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Difesa di milone part. ii




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DIFESA di MILONE part. II




Capitolo XIV



Resta un argomento: a difendere Clodio intervengono la sua natura e il suo modo di vivere, e questi stessi elementi accusano invece Milone! «Clodio non ha mai fatto nulla con la violenza, Milone, al contrario, se ne è sempre servito per tutto!». Cosa? Quando nel cordoglio generale, giudici, mi sono allontanato dalla città ho avuto forse paura di un processo? o di schiavi, di armi, di reazioni violente? Quale giusto motivo per farmi tornare si sarebbe trovato, se quello della mia espulsione non fosse stato ingiusto? Lui, credo, mi aveva fissato il giorno, mi aveva inflitto una multa, aveva intentato un processo di alto tradimento e io avrei dovuto temere il processo in una causa così malvagia o fatta apposta per me, e non illustre e diretta a tutti voi! Non volli che al posto mio i miei concittadini, salvati con pericolo dai miei consigli, fossero esposti alle armi di schiavi, di miserabili, di scellerati.

Io ho visto, ho visto davanti a me Quinto Ortensio qui presente, faro e onore dello stato, che a momenti veniva trucidato da una schiera di servi, perché prendeva le mie parti; in quella confusione il senatore Caio Vibieno, ottimo uomo, dato che si trovava con lui fu conciato talmente male che morì. Quando dunque, dopo di allora si riposò quel suo pugnale, che aveva ereditato da Catilina? Contro di me fu puntato, - ma non ho permesso che veniste coinvolti voi al posto mio -, fu rivolto contro Pompeo, macchiò di sangue con la strage di Papirio questa famosa via Appia, ricordo del nome di Clodio, infine, dopo un lungo intervallo di tempo, fu di nuovo puntato contro la mia persona; recentemente quasi mi uccise, come sapete, nei pressi della reggia.

Si può dire lo stesso di Milone? Lui ha speso sempre ogni energia per impedire a Publio Clodio di tenere questa città schiacciata con la violenza, visto che non lo si poteva trarre in giudizio. Ma se avesse voluto ucciderlo, quali e quante splendide occasioni ci sarebbero state! Forse non avrebbe potuto a buon diritto vendicarsi, nel tentativo di difendere la sua casa e gli dèi penati, quella volta in cui Clodio fece irruzione in casa sua? Non avrebbe potuto farlo quando fu ferito un cittadino illustre e uomo fortissimo, il suo collega Publio Sestio? E la volta in cui Quinto Fabrizio, persona irreprensibile, fu cacciato durante una ferocissima rissa nel foro, poiché proponeva una legge circa il mio ritorno? E quando fu assalita la casa di Lucio Cecilio, valorosissimo e integerrimo pretore? Non avrebbe potuto farlo nel giorno in cui fu presentata la legge relativa al mio rientro, quando la gente, accorsa da ogni parte d'Italia, spinta dalla volontà di salvarmi, avrebbe appreso con gioia la notizia di tale azione, al punto che tutta la cittadinanza, se anche l'avesse fatto Milone, avrebbe rivendicato come sua quella gloria?



Capitolo XV




Ma quali erano le circostanze? Vi era un console, [Publio Lentulo], molto forte e famoso, nemico di Clodio, vendicatore di quella scellerata proposta di legge, sostenitore del senato, difensore della vostra volontà, protettore della concordia pubblica, mio salvatore; c'erano i sette pretori e gli otto tribuni della plebe, avversari politici di Clodio, schierati a mia difesa; c'era Gneo Pompeo, artefice e promotore del mio rientro, a lui ostile; le sue parole in favore della mia salvezza, assai ponderate ed eleganti, tutto il senato le approvò: proprio Pompeo, che si rivolse al popolo romano, che, quando a Capua emanò il provvedimento sul mio ritorno, a tutta l'Italia che desiderava e implorava la sua fiducia, diede in prima persona il segnale di accorrere in folla a Roma a votare perché fossi ripristinato nei miei diritti. Nei confronti di Clodio, infatti, ardeva l'odio di tutti i cittadini per il rimpianto che avevano di me, al punto che se qualcuno allora lo avesse ucciso, non si sarebbe discusso della sua impunità, ma del premio da dargli.

