meglio, che esso poteva dare al loro ingegno. Il lecito, l'illecito, la
dispensa non veggo cosa ci abbiano a fare; mi paiono
metafore che, in questo caso, non hanno un senso al mondo. Ora quella ragione
non è per nulla particolare ai grandi ingegni, è universalissima,
viene dalla natura stessa della cosa, indica il mezzo, con cui, e grandi e
piccoli, ognuno secondo la sua misura, può fare il meglio possibile.
- Oh! i mediocri non
arriveranno mai a scoprire in un argomento quella forma splendida, originale,
grandiosa, che appare ai grandi ingegni. - Sia, col nome del cielo; non ci
arriveranno; ma di che aiuto saranno ad essi le regole? O le sono ragionevoli,
e in questo caso i grandi scrittori non se ne devono dispensare, perché sarebbe
privarsi d'un aiuto a trovare e a esprimere più potentemente quella forma: o le
sono irragionevoli, e se ne devono dispensare anche i mediocri, perché esse non
potranno fare altro che impicciarli di più, allontanarli di più dalla verità
del concetto, e mettere la storpiatura, dove senza di esse non sarebbe stato,
che minor perfezione. Onde, quanto più penso a questa doppia misura di regole,
obbligatorie per molti, e per alcuni no, tanto più mi pare fuor di proposito.
Ed è, se non m'inganno, stata trovata per uscire d'impiccio: quando ci si fa
vedere una contradizione tra due proposizioni, che
affermiamo ugualmente; e quando non vogliamo né confrontarle tra di loro, né
abbandonarne nessuna, né sappiamo farle andar d'accordo, ne inventiamo una
terza, la quale mette la pace tra le parole, se non tra le idee, non serve al
ragionamento, ma serve a dare una risposta, che in fine è quello, che più
preme. Ma se anche una tale strana distinzione si volesse ammettere, cosa farne
poi in pratica? come applicarla nel fatto? L'uomo che, nell'atto del comporre
si trova combattuto tra la regola, e il suo sentimento, dovrà egli proporsi
questo curioso problema: Son io, o non sono un
grand'uomo? E come scioglierlo poi? - Oh! si fidi al suo genio, se ne ha; e
lasci dire. - Si fidi! Veramente l'esperienza può inspirar molta fiducia; e
come possono dire, si fidi, quelli per l'appunto, che vogliono tenere in vigore
tutti quei mezzi, che sono sempre stati adoprati a levare la fiducia ai più
forti ingegni, e l'hanno realmente levata a più d'uno di loro? Lasci dire! Mi
pare, che invece di consigliare que' pochi infelici, che portano la croce del
genio, a non curare le nostre parole, sarebbe tempo, che cominciassimo noi a
pesarle un po' più.
Ma io, dimenticando che parlo
con un giudice, mi son lasciato andare un momento a
garrire con degli avversari. Scusi di grazia questa scappata, e mi scusi anche
del rimettermi nella strada d'infastidirla ancora qualche tempo.
Alle altre proposizioni messe
in campo dai Romantici contro le regole arbitrarie, non mi ricordo veramente,
se qualche cosa si rispondesse, né veggo che cosa si
possa rispondere. Si diceva bene da molti, che il fine di quelle proposizioni
era di sbandire ogni regola dalle cose letterarie, d'autorizzare, di promuovere
tutte le stravaganze, di riporre il bello nel disordinato. Che vuol Ella? A
questo mondo è sempre stata usanza d'intendere e di rispondere a questo modo.
