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A SILVIA
A Pisa, una città che gli fu cara proprio perché gli ricordava Recanati, nella primavera del 1828, il Leopardi riprese a comporre versi "veramente all'antica e con quel suo cuore di una volta" (scriveva alla sorella Paolina) dopo sei anni di silenzio poetico pressoché totale.
Erano stati gli anni delle Operette Morali, della consapevolezza dell'arido vero e della vanità di ogni speranza.
La poesia che ora risorge è quella dei ricordi, del ricordo, delle illusioni della giovinezza perduta, della sua attesa, della sua speranza. Si direbbe che soltanto ora che il suo pensiero ha definitivamente la vanità totale di esse, il poeta ne avverte il fascino più intenso, scopra in esse l'unica ricchezza del cuore. Nasce così dal 1828 al 1830, una nuova fase della poesia leopardiana, caratterizzata dal ripiegamento interiore che comprende i cosiddetti grandi idilli: A Silvia, Le Ricordanze, La Quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, tutti ispirati dall'ambiente recanatese. A parte va invece considerato quello conclusivo dell'esperienza idillica, Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia.
In questo idillio, nella figura di Silvia, il poeta ritrova il dono più bello dell'adolescenza: l'attesa trepida e suggestiva dell'amore. Quel canto di fanciulla che si effonde nel maggio odoroso appare come un'arcana promessa di felicità, accompagna le meditazioni senza parole al balcone, lo struggersi dell'animo dinanzi alla soavità della primavera. E' una musica dolce e fuggitiva, come quel fiorire dell'anno e della vita, come quella fanciulla già condannata a morte precoce, come la speranza del poeta destinata anch'essa a crollare all'apparir del vero, di una realtà cioè, che non può essere se non di dolore.
Un amore sognato, dunque, più che vissuto, non realtà, ma attesa: questa, la sostanza del canto. Identificare Silvia, darle il nome di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta ancora giovane, interessa poco. Ce lo conferma un'annotazione anteriore di anni, del poeta: "Storia di Teresa Fattorini, da me poco conosciuta, e interesse ch'io ne prendeva, come di tutti i morti giovani, in quel mio aspettare la morte per me". Cosicché non ci stupiamo quando Silvia, ad un certo punto scompare dal canto e subentra, al suo posto, la personificazione della Speranza e a lei il poeta parla con lo stesso accento con cui aveva parlato di Silvia. In questa immagine femminile, il Leopardi ha, infatti, cantato il mito della giovinezza, mito in quanto il Leopardi la giovinezza non l'ha vissuta, o meglio l'ha vissuta immaginandola
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