Cicerone
La vita
Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino,
nei pressi dell'attuale Frosinone, da agiata famiglia equestre; compì ottimi
studi di retorica e di filosofia a Roma e iniziò a frequentare il foro sotto la
guida del grande oratore Lucio Licinio Crasso e dei due Scevola. Strinse con
Tito Pomponio Attico un'amicizia destinata a durare per tutta la vita. Nell'81,
o forse anche prima, debuttò come avvocato e nell'80 difese la causa di Sesto
Roscio ( accusato di Parricidio ), che lo mise in conflitto con autorevoli
esponenti del regime sillano. Tra il 79 e il 77 si allontanò da Roma ( forse
per paura di rappresaglie dopo il grande successo della sua orazione a difesa
di Roscio ) ed effettuò un lungo viaggio in Grecia e in Asia dove studiò la filosofia
e, sotto la guida di Molone di Rodi, la retorica. Al ritorno sposò Terenzia,
dalla quale nacquero Tullia ( che Cicerone appellò affettuosamente '
Tulliola ' ), nel 76, e Marco, nel 65. Nel 75 fu questore di Sicilia e nel
70 sostenne trionfalmente l'accusa dei Siciliani contro l'ex governatore Verre,
accusato di truffa e di empietà ( faceva rubare le statue dai templi ! ); con
questa esperienza Cicerone si guadagnò fama di oratore principe. Nel 69 fu
edile, nel 66 pretore e diede il suo appoggio alla proposta di concedere a
Pompeo poteri straordinari per la lotta contro il re del Ponto, Mitridate,
facendo così gli interessi degli equites ( lui stesso era di famiglia equestre
) che venivano ostacolati nel loro lavoro di esattori delle imposte da Mitridate
ma nello stesso tempo tutelò anche i suoi stessi interessi, accattivandosi la
simpatia del ceto equestre: in questo frangente scrisse la ' Pro lege
Manlia ' in favore della legge proposta dal tribuno Manilio che prevedeva,
come detto, la conessione a Pompeo di poteri straordinari su tutto l'Oriente, e
la ' De imperio Gnaei Pompei ' ( in un secondo tempo ripudiata da
Cicerone stesso ) nella quale appunto prendeva le difese degli equites e che
può essere considerata il suo punto di massimo avvicinamento alla politica dei
populares, la fazione a lui avversa ( Cicerone era uno degli optimates ). Nel
63 fu eletto console e soffocò in modo duro la congiura di Catilina, che aveva
cercato di salire al potere in modo illegale e di stravolgere la res publica: in
quest'occasione compose le 4 Catilinarie, con le quali svelò le trame
sovversive che il nobile decaduto aveva ordito una volta vistosi sconfitto
nella competizione elettorale: esse, con i loro toni veementi, minacciosi e
carichi di pathos, possono essere considerate il suo capolavoro consolare: il
celebre inizio ( Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? ) é
molto esplicativo in tal senso. In esse fece, tra l'altro, uso di un'arteficio
retorico singolare: l'introduzione di una prosopopea ( personificazione ) della
Patria, la quale rimproverava aspramente Catilina stesso. Dopo la formazione
del primo triunvirato, cui Cicerone guardava con preoccupazione perchè riteneva
che potesse essere insidiosa per l'autorità senatoria, il suo astro iniziò a decadere:
nel 58 dovette recarsi in esilio, con l'accusa di aver messo a morte senza
processo i complici di Catilina e la sua casa venne rasa al suolo. Richiamato a
Roma, vi rientrò trionfalmente nel 57. Nel 52 Clodio, acerrimo nemico di
Cicerone, rimase ucciso e questo fatto pesò su Milone, il diretto rivale di
Clodio; Cicerone assunse le difese di Milone componendo la Pro Milone, una
delle sue opere meglio riuscite. Nel 51 fu governatore di Cilicia, pur avendo