Prima d'abbandonare il
discorso delle regole, mi permetta che Le sottoponga un'osservazione che non mi
sovviene d'aver trovata proposta da altri: ed è, che il soggetto d'una
questione, che dura da tanto tempo, non è stato mai definito con precisione. La
parola: 'regole', intorno alla quale si aggira la disputa, non ha mai
avuto un senso determinato. Un uomo, che sentisse per la prima volta parlare di
questa discussione intorno alle regole, dovrebbe certamente supporre, che
fossero determinate in formule precise, descritte in un bel codice conosciuto e
riconosciuto da tutti quelli, che le ammettono; tante né più né meno, tali e
non altrimenti: perché la prima condizione per far ricevere altrui una legge, è
di fargliela conoscere. Ora Ella sa, se la cosa sia così. E se uno di quelli
che ricusano questo dominio indefinito delle regole, dicesse a uno di quelli,
che lo propugnano: sono convinto; questa parola regole, ha un non so che, che
mi soggioga l'intelletto: mi rendo; e per darvi una prova della mia docilità,
vi fo una proposizione la più larga, che in nessuna disputa sia stata fatta
mai. Pronunziate a una a una le formule di queste regole adottate, come dite,
da tutti i savi; e ad ognuna io risponderò: amen; certo, costui, con tanta
sommissione apparente, farebbe all'altro una brutta burla, lo metterebbe in uno
strano impiccio.
Sono ben
lontano dal credere d'avere espressa una idea compita della parte negativa del
sistema romantico. Molte cose saranno sfuggite alla mia osservazione, quando la
questione si dibatteva: molte dopo, dalla memoria; e dell'altre ne ho omesse
apposta, o perché non potevano così naturalmente venire sotto quei pochi capi,
che ho presi qui per tema, o anche, se non ad effetto, almeno ad intento di
brevità. Pure oso credere, che anche il poco, che ho qui affoltato
di quel sistema, basti a farne sentire il nesso, e l'importanza, a farci
scorgere una vasta e coerente applicabilità d'un principio a molti fatti della
letteratura, e una forse ancor più vasta e feconda applicabilità a tutti i
fatti della letteratura stessa. Dovrei ora passare alla parte positiva, e
spicciarmi; ma non mi posso ritener di parlare d'una obiezione, o, per dir
meglio, di una critica, che si faceva al complesso delle idee, che ho toccate
fin qui.
Si diceva che tutte quelle
idee, quei richiami, tutte quelle proposte di riforma letteraria, erano cose
vecchie, ricantate, sparse in cento libri. Che questa fosse una critica fatta
alle persone, non una obiezione al sistema, è una cosa manifesta. La questione
era, se certe idee fossero vere o false; cosa c'entrava, che fossero nove o
vecchie? Riconosciuta la verità, o dimostrata la falsità delle idee, anche
l'altra ricerca poteva esser utile alla storia delle cognizioni umane; ma
anteporre questa ricerca, farne il soggetto principale della questione, era un
cambiarla per dispensarsi dal risolverla. Di più questa taccia di plagiari che
si dava ai Romantici, faceva a' cozzi con quella di
novatori temerari che si dava loro ugualmente. E a ogni modo, non esito a dirla
ingiusta. Non parlerò dell'idee nove messe in campo da quelli; le opposizioni
stesse ne provocarono assai. Ma il nesso delle antiche; ma la relazione
scoperta e indicata tra di esse; ma la luce e la forza reciproca, che venivano
a tutte dal solo fatto di classificarle sotto ad un principio, il sistema
insomma, da chi era stato immaginato, da chi proposto, da chi ragionato mai?
Dalle ricchezze intellettuali sparse, dal deposito confuso delle cognizioni
umane, raccogliere pensieri staccati e accidentali, verità piuttosto sentite
che comprese, accennate piuttosto che dimostrate; subordinarle a una verità più
generale, che riveli tra di esse un'associazione non avvertita in prima;
cambiare i presentimenti di molti uomini d'ingegno in dimostrazioni, levare a
molte idee l'incertezza, e l'esagerazione; sceverare quel misto di vero e di
falso, che le faceva rigettare in tutto da molti, e ricevere in tutto da altri
con un entusiasmo irragionevole; collocarle con altre, che servono ad esse di
limite e di prova a un tempo, non è questa la lode d'un buon sistema? e è forse
una lode tanto facile a meritarsi? E chi ha mai desiderato, o immaginato un
sistema, che non contenesse, fuorché idee tutte nove?