Milone, in quella occasione, si trattenne e citò Publio Clodio in giudizio due volte, senza provocarlo mai al combattimento. E allora? Quando Milone ritornò a essere un privato cittadino e Publio Clodio gli scagliò contro accuse davanti al popolo, quando fu assalito Gneo Pompeo che parlava in difesa dell'amico, allora sarebbe stata non solo una splendida occasione, ma anche un ragionevole motivo per eliminarlo! Qualche tempo fa, poi, quando Marco Antonio rappresentò la più grande speranza di salvezza per tutte le persone oneste, e, giovane dai nobilissimi natali, si assunse con tanta risolutezza una gravissima responsabilità nei confronti dello stato, e già teneva nelle reti quella belva, che tentava di sfuggire ai lacci di un'azione giudiziaria, quale opportunità, dèi immortali, quale occasione favorevole fu quella! Quando Clodio, fuggendo, riuscì a nascondersi nel buio di un sottoscala, sarebbe stato molto facile per Milone uccidere quel flagello di uomo senza attirare su di sé alcuna inimicizia, ma anzi attirando grande gloria su Marco Antonio!

Ma come? Quante volte Milone avrebbe potuto ucciderlo durante i comizi in campo Marzio, quando lui aveva fatto irruzione nei recinti e aveva creato l'occasione per sguainare le spade e scagliar sassi; ma, all'improvviso, terrorizzato dallo sguardo di Milone, si era dato alla fuga verso il Tevere, mentre voi e tutta la gente onesta facevate voti perché a Milone piacesse servirsi del suo coraggio.



Capitolo XVI




Quell'uomo che non volle uccidere con l'approvazione di tutti, è logico, forse, che l'abbia voluto con la disapprovazione di alcuni? Lui, che non osò farlo a buon diritto, in luogo favorevole, in una circostanza idonea e godendo dell'impunità, non avrebbe esitato a uccidere a torto, in luogo sfavorevole, in tempo inopportuno, col rischio della propria vita?

Oltretutto, giudici, quando si avvicinava il momento della lotta per la più alta carica ed erano imminenti i giorni dei comizi, nel tempo in cui - so infatti quanto inquieta sia la brama di popolarità e quanto grande e ansiosa sia la voglia di diventar console -, abbiamo paura di tutto, non solo di poter essere criticati apertamente, ma anche di ciò che può essere pensato in segreto, ci spaventiamo per vaghe chiacchiere sciocche, per false storielle, scrutiamo le espressioni e gli sguardi di tutti. Non esiste, infatti, niente di così instabile e aleatorio, di fragile e incostante come la disposizione d'animo e il sentimento dei cittadini nei nostri confronti - cittadini che non solo tuonano contro il degrado morale dei candidati, ma trovano spesso anche da ridire su comportamenti onesti.

Quindi Milone, che teneva fisso davanti agli occhi il giorno dei comizi, desiderato e rincorso, poteva presentarsi con le mani sporche di sangue ai sacri auspici delle centurie, ostentando e per nulla celando un'azione delittuosa? Quanto non è credibile in lui questo comportamento, quanto, invece, lo stesso fatto non deve creare alcun dubbio nel caso di Clodio, che pensava, una volta ucciso Milone, di spadroneggiare come un re. E che? O giudici, nel compiere atti temerari è di capitale importanza - chi non lo sa? - la speranza di rimanere impuniti. Chi dei due poté nutrire, quindi, questa speranza? Milone, che è chiamato a rispondere anche ora di un'azione giusta, gloriosa, di certo inevitabile? O Clodio, che aveva disprezzato processi e punizioni al punto da amare solo ciò che non è consentito dalla natura o non è lecito per le leggi?

Ma perché devo addurre delle prove, perché devo discutere ancora? Mi rivolgo a te, Quinto Petilio, validissimo e ottimo cittadino, e a te, Marco Catone, chiedo testimonianza, a voi che la sorte veramente divina concesse a me in qualità di giudici. Avete ascoltato da Marco Favonio le parole di Clodio e avete sentito, quando Clodio era vivo, che Milone sarebbe morto da lì a tre giorni; il fatto avvenne tre giorni dopo che egli aveva parlato. Poiché egli non esitò a svelare il suo piano, potete avere dei dubbi sulla sua azione?