accettato a malincuore di allontanarsi da Roma. Allo scoppio della guerra
civile ( 49 ) aderì con scarso entusiasmo alla causa di Pompeo; dopo la
sconfitta di quest'ultimo ottenne il perdono da Cesare. Negli anni successivi
divorziò da Terenzia e si risposò con la sua giovane pupilla Publilia, dalla quale
tuttavia divorziò dopo pochi mesi. Nel 45 gli morì la figlia Tullia e in quegli
anni iniziò la composizione di una lunga serie di opere filosofiche, mentre il
dominio di Cesare lo teneva distante dalle vicende politiche. Nel 44, dopo
l'assassinio di Cesare, tornò alla vita politica e cominciò la lotta contro
Antonio; pronunciò le Filippiche ( in totale18 ) per indurre il senato a
dichiarargli guerra e a dichiararlo nemico pubblico; sono orazioni in cui
serpeggia l'odio, dove Antonio viene presentato come un tiranno assoluto, un
ladro di denaro pubblico, un ubriacone ( ' che vomita in tutto il
tribunale pezzi di cibo fetidi di vino ' ). Ma la manovra politica di
Cicerone era destinata a fallire. Con un brusco voltafaccia, Ottaviano si
sottrasse alla tutela del senato, e strinse un accordo con Antonio e un altro
capo cesariano, Lepido ( secondo triumvirato ). I tre divennero così padroni
assoluti di Roma. Antonio pretese ed ottenne la testa di Cicerone, il cui nome
venne inserito nelle liste di proscrizione. Venne raggiunto dai sicari presso
Formia, dopo che aveva intrapreso un tentativo di fuga, ai primi di dicembre
del 43; pare che le sue mani, autrici di una miriade di scritti, siano state
appese nel foro.
IL PENSIERO FILOSOFICO
L'antiepicureo Cicerone fu filosofo che compose molti libri, scritti in
gran parte nell'arco di due anni, tra il 46 e il 44 a.C., quando la vittoria di
Cesare lo costrinse a tenersi lontano dalla vita politica e la morte della
figlia Tullia lo spinse a cercare nella filosofia una medicina dell'animo.
Cicerone era stato uno dei protagonisti delle convulse lotte politiche della
prima metà del primo secolo a.C.; nel momento in cui venne costretto a un ozio
forzato, egli scrisse di filosofia, ma anche allora per lui la politica rimase
la dimensione fondamentale della vita. Infatti, una delle ragioni della sua
condanna dell'epicureismo é anche l'apoliticità di questa scuola. I contenuti
degli scritti filosofici di Cicerone non sono radicalmente nuovi rispetto a
quelli elaborati dalla tradizione filosofica greca; egli, infatti, condivide
con buona parte degli uomini colti del suo tempo l'idea che le alternative
filosofiche fondamentali siano già date. Il problema non é dunque quello di
trovare nuove filosofie o nuove basi teoriche, in base alle quali organizzare
la propria vita, la tradizione filosofica ha già provvisto a costruire queste
basi. Si tratta soltanto di saggiarle e renderle operanti, oltre che
preliminarmente accessibili ad un pubblico di lingua latina. Di qui l'importante
lavoro linguistico compiuto da Cicerone, al quale la tradizione filosofica
occidentale deve l'introduzione di termini come moralis, qualitas, notio e così
via. Lo strumento letterario di cui Cicerone si avvale nella sua opera di
diffusione della filosofia greca non é la poesia, ma il dialogo. Esso gli
consente di esporre argomentazioni opposte, pro e contro una determinata tesi.
Così avviene per i problemi gnoseologici negli Accademici, che ci sono giunti
incompleti, per i problemi fisicoteologici in Sulla natura degli dei, Sulla
Divinazione, Sul fato, e, per quelli etici, nelle Dispute tusculane e Sui
termini estremi dei beni e dei mali. Il modello é dato dalla pratica
giudiziaria, nella quale le parti contendenti si affrontano davanti ai giudici.