Del resto, non c'è qui da
vedere un'ingiustizia particolare: l'accusa di plagio è stata fatta sempre agli
scrittori, che hanno detto il più di cose nove; sempre s'è andato a frugare ne'
libri antecedenti, per trovare che il tal principio era stato già immaginato,
insegnato, ecc.; sempre si è detto ch'era la centesima volta, che quelle idee
venivano proposte. E che avrebbero potuto rispondere quegli scrittori? Tal sia
di voi, che siete stati sordi le novantanove; tal sia di voi, che, avendo in
tanti libri tutte queste idee, non ne tenevate conto, e continuavate a
ragionare come se non fossero mai state proposte. Ora noi v'abbiamo costretti
ad avvertirle; quando non si fosse fatto altro, questo almeno è qualcosa di
novo.
Se alcuno volesse provare che
il merito da me accennato poco sopra, e altri simili, non si trovano nel
sistema romantico, credo che ascolterei le sue prove con molta curiosità, e con
una docilità spassionata; ma finora ciò non è, ch'io sappia, stato né fatto né
tentato. Intanto non posso a meno di non ravvisarci quel merito; e m'accade
spesso, leggendo opere letterarie, precettive, o
polemiche, anteriori al sistema romantico, d'abbattermi in idee molto
ragionevoli, ma independenti dalla dottrina generale
del libro, idee volanti, per dir così, le quali, in quel sistema, sono
collocate razionalmente, e ci sono divenute stabili e feconde. Similmente, ne'
libri di scrittori ingegnosi, ma paradossali di professione, m'accade spesso di
trovare di quelle opinioni speciose e vacillanti, che da una parte hanno l'aria
d'una verità triviale, e dall'altra d'un errore strano; e di riflettere con
piacere, che quelle opinioni trasportate nel sistema romantico, ci sono legate
e temperate in modo, che il vero ne è conservato e appare più manifesto e
importante, e il falso, lo strano ne sono naturalmente recisi e esclusi. Con
tutto ciò la parte negativa è, senza dubbio, la più notabile del sistema
romantico, almeno del trovato e esposto fino ad ora.
Il positivo non è a un bon
pezzo (di gran lunga, ndr), né così preciso,
né così diretto, né sopra tutto così esteso. Oltre quella condizione generale
dell'intelletto umano, che lo fa essere più attivo nel distruggere, che
nell'edificare, la natura particolare del sistema romantico doveva produrre
questo effetto. Proponendosi quel sistema d'escludere tutte le norme, che non
siano veramente generali, perpetue, ragionevoli per ogni lato, viene a renderne
più scarso il numero, o almeno più difficile e più lenta la scelta. Un'altra
cagione fu la breve durata della discussione, e il carattere, che prese fino
dal principio. Come il negativo era naturalmente il primo soggetto da
trattarsi, così occupò quasi interamente quel poco tempo. La discussione poi
prese purtroppo un certo colore di scherno, come per lo più accade; ora in
tutte le questioni trattate schernevolmente c'è più
vantaggio nell'attaccare, che nel difendere: quindi i Romantici furono
naturalmente portati a diffondersi, e a insistere più nella parte negativa,
nella quale, per dir la verità, trovavano da sguazzare; e quanto al positivo
furono portati a tenersi a de' princìpi
generalissimi, che danno meno presa a cavillazioni e
a parodie. Non poté per questo il sistema romantico evitare, neppur esso la derisione; ma almeno quelli, che vollero
deriderlo, furono costretti a esagerarlo, o piuttosto a inventarne uno, loro, e
ad apporlo (attribuirlo, ndr) a chi non lo aveva mai
né proposto, né sognato; metodo tanto screditato, ma d'una riuscita quasi
infallibile, e che probabilmente si smetterà alla fine del mondo.
Se la disputa fosse
continuata, o, per dir meglio, se, invece d'una disputa si fosse fatta una
investigazione comune, dall'escludere si sarebbe passati al proporre, anzi in
questo si sarebbe fissata la maggiore intenzione degli ingegni. E allora, si
potrebbe credere che le opinioni sarebbero state tanto più varie quanto più
abbondanti; e che molti ingegni, movendo da un centro comune, si sarebbero però
avviati per tanti raggi diversi, allontanandosi anche talvolta l'uno dall'altro
a misura che si sarebbero avanzati: tale è la condizione delle ricerche
intellettuali intraprese da molti. Ma il sistema romantico non potè arrivare, o piuttosto, non arrivò a questo periodo. E
ciò nonostante, un gran rimprovero, che veniva fatto ai suoi sostenitori, era,
che non s'intendevano nemmeno fra di loro: cominciassero, si diceva, ad
accordarsi perfettamente nelle idee, prima di proporle agli altri come verità.