Capitolo XVII




Come mai, dunque, non sbagliò il giorno? L'ho già spiegato poco fa. Non era affatto difficile conoscere i giorni stabiliti per i sacrifici del dittatore di Lanuvio. Si rese conto che Milone doveva partire per Lanuvio proprio in quella data in cui se ne andò, e così lo precedette. E che giorno era? Proprio quello, come ho detto prima, in cui si svolse un'assemblea popolare tra le più turbolente, agitata da un tribuno della plebe, pagato da Clodio; e quel giorno Clodio, se non avesse avuto fretta di portare a termine il suo piano, calcolato nei particolari, non avrebbe mai lasciato quella riunione e quei clamori. Egli non ebbe un motivo per andare, ebbe, anzi, un motivo per rimanere; Milone, invece, non ebbe alcuna possibilità di restare: non solo aveva un motivo, addirittura era obbligato a lasciare la città. E che direste se io vi convincessi che, come Clodio sapeva che quel giorno Milone sarebbe passato per quella via, così Milone non poteva proprio sospettarlo?

In primo luogo vi domando come potesse esserne al corrente - obiezione che non potete muovere a Clodio. Anche se non l'avesse chiesto ad altri tranne che al suo grande amico Tito Patina, avrebbe potuto sapere che in quel preciso giorno a Lanuvio il dittatore Milone doveva necessariamente eleggere il flàmine. Ma c'erano molti altri da cui informarsi con estrema facilità, a cominciare da tutti gli abitanti di Lanuvio. A chi Milone avrebbe potuto chiedere notizie a proposito del ritorno di Clodio? Poniamo che abbia pure interpellato qualcuno - vedete quanto vi concedo -, o che abbia persino corrotto un servo, come ha detto il mio amico Quinto Arrio. Leggete le deposizioni dei vostri testimoni. Caio Causinio Scola di Interamna, vicinissimo a Clodio e suo compagno d'avventure - secondo la cui testimonianza tempo fa Clodio si trovava alla stessa ora sia a Interamna che a Roma -, ha dichiarato che in quel famoso giorno Publio Clodio aveva tutte le intenzioni di fermarsi nella sua villa albana; ma all'improvviso gli venne annunciata la morte dell'architetto Ciro, e così decise di tornare subito a Roma. La stessa versione dei fatti ci è stata fornita da Caio Clodio, un altro compagno di Publio Clodio.



Capitolo XVIII




Vedete, giudici, quanto siano importanti le precisazioni di questi testimoni. In primo luogo, scagionano certamente Milone dall'accusa di essere partito con la chiara intenzione di far cadere Clodio in un'imboscata lungo la strada: incontrarlo non era affatto prevedibile. Inoltre, - non vedo infatti perché non debba trattare anche la mia causa - voi sapete, giudici, che c'è stato chi, parlando in favore di questa procedura legale, ha detto che la strage è stata compiuta per mano di Milone, ma su istigazione di qualcuno più importante. Evidentemente questi uomini spregevoli e corrotti alludevano a me come brigante e assassino. Eccoli inchiodati dalle loro testimonianze, le quali negano che Clodio avrebbe fatto ritorno a Roma quel giorno, se non avesse appreso la notizia di Ciro. Ho tirato un sospiro di sollievo, libero dal sospetto; non temo più che mi si accusi di aver ideato quello che neppure potevo sospettare.

Proseguirò ora con i rimanenti argomenti, poiché mi si può fare la seguente obiezione: «Quindi neanche Clodio meditò sul suo piano insidioso, perché intendeva rimanere nella villa di Alba!». D'accordo, se la sua intenzione non fosse stata quella di uscire dalla villa per compiere la carneficina! Credo infatti che il messo, il quale si dice gli abbia annunziato la morte di Ciro, non gli abbia riferito ciò, ma che Milone si stava avvicinando. In effetti, cosa avrebbe dovuto annunziare a proposito di Ciro, che Clodio, partendo da Roma, aveva lasciato più morto che vivo? Fui insieme con lui, sigillai il testamento di Ciro insieme con Clodio, perché aveva fatto pubblicamente testamento e aveva designato come eredi lui e me. Il giorno prima, alle nove, Clodio lo aveva lasciato che era lì lì per andarsene: il giorno dopo, alle quattro del pomeriggio, gli si annunciava che era morto?