Il pubblico a cui Cicerone si rivolge é il giudice che deve pronunciare il
verdetto, dopo aver ascoltato le argomentazioni pro e contro presentate dai
protagonisti del dialogo. Si tratta della tecnica di discussione tipica
dell'Accademia scettica, da Arcesilao a Carneade, che anche Cicerone fa
propria, in quanto gli appare più consona ad un atteggiamento libero. Le altre
scuola filosofiche, soprattutto la stoica e l'epicurea, chiedono ai loro adepti
un asservimento totale nei confronti del patrimonio dottrinale della scuola; la
filosofia dell'Accademia, invece, lascia liberi, secondo Cicerone, di formulare
il giudizio dopo aver ascoltato le parti contendenti. Solo al confronto tra
tesi opposte si può sperare di ricavare qualcosa che sia almeno vicino al vero,
ossia il probabile, ciò che può essere saggiato e approvato. Sullo sfondo di
queste tesi si staglia la figura del romano di ceto elevato, che non può
asservirsi ai dettati di una scuola nè praticare la filosofia come un'attività
professionale in competizione con dei rivali. All'autorità della scuola,
Cicerone oppone il giudizio libero, corroborato dalla tradizione romana e dai
valori impliciti in essa: i filosofi greci in contrasto tra loro trovano così i
veri arbitri in Roma, in filosofi liberi dai vincoli di scuola. Diversa appare
l'impostazione degli scritti ciceroniani Sulla repubblica e Sulle leggi,
pervenuteci incompiuti, e della sua ultima opera Sui doveri, ove, anzichè
presentare e discutere tesi contrapposte, si espongono dottrine positive sulla
preferibilità della costituzione mista, sulle leggi, sulle varie occupazioni
confacenti alle funzioni e al rango occupato da ciascuno nella società. Ma in
queste opere, che pure attingono al patrimonio concettuale dei filosofi,
soprattutto di Platone, domina Roma con le sue istituzioni e i suoi valori. In
questo caso non c'è più spazio per tesi contrapposte; occorre invece far
emergere l'immagine totalmente positiva dei costumi antichi e della concordia
tra i ceti, cardini della grandezza di Roma oltre che modello e programma
politico anche per il presente. Nelle pagine di Cicerone antichi personaggi
romani, come Catone o Scipione, diventano eroi filosofici: non é necessario
essere filosofi di professioni per non temere la morte. A proposito
dell'attività politica del popolo romano nel suo complesso, essa é
rappresentata nella Repubblica come una ' sapientia ' che si é
realizzata in leggi e istituzioni, più che in parole, come era avvenuto in
Grecia. Lo scritto Sui doveri, poi, si presenta come una sorta di lunga lettera
indirizzata al figlio Marco, con esplicito intento pedagogico. Qui Cicerone,
ispirandosi in parte a Panezio, si appropria di una forma rielaborata e
addolcita di stoicismo, spogliata dai paradossi tipici di questa scuola. Egli
sostiene che sui problemi dei comportamenti da assumere nella vita quotidiana
non é possibile rinviare il giudizio o abbracciare posizioni scettiche, tanto
meno contrapporsi ai valori diffusi; la soluzione più adeguata gli appare
consistere in un giusto contemperamento di virtù e utilità.
LE OPERE FILOSOFICHE
Esaminiamo ora più nel dettaglio gli scritti filosofici dell'Arpinate.