Rimprovero, al quale non posso tuttavia pensare senza maraviglia. In regola
generale, quelli, che così parlavano, chiedevano una cosa che l'ingegno non ha
data, né può dar mai. Mai questa concordia perfetta di più persone in tutti i
punti d'un sistema morale non ha avuto luogo: bisognerebbe, a ottenerla, tutti
questi punti si adottassero da ciascheduno altrettanti giudizi, altrettante
formule uniche e invariabili; ai tanti uomini diventassero uno solo, per potere
a ogni novo caso fare una identica applicazione di quei giudizi generici. C'è
bene un ordine di cose, nel quale esiste una essenziale e immutabile concordia;
ma quest'ordine è unico; i suoi caratteri, le sue circostanze sono
incomunicabili. Quest'ordine è la religione: essa dà una scienza, che
l'intelletto non potrebbe scoprire da sé, una scienza, che l'uomo non può
ricevere, che per rivelazione, e per testimonianza; ora una sola rivelazione
include una sola dottrina, e quindi produce una sola credenza. E anche in
quest'ordine, la concordia delle menti non è comandata, se non dove è
sommamente ragionevole; cioè in quei punti, nei quali la verità non si può
sapere, che per la testimonianza di chi ne ha ricevuta la rivelazione, cioè
della Chiesa; e non è comandata questa concordia, se non dal momento, che l'unico
testimonio ha parlato. Ma, nelle cose umane, questo testimonio non esiste, non
è stata né fatta, né promessa ad alcuno una comunicazione di scienza,
un'assistenza nelle decisioni; quindi i giudizi variano secondo la varietà
degl'ingegni, e riescono generalmente così dissimili, che a chiamar uno un
sistema, non si ricerca mai il fatto impossibile, che esso riunisca tutti i
giudizi in una materia qualunque, ma il fatto difficile e raro, che ne riunisca
molti, nei punti principali di essa.
Nel caso particolare poi del
sistema romantico il rimprovero mi pareva molto stranamente applicato. Se
quelli, che lo facevano, avessero voluto riandare la storia de'
sistemi umani, avrebbero trovato, io credo, che pochi furono quelli, che
presentassero meno dissentimenti dal romantico. Se avessero fatto solamente un
po' d'esame sul sistema chiamato classico, al quale volevano, che si dasse la preferenza, avrebbero potuto veder subito quanto
più gravi e più numerosi siano in quello i dispareri, le incertezze, le varie
applicazioni; avrebbero veduto, quanto sarebbe più difficile il ridurlo a
formule generali, il comporne una, per dir così, confessione che fosse
comunemente ricevuta da coloro che ricevono la parola classico. E se avessero
voluto voltarsi indietro a ricercar le cagioni d'una tale differenza tra le due
dottrine, o opinioni, avrebbero dovuto, da una parte, riconoscere che questo
non poter la loro esser ridotta in una forma sintetica, nemmeno apparente,
veniva dall'essere, non una applicazione di principi a un complesso di casi
speciali, ma un miscuglio di fatti accidentali, convertiti in princìpi; e per una certa quale consolazione (solatia victis), avrebbero potuto osservare che una cagione dei
vantaggio che avevano in questo i Romantici, era il fatto già accennato anche
qui, cioè il non essere andati molto avanti nell'applicazioni speciali e
distinte al da farsi, dove sarebbero potute, o dovute nascer le discordanze,
come tra degli alleati, uniti nel combattere un nemico comune, le cose
s'imbrogliano quando, dopo la vittoria, si viene a trattare della distribuzione
de' territori conquistati.