Capitolo XIX




D'accordo, ammettiamo pure che le cose siano andate così: per quale motivo, però, si affrettò a tornare a Roma, perché si avventurò per la strada in piena notte? Quale causa poteva addurre per la sua fretta? Il fatto che fosse un erede? Innanzitutto, non c'era motivo che rendesse necessaria tanta fretta; inoltre, se ce ne fosse stato uno, cosa vi era, insomma, che egli potesse guadagnare in quella notte e che potesse perdere, se fosse giunto a Roma la mattina del giorno dopo? E come Clodio, invece di tentare quel viaggio, avrebbe dovuto evitare di arrivare di notte in città, così Milone, ammesso che volesse tendere un agguato, se sapeva che Clodio stava per arrivare in città di notte, avrebbe dovuto appostarsi e aspettare. Lo avrebbe ucciso di notte. Chiunque gli avrebbe creduto, se avesse negato. Lo avrebbe ucciso in un luogo pericoloso e pieno di briganti.

Chiunque gli avrebbe creduto, se avesse negato: tutti lo vogliono salvo, persino adesso che confessa. Sarebbe stato incolpato del delitto anzitutto quel luogo, riparo di sbandati: quindi né la muta solitudine né la notte scura avrebbero tradito Milone. In séguito, si sarebbero concentrati i sospetti su molti che erano stati da Clodio offesi, derubati, privati dei loro beni, su molti che anche solo lo temevano, infine si sarebbero citati in giudizio tutti gli abitanti dell'Etruria.

E quel giorno Clodio, di ritorno da Aricia, si fermò certamente nella sua villa di Alba. Ebbene: se davvero Milone sapeva che quello era stato ad Aricia, doveva tuttavia immaginare che Clodio, pur volendo tornare a Roma quel giorno, si sarebbe concesso una sosta nella sua abitazione, che si trovava sulla strada. Perché non gli andò incontro prima, per impedirgli di fermarsi nella villa, e perché non si appostò nel luogo dove sarebbe giunto a notte fonda?

Fin qui vedo che è tutto chiaro, giudici; Milone aveva ogni interesse che Clodio fosse vivo, l'altro non desiderava altro che la morte di Milone per realizzare i progetti a cui aspirava ardentemente; lo odiava, quindi, con tutte le sue forze, mentre in Milone non c'era odio per lui; Clodio aveva la costante abitudine di agire con violenza, Milone, invece, soltanto di respingerla; a Milone la morte era stata da lui annunciata e apertamente resa nota, nulla di simile fu mai udito per bocca di Milone; Clodio, inoltre, conosceva il giorno di quella partenza, mentre Milone non era al corrente del suo ritorno; per lui il viaggio era necessario, ma per Clodio era piuttosto fuori luogo; Milone aveva annunciato a tutti che quel giorno avrebbe lasciato Roma, Clodio aveva nascosto che quel giorno sarebbe tornato; uno non mutò la decisione presa in nessun particolare, l'altro inventò un pretesto per motivare il suo cambiamento di programma; infine, se Milone avesse voluto tendere un agguato, avrebbe dovuto aspettare la notte nei pressi della città; Clodio, se anche non avesse temuto Milone, avrebbe dovuto tuttavia provare un po' di paura ad avvicinarsi in piena notte alla città!


Capitolo XX




Vediamo ora un punto di capitale importanza: a quale dei due sia stato più favorevole il luogo dell'agguato, quello dove vennero alle mani. Ma davvero vi sembra, giudici, che su questo si debba dubitare e discutere? Davanti alla proprietà di Clodio, nella proprietà dove, grazie a sotterranei costruiti con il criterio di un pazzo, potevano comodamente stare mille uomini pronti a tutto, vale a dire in un luogo alto ed elevato appartenente all'avversario, Milone poteva pensare di riuscire vincitore e scegliere perciò quel luogo come il più adatto per combattere? O non fu invece atteso proprio lì da Clodio, che aveva architettato di tendere un agguato confidando proprio in quel luogo? I fatti parlano da soli e nulla conta di più.