Dove poi l'opinioni de' Romantici erano unanimi, m'è parso, e mi pare, che
fosse in questo: che la poesia deva proporsi per oggetto il vero come l'unica
sorgente d'un diletto nobile e durevole; giacché il falso può bensì trastullar
la mente, ma non arricchirla, né elevarla; e questo trastullo medesimo è, di
sua natura instabile e temporario, potendo essere,
come è desiderabile che sia, distrutto, anzi cambiato in fastidio, o da una
cognizione sopravvegnente del vero, o da un amore
cresciuto del vero medesimo. Come il mezzo più naturale di render più facili e
più estesi tali effetti della poesia, volevano che essa deva scegliere de' soggetti che, avendo quanto è necessario per
interessare le persone più dotte, siano insieme di quelli per i quali un
maggior numero di lettori abbia una disposizione di curiosità e
d'interessamento, nata dalle memorie e dalle impressioni giornaliere della
vita; e chiedevano, per conseguenza, che si dasse
finalmente il riposo a quegli altri soggetti, per i quali la classe sola de' letterati, e non tutta, aveva un'affezione venuta da
abitudini scolastiche, e un'altra parte del pubblico, non letterata né
illetterata, una reverenza, non sentita, ma cecamente
ricevuta.
Non voglio dissimulare né a
Lei (che sarebbe un povero e vano artifizio) né a me stesso, perché non
desidero d'ingannarmi, quanto indeterminato, incerto, e vacillante
nell'applicazione sia il senso della parola 'vero' riguardo ai lavori
d'immaginazione. Il senso ovvio e generico non può essere applicato a questi,
ne' quali ognuno è d'accordo che ci deva essere dell'inventato, che è quanto
dire, del falso, il vero, che deve trovarsi in tutte le loro specie, et méme dans la fable, è dunque
qualche cosa di diverso da ciò, che si vuole esprimere ordinariamente con
quella parola, e, per dir meglio, è qualche cosa di non definito; né il
definirlo mi pare impresa molto agevole, quando pure sia possibile. Comunque
sia, una tale incertezza non è particolare al principio che ho tentato
d'esporle: è comune a tutti gli altri, è antica; il sistema romantico ne
ritiene meno di qualunque altro sistema letterario, perché la parte negativa,
specificando il falso, l'inutile, e il dannoso, che vuole escludere, indica, e
circoscrive nelle idee contrarie qualcosa di più preciso, un senso più lucido
di quello, che abbiamo avuto finora. Del resto, in un sistema recente, non si
vuol tanto guardare agli svolgimenti, che possa aver già ricevuti, quanto a
quelli, di cui è capace. La formula che ne esprime il principio, è così
generale; le parole di essa hanno, se non altro un suono, un presentimento così
bello e così savio; il materiale dei fatti, che devono servire agli
esperimenti, è così abbondante, che è da credersi, che un tale principio sia
per ricevere, di mano in mano, svolgimenti, spiegazioni e conferme, di cui ora
non è possibile prevedere in concreto, né il numero, né l'importanza. Tale
almeno è l'opinione, che ho fitta nella mente, e che m'arride anche perché in
questo sistema, mi par di vedere una tendenza cristiana.
Era questa tendenza nelle
intenzioni di quelli, che l'hanno proposto, e di quelli, che l'hanno approvato?
Sarebbe leggerezza l'affermarlo di tutti, poiché in molti scritti di teorie
romantiche, anzi nella maggior parte, le idee letterarie non sono espressamente
subordinate al cristianesimo, sarebbe temerità il negarlo, anche d'uno solo,
perché in nessuno di quegli scritti, almeno dei letti da me, il cristianesimo è
escluso. Non abbiamo, né i dati, né il diritto, né il bisogno di fare un tal
giudizio: quella intenzione, certo desiderabile, certo non indifferente, non è
però necessaria per farci dare la preferenza a quel sistema. Basta che quella
tendenza ci sia. Ora, il sistema romantico, emancipando la letteratura dalle
tradizioni pagane, disobbligandola, per dir così, da una morale voluttuosa,
superba, feroce, circoscritta al tempo, e improvida
anche in questa sfera; antisociale, dov'è patriotica,
e egoista, anche quando non è ostile, tende certamente a render meno difficile
l'introdurre nella letteratura le idee, e i sentimenti, che dovrebbero
informare ogni discorso. E dall'altra parte, proponendo anche in termini
generalissimi il vero, l'utile, il bono, il ragionevole
concorre, se non altro, con le parole, allo scopo del cristianesimo; non lo
contraddice almeno nei termini. Per quanto una tale efficacia d'un sistema
letterario possa essere indiretta, oso pur tenermi sicuro, ch'Ella non la
giudicherà indifferente, Ella che, senza dubbio, avrà più volte osservato,
quanto influiscano sui sentimenti religiosi i diversi modi di trattare le
scienze morali, che tutte alla fine hanno un vincolo con la religione,
quantunque distinzioni e classificazioni arbitrarie possano separarle da essa
in apparenza, e in parole; Ella che avrà più volte osservato, come, senza
parere di toccare la religione, senza neppure nominarla, una scienza morale
prenda una direzione opposta ad essa, e arrivi a conclusioni che sono
inconciliabili logicamente con gl'insegnamenti di essa; e come poi, qualche
volta, avanzandosi e dirigendosi meglio nelle scoperte, rigetti quelle
conclusioni e venga così a conciliarsi con la religione e, di novo, senza neppur nominarla, e senza avvedersene. Non so s'io m'inganni,
ma mi pare, che più d'una scienza faccia ora questo corso felicemente
retrogrado. L'economia politica, per esempio, nel secolo scorso, aveva, in
molti punti, adottati quasi generalmente, de' canoni
opposti affatto al Vangelo; e li proponeva con una tale asseveranza,
con un tale impero, con tali minacce di compassione sprezzante per chi esitasse
nell'ammetterli, che molti deboli, ricevendo quei canoni, furono persuasi che
la scienza del Vangelo fosse corta e meschina; che i suoi precetti non avessero
potuto comprendere tutto il possibile svolgimento delle relazioni sociali; e
molti altri, credendo di adottare verità puramente filosofiche, adottavano, con
una docilità non ragionevole, delle dottrine opposte al Vangelo. Ed ecco, che,
per un progresso naturale delle scienze economiche, per un più attento e esteso
esame dei fatti, per un ragionato cambiamento di princìpi,
altri scrittori, in questo secolo, hanno scoperta la falsità, e il fanatismo di
quei canoni, e sul celibato, sul lusso, sulla prosperità fondata nella rovina
altrui, sopra altri punti ugualmente importanti, hanno stabilite dottrine
conformi ai precetti, e allo spirito del Vangelo; e, s'io non m'inganno, quanto
più quella scienza, diventa ponderata e filosofica, tanto più diventa
cristiana. E quanto più considero, tanto più mi pare, che il sistema romantico
tenda a produrre, e abbia cominciato a produrre nelle idee letterarie un
cambiamento dello stesso genere.
Se dovessi scrivere questi
pensieri per la stampa, mi troverei costretto a soggiungere qui subito molte
restrizioni, perché altri non credesse, o non volesse credere, ch'io intenda,
che il sistema romantico renderà spirituale tutta la letteratura, farà dei
poeti tanti missionari, ecc. Ma scrivendo a Lei, se diffido delle mie idee, ho
almeno la sodisfazione d'esser certo, che saranno
prese secondo la loro misura; e in tante lungaggini, posso almeno risparmiarle
quelle, che sarebbero destinate a prevenire le false interpretazioni, e
quell'affettato frantendere che molti trovano più comodo
e più furbo dell'intendere.
Dopo d'averle, a diritto e a
rovescio, e forse con più fiducia che discrezione, sottomesso il mio parere
sopra una materia toccata appena indirettamente nella gentilissima di Lei
lettera, non so, se mi rimanga ancora qualche diritto di parlare dei punto
ch'Ella ha accennato più espressamente, voglio dire il trionfo, o la caduta
probabile dei sistema romantico. Ma, giacché in più luoghi di questa cicalata,
mi sono preso la libertà di proferire, con molta confidenza, de' pronostici lieti per quel sistema, i quali a prima
vista, possono parere in opposizione col fatto, non posso a meno di non
sottometterle anche le ragioni di quei pronostici, quali mi par di vederle
nello stato reale delle cose, rimosse le prime apparenze.