Se voi queste azioni non le sentiste narrare, ma le vedeste dipinte, apparirebbe chiaro chi dei due tese l'imboscata, chi, invece, non ebbe alcuna cattiva intenzione: perché uno viaggiava sul carro, avvolto nel mantello, e con lui sedeva la moglie: quale di queste condizioni non è tale da creare ostacoli, l'abbigliamento, il mezzo di trasporto o la compagnia? Quale delle tre è meno consona a una battaglia, il fatto che fosse impedito nei movimenti dalla veste, svantaggiato dal veicolo o che fosse trattenuto dalla moglie? Vedete ora l'altro che esce dalla villa, all'improvviso - perché? - di sera - è così necessario? - con lentezza - gli conviene, soprattutto considerando l'ora? Si dirige verso la villa di Pompeo. Per incontrare Pompeo? Sapeva che era nel suo podere di Alsio. Per visitare la villa? - Ma se c'era già stato migliaia di volte! E allora, qual era il motivo? Perder tempo e tergiversare: fino al passaggio di Milone non ha voluto abbandonare il luogo.



Capitolo XXI




Avanti, fate ora un confronto tra il viaggio di quel bandito, libero di agire, e gli impedimenti di Milone. In precedenza Clodio era sempre accompagnato dalla moglie, allora era senza di lei; non si spostava se non in carrozza, ma quel giorno era a cavallo; quanto ai giovinetti greci che lo seguivano, ovunque andasse, persino quando si recava di fretta nei suoi possedimenti etruschi - niente di frivolo, quel giorno, nella sua scorta. Milone, che non aveva mai séguito, quella volta per puro caso recava con sé alcuni giovani musici schiavi della moglie e un gruppo di ancelle. L'altro, che invece conduceva sempre con sé sgualdrine, prostitute e ragazzetti, allora non aveva nessuno, se non uomini che avresti detto scelti a uno a uno. Perché dunque fu vinto? Perché non sempre chi viaggia viene ucciso dal brigante che lo assale, talvolta è il brigante a cadere per mano del viaggiatore; e poi perché Clodio, per quanto pronto ad assalire chi proprio non se l'aspettava, era come una femminuccia che si fosse imbattuta in uomini pieni di coraggio.

D'altronde Milone era preparato quasi a sufficienza a incontrarlo anche quando era impreparato. Sapeva bene quanto Publio Clodio ci tenesse a vederlo morto e quanto lo odiasse e di che cosa fosse capace. Per questo non esponeva mai al pericolo, senza una scorta o una guardia del corpo, la sua vita, che sapeva messa all'incanto con premi vantaggiosissimi e quasi aggiudicata. Si aggiunga il capriccio del destino, si aggiungano la sorte incerta delle battaglie e l'imparzialità di Marte, che spesso fa abbattere e colpire da chi era già caduto chi sta già spogliando il vinto ed esulta per la gioia; si aggiunga la mancanza di buon senso di un comandante che, insonnolito dal cibo e dal vino, dopo aver lasciato il nemico tagliato fuori alle spalle, non si preoccupò minimamente dei suoi compagni che chiudevano la fila: quando poi si imbatté in questi uomini che, accecati dalla rabbia, disperavano per la vita del loro padrone, incappò in quelle pene che servi fedeli gli fecero pagare in cambio della vita del loro signore.

Allora perché poi lì affrancò? Temeva di essere denunciato, è evidente, temeva che non potessero sopportare il dolore fisico, che fossero costretti dagli strumenti di tortura a confessare di avere ucciso loro, servi di Milone, Publio Clodio lungo la via Appia. Che bisogno c'è di un carnefice? Cosa vuoi sapere? Se Milone ha ucciso? Sì, l'ha fatto; a torto o a ragione? Non sono affari che riguardino il boia; l'indagine sull'accaduto va svolta sul tavolaccio delle torture, quella sul diritto spetta ai giudici.



Capitolo XXII




Quanto, dunque, si deve ricercare in una causa, lo si cerchi qui; quanto si vuole trovare servendosi della tortura, lo dichiariamo noi. Se uno mi domanda perché Milone ha reso liberi i suoi servi anziché colmarli di doni più generosi, non sa criticare il gesto del suo nemico.