Certo, se uno straniero, il
quale avesse sentito parlare dei dibattimenti, ch'ebbero luogo qui intorno al
romanticismo, venisse ora a domandare a che punto sia una tale questione, si
può scommettere mille contr'uno, che si sentirebbe
rispondere a un dipresso così: - Il romanticismo? Se
n'è parlato qualche tempo, ma ora non se ne parla più; la parola stessa è
dimenticata, se non che di tempo in tempo vi capiterà forse di sentire
pronunziar l'epiteto romantico per qualificare una proposizione strana, un
cervello bislacco, una causa spallata (sballata, ndr);
che so io? una pretesa esorbitante, un mobile mal connesso. Ma non vi
consiglierei di parlarne sul serio: sarebbe come se veniste a chiedere, se la
gente si diverte ancora col Kaleidoscopio. - Se
l'uomo, che avesse avuta questa risposta, fosse di quelli che sanno ricordarsi
all'opportunità, che una parola si adopera per molti significati, e insistesse
per sapere, che cosa intenda per romanticismo il suo interlocutore, vedrebbe,
che intende non so qual guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine
sistematico, una ricerca stravagante, una abiura in termini dei senso comune;
un romanticismo insomma, che si sarebbe avuta molta ragione di rifiutare, e di
dimenticare, se fosse stato proposto da alcuno.
Ma, se per romanticismo si
vuole intendere la somma delle idee, delle quali Le ho male esposta una parte,
questo, non che esser caduto, vive, prospera, si diffonde di giorno in giorno,
invade a poco a poco tutte le teorie dell'estetica; i suoi risultati sono più
frequentemente riprodotti, applicati, posti per fondamento dei diversi giudizi
in fatto di poesia. Nella pratica poi non si può non vedere una tendenza della
poesia stessa a raggiunger lo scopo indicato dal romanticismo, a cogliere e a
ritrarre quel genere di bello, di cui le teorie romantiche hanno dato un'idea
astratta, fugace, ma che basta già a disgustare dell'idea che le è opposta. Un
altro giudizio manifesto della vita, e del vigore di quel sistema sono gli
applausi dati universalmente a de' lavori, che ne
sono l'applicazione felice. Ne citerò un esempio, per il piacere, che provo nel
rammentare la giustizia resa al lavoro d'un uomo, a cui mi lega un'amicizia
fraterna. Quando comparve l'Ildegonda, bollivano le questioni sul romanticismo,
e non sarebbe stata gran maraviglia, se l'avversione di molti alla teoria
avesse prevenuto il loro giudizio contro un componimento, che l'autore non
dissimulava d'aver concepito secondo quella. Eppure la cosa andò ben
altrimenti; le opinioni divise sulla teoria furono conformi (moralmente
parlando) in una specie d'amore pel componimento. E ora, passato già più tempo
di quello che sia generalmente concesso alle riuscite effimere, quel favore, mi
pare di poter dire, quell'entusiasmo, è divenuto una stima, che sembra dover
esser perpetua. In tutta la guerra del romanticismo, non è dunque perita che la
parola. Non è da desiderarsi che venga in mente ad alcuno, di risuscitarla:
sarebbe un rinnovare la guerra, e forse un far danno all'idea che, senza nome,
vive e cresce con bastante tranquillità.
Eccomi una volta al termine. Il rimorso continuo di tanta prolissità mi ha forzato tante volte a chiederlene scusa, che le scuse stesse sono divenute allungamenti; e non oso più ripeterle. Si degni Ella di gradire invece l'espressione del sincero ossequio, e della viva gratitudine, che Le professo, e d'accogliere il desiderio che nutro, di poter, quando che sia, esprimerle a voce quei sentimenti, coi quali ho l'onore di rassegnarmele.
Brusuglio, 22 settembre 1823
Devotissimo e obbligatissimo servitore
ALESSANDRO MANZONI
P.S. Per non ritardare davvantaggio la risposta alla gentilissima di Lei lettera, lascio partir questa, quale è, sparsa di sgorbi, e di cancellature. Ella me ne scuserà, ricordandosi che non si può mostrare altrui benevolenza, com'Ella ha fatto con me, senza ispirargli un poco di famigliarità.
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