Lo stesso Marco Catone qui presente, che ha sempre parlato in modo coerente e coraggioso, ha già espresso il suo parere, e ha asserito, durante una turbolenta assemblea popolare, resa tuttavia tranquilla dal suo autorevole intervento, che erano assolutamente degni non solo della libertà, ma anche di regali di ogni genere, gli schiavi che avessero difeso la vita del loro padrone. Quale ricompensa, infatti, è abbastanza generosa per servi così devoti, così virtuosi, così fedeli, ai quali deve la sua vita? Del resto, essere scampato alla morte non è così rilevante come, grazie a loro, il non aver saziato con il suo sangue e con le sue ferite l'animo e gli occhi di un nemico estremamente crudele. Se Milone non li avesse affrancati, si sarebbero dovuti sottoporre alle torture quelli che avevano salvato il loro padrone e, vendicando un atto delittuoso, tenuta lontana da lui la morte. Ma costui, nelle sue disgrazie, almeno una cosa non sopporta a malincuore: il pensiero che, indipendentemente da quello che gli accadrà, ha pagato il premio che loro si sono meritati.

Eppure, gli interrogatori che si stanno svolgendo adesso nel palazzo della Libertà, aggravano la posizione di Milone. Di quali schiavi si tratta? E me lo chiedi? Di quelli di Publio Clodio. Chi ha richiesto il loro interrogatorio? Appio. Chi li ha accompagnati a testimoniare? Appio. E da dove venivano? Dalla casa di Appio. Bontà degli dèi! Quale procedura più rigorosa si potrebbe seguire? [Non è per nulla legale far domande ai servi a proposito del loro padrone: a meno che non si tratti di un atto sacrilego come quello di Clodio.] Ecco Clodio a un passo dagli dèi, a loro più vicino di quanto lo fosse allora, quando penetrò sino a loro: si indaga sulla sua morte come se si fossero violate cerimonie sacre. Tuttavia i nostri predecessori non vollero che si indagasse sul padrone, non perché non si potesse giungere alla verità, ma perché sembrava una cosa ignobile e più triste della morte stessa del padrone: quando contro l'accusato si interroga un servo dell'accusatore, si può giungere alla verità?

Su, avanti, di che tenore poteva essere l'interrogatorio? Facciamo un esempio: «Ehi tu, Rufione! Stai attento a non mentire. È stato Clodio a tendere un'imboscata a Milone?» - «Sì»: gli tocca certamente la forca. - «No»: ed è sua la sospirata libertà. Che cosa esiste di più serio di questo interrogatorio? Loro, quelli tratti a testimoniare, in quattro e quattr'otto sono separati dai compagni, gettati in cella perché nessuno possa parlare con loro. Dopo essere stati per cento giorni a disposizione dell'accusatore, da quello stesso vengono presentati come suoi testimoni in tribunale. C'è un interrogatorio più imparziale e più onesto?



Capitolo XXIII




Se non vedete ancora ben chiaro, con mente limpida e imparziale, e nonostante tante prove e indizi illuminanti, che Milone, senza essere macchiato da alcun delitto, senza provare alcuna paura, per nulla tormentato dal rimorso, se ne tornò a Roma, non dimenticate, in nome degli dèi immortali, con quanta fretta rientrò, quale fu il suo ingresso nel foro mentre la curia andava a fuoco, quali la grandezza del suo animo, l'espressione del volto e le parole. E si consegnò non solo al popolo, ma anche al senato, non solo al senato, ma anche alle scorte armate che presiedono all'ordine pubblico, e poi non solo a queste, ma anche al potere di colui al quale il senato aveva affidato tutta la repubblica, tutta la gioventù italica, tutto il potere militare romano. Certamente Milone, se non avesse confidato nella sua causa, non si sarebbe mai consegnato a Pompeo, tanto più che Pompeo ascoltava ogni chiacchiera, era pieno di timori, era molto sospettoso, e talvolta gli piaceva credere a quel che gli si raccontava. Grande è la forza della coscienza, giudici, grande per il colpevole e per l'innocente, così chi non ha commesso nulla non ha da temer nulla, e chi si è reso colpevole crede che gli si presenti sempre davanti agli occhi la punizione.

Il senato, inoltre, appoggiò sempre la causa di Milone e non senza una valida ragione. Erano, infatti, uomini molto saggi e coglievano il motivo della sua azione, la prontezza d'animo e la determinatezza nel difendersi. Non avrete dimenticato, giudici, i discorsi e le opinioni non solo degli avversari politici di Milone, ma anche di alcuni male informati, non appena fu annunciata la morte di Clodio? Dicevano che non si sarebbe più fatto vedere a Roma.

Se, infatti, per l'ira e la disperazione avesse agito così, se accecato dall'odio avesse massacrato il nemico, avrebbe dato alla morte di Publio Clodio - essi pensavano - così importanza da privarsi, dopo aver saziato il suo odio col sangue nemico, serenamente della patria; se avesse voluto con quella morte liberare la patria, dopo aver salvato a suo rischio il popolo romano, non avrebbe esitato a rimettersi alla legge con animo sereno, a portar via con sé una fama eterna, a lasciare a noi la possibilità di godere dei beni da lui messi al sicuro. Molti parlavano anche di Catilina e delle sue atrocità: «Piomberà qua all'improvviso, si impadronirà di qualche punto strategico, dichiarerà guerra alla patria». Come sono sfortunati, a volte, i cittadini che hanno ben meritato dello stato: gli uomini non solo dimenticano le loro azioni più nobili, ma anche nutrono nei loro confronti sospetti infamanti!

Sospetti che, per altro, si rivelarono infondati; ma che sarebbero, invece, stati veri, se Milone avesse fatto qualcosa che non poteva difendere con onestà e sincerità.



Capitolo XXVI




E poi? Con quanto ardore, dèi immortali, tenne fronte a quelle accuse che gli fecero ricadere addosso, accuse che avrebbero schiacciato anche chi avesse avuto sulla coscienza colpe da nulla. Le respinse? No, anzi, le disdegnò e non diede alcuna importanza a quelle accuse che né un delinquente incallito né un innocente, se non fosse stato un uomo forte e coraggioso, avrebbero potuto ignorare. Si denunciava l'esistenza di una gran quantità di scudi, di spade, di giavellotti, persino di catene, che gli si sarebbero potuti sequestrare; correva voce che non ci fosse un solo quartiere o vicolo in tutta la città in cui non fosse stata affittata una casa per Milone; si sosteneva che armi fossero state trasportate lungo il Tevere sino alla villa di Ocricoli, che la sua casa alle pendici del Capitolino fosse stipata di scudi e traboccante di ogni sorta di proiettili incendiari fabbricati apposta per dar fuoco alla città. Cose del genere non solo furono riferite, ma quasi credute, e non furono respinte prima di aver indagato.

Io lodavo il comportamento estremamente scrupoloso di Gneo Pompeo, ma ora parlerò in tutta franchezza, giudici. Troppe voci sono costretti ad ascoltare, e non possono fare diversamente, quelli a cui si è affidata tutta la repubblica. Egli dovette persino ascoltare la deposizione di un popa, un non so quale Licinio della zona del Circo Massimo, secondo cui nella sua taverna alcuni servi di Milone, completamente ubriachi, avevano confessato di avere ordito una congiura per uccidere Gneo Pompeo; in séguito, uno di loro lo avrebbe accoltellato perché non andasse a denunciarli. Pompeo viene informato della cosa nei suoi giardini; tra i primi sono convocato io: su consiglio degli amici riferisce la faccenda al senato. Di fronte a un sospetto così grave, da parte dell'uomo che vegliava sulla sicurezza mia e della patria, non potevo non essere paralizzato dalla paura; nondimeno ero meravigliato che si prestasse fede a un popa, si ascoltasse la confessione di servi, si considerasse una ferita nel fianco, che sembrava una puntura d'ago, come fosse il colpo di un gladiatore.

In realtà, credo, Pompeo più che avere timore, prendeva delle precauzioni non solo nei confronti di ciò che si doveva temere, ma nei confronti di tutto, per evitare che a dover temere qualcosa foste voi. Si sparse la notizia che per molte ore della notte si era presa d'assalto la casa di Caio Cesare, uomo famoso e di grandissimo coraggio. Nessuno aveva sentito, pur trattandosi di un luogo tanto frequentato, nessuno se ne era accorto; tuttavia, vi si prestava ascolto. Io non potevo immaginare che Gneo Pompeo, uomo di così grande coraggio, fosse pavido; non consideravo per nulla esagerati i suoi scrupoli, anche perché le sorti dell'intera repubblica dipendevano da lui. Poco tempo fa, in una seduta del senato assai affollata, tenutasi sul Campidoglio, fu trovato un senatore il quale sosteneva che Milone aveva un pugnale; si spogliò nel bel mezzo del tempio sacro, e, dato che la condotta di vita di un tale cittadino e di un tale uomo non era una sufficiente garanzia, tacque e furono i fatti a parlare.



Capitolo XXV




Tutte le dicerie si rivelarono false e perfidamente inventate. Se, tuttavia, oggi si teme Milone, non è perché è accusato di avere ucciso Clodio: per i tuoi sospetti proviamo orrore, Gneo Pompeo, - parlo con te, e ad alta voce, perché tu possa udirmi distintamente sì, per i tuoi sospetti. Se hai paura di Milone, se credi che lui ora mediti qualche azione funesta per la tua vita o che abbia un tempo tramato qualche gesto inconsulto, se hai armato contro l'attacco di Milone le leve arruolate in tutta Italia, come andavano dicendo alcuni tuoi incaricati, questi uomini, le coorti di stanza al Campidoglio, le sentinelle notturne e diurne e uno scelto gruppo di giovani, che sorveglia la tua casa e te stesso, se hai allestito, disposto e diretto contro lui solo tutto ciò, allora certamente si attribuiscono a costui una grande energia, un incredibile coraggio, forze e mezzi non di un solo uomo; non può essere che così se si è scelto il miglior comandante e si sono fornite armi all'intero stato contro di lui solo.

Ma, chi non capisce che tutte le parti della repubblica indebolite e traballanti ti sono state affidate, perché le risanassi e le consolidassi anche con queste armi? Se, però, tu avessi dato a Milone la possibilità, ti avrebbe sicuramente dimostrato che mai nessun uomo fu più caro a un altro uomo di quanto tu lo sei a lui; che non fuggì mai alcun rischio pur di guadagnarsi la tua stima; che per difendere la tua gloria più e più volte lottò contro quella terribile piaga; che il suo tribunato fu guidato dai tuoi consigli per la mia salvezza, che ti era carissima; che successivamente fu da te difeso quando in gioco c'era la sua vita, e aiutato durante la campagna elettorale per la pretura; che aveva sperato di poter contare per sempre su due solide amicizie, la tua per i benefici tuoi, la mia per i suoi. Se, comunque, non fosse riuscito a convincerti, se questo sospetto si fosse così profondamente radicato in te, da non poterlo in alcun modo smuovere, se infine l'Italia non avesse mai trovato pace dagli arruolamenti e la città dalle armi senza la rovina di Milone, allora sì che Milone non avrebbe esitato a lasciare la sua patria, lui che così è nato e così fu solito vivere; ma prima avrebbe chiamato te, Magno, come testimone, cosa che fa anche ora.



Capitolo XXVI




Vedi quanto sia varia e mutevole l'essenza stessa della vita, quanto capricciosa e instabile la sorte, quanto grandi le infedeltà nelle amicizie, quante le ipocrisie dovute alle circostanze, quante le fughe delle persone più intime nel pericolo, quanti i gesti vigliacchi. Ma verrà, verrà certo il tempo e spunterà prima o poi il giorno in cui tu, ti auguro senza danno per le tue cose, forse per un certo mutamento della situazione generale, - e con quanta frequenza ciò accada dovremmo per esperienza saperlo -, sentirai la mancanza della devozione di un vero amico, della fedeltà di una persona molto seria, e della grandezza d'animo dell'uomo più coraggioso che si conosca.

Del resto, chi potrebbe credere che Gneo Pompeo, fine conoscitore del diritto pubblico, delle tradizioni degli antichi e degli affari di stato, ricevuto dal senato il compito di fare in modo che la repubblica non andasse in rovina -, e sulla base di questa formula concisa, i consoli furono sempre sufficientemente armati, senza dar loro altre armi -, ricevuto un esercito e il potere di fare arruolamenti, sarebbe ricorso a un processo per punire i disegni di chi con la sua violenza impediva i processi stessi? Pompeo si è poi pronunciato in modo sufficientemente chiaro sulla falsità delle accuse contro Milone; ha avanzato una proposta di legge con cui, da quanto capisco, vi obbliga ad assolvere Milone, e voi - sono tutti concordi nell'ammetterlo - lo potete fare.

Il fatto che Pompeo se ne stia seduto là, circondato da un pubblico presidio, dimostra ampiamente che non vuole spaventarvi, - non sarebbe indegno di lui costringervi a condannare voi Milone, che egli stesso potrebbe punire secondo la tradizione dei nostri antenati e in virtù dei suoi poteri? -, ma vuole difendervi e aiutarvi a capire che siete liberi di esprimere le vostre opinioni, opponendovi all'assemblea popolare di ieri.

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