Innanzitutto, va detto che gran parte dell'opera di Cicerone é pervasa da un
difficile tentativo di ricerca di un complesso equilibrio tra istanze di ammodernamento
e necessità di conservazione dei valori tradizionali. Dietro la vicenda
intellettuale dell'Arpinate si profila una società attraversata da spinte
contrastanti, spesso laceranti: l'afflusso di ricchezze dai paesi conquistati
ha da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida moralità delle
origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la
grandezza di Roma mette ora in forse la stessa sopravvivenza dello stato
repubblicano. D'altronde lo scopo stesso delle sue opere filosofiche é dare una
solida base ideale, etica, politica a una classe dominante ( gli optimates ) il
cui bisogno di un ordine non si traduca in ottuse chiusure, cui il rispetto per
la tradizione nazionale ( mos maiorum ) non impedisca l'assorbimento della
cultura greca; una classe che l'assolvimento dei doveri verso lo Stato non
renda insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e letteratura, nè, in
generale, di quello stile di vita garbatamente raffinato che riassume il
termine di humanitas. Quella di Cicerone, chiaramente, rimane un'ottica di
parte, legata al progetto di egemonia di un blocco sociale ( sostanzialmente i
ceti possidenti ): egli é fermamente contrario a qualsiasi progetto di
redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dei debiti, Cicerone scorge
la via d'uscita dalla crisi che minaccia la repubblica nella concordia dei ceti
abbienti, senatori e cavalieri ( concordia ordinum ). La sua, in fin dei conti,
é e rimane una natura moderata in campo politico. In un secondo tempo, però,
Cicerone espone una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei
ceti abbienti. In quanto semplice intesa tra il ceto senatorio ed equestre, la
concordia ordinum si era rivelata fallimentare: Cicerone ne dilata ora il
concetto in quello di consensus omnium bonorum, cioè la concordia attiva di
tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell'ordine sociale e politico,
pronte all'adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della
famiglia. Il dovere dei boni é quello di non rifugiarsi egoisticamente nel
perseguimento dei propri interessi privati a discapito di quelli pubblici: essi
devono fornire un sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la
loro causa. Il progetto di concordia dei ceti abbienti, nelle due diverse
formulazioni che Cicerone ne diede, significò in ogni caso un tentativo almeno
embrionale ( é ovvio che i boni preferirono in ogni caso tutelare i propri
interessi ) di superare in nome del superiore interesse della collettività, la
lotta tra i gruppi e le fazioni all'epoca dominanti la scena politica romana.
Tuttavia il pensiero politico ciceroniano comprende anche altre questioni: da
tempo si dibatteva in Grecia se l'oratore dovesse accontentarsi della
conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse invece necessaria
una vasta cultura nel campo del diritto, della filosofia e della storia. In
gioventù Cicerone aveva iniziato, senza portarlo a termine, un trattatello di
retorica, il De inventione ( inventio indica il reperimento dei materiali da
parte dell'oratore ). Un interesse particolare riveste il proemio, dove il
giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi di eloquenza e sapientia
( cioè cultura filosofica ), quest'ultima ritenuta necessaria alla formazione
della coscienza morale dell'oratore: l'eloquenza priva di sapientia ha portato
più volte gli stati in rovina. La soluzione ciceroniana é pensata
esplicitamente per la società romana: molti anni dopo egli ritorna sulle stesse
tematiche nel De oratore, una delle sue opere ' più curate '.
Composto nel 55, durante un periodo di ritiro dalla vita politica, mentre Roma
era travagliata dalle bande di Clodio e di Milone, é ambientato nel 91, al
tempo dell'adolescenza di Cicerone; sotto forma di dialogo ( sulle orme di
Platone ) vi prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell'epoca, fra i
quali spiccano Marco Antonio ( 143 - 87 a.C. ), nonno del triumviro che fece
uccidere l'Arpinate, e Lucio Licinio Crasso, portavoce del pensiero di Cicerone
stesso. Nel I libro Crasso sostiene, per l'oratore, di una vasta formazione
culturale. Antonio gli contrappone l'ideale di un oratore più istintivo e
autodidatta, la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali,
sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l'esempio degli oratori
precedenti. Nel II libro si passa alla trattazione di questioni più analitiche,
ed Antonio espone i problemi concernenti la inventio ( la raccolta di materiale
), la dispositio ( l'organizzazione del materiale ) e la memoria ( l'insieme
delle tecniche per memorizzare i concetti ). Compare anche un personaggio
spiritoso e caustico, Cesare Strabone, al quale é assegnata una lunga e
piacevole digressione sulle arguzie e i motti di spirito. Nel III libro Crasso
discute le questioni relative alla elocutio e alla pronuntiatio, cioè in genere
all'actio ( recitazione ) dell'oratore, non senza ribadire la necessità di una
vasta cultura generale e della formazione filosofica. La scelta del 91 per
l'ambientazione del dialogo ha un preciso significato: é l'anno stesso della
morte di Crasso e precede di poco la guerra sociale e i lunghi conflitti civili
tra Mario ( l'homo novus ) e Silla, nel corso dei quali soccomberanno
crudelmente alcuni altri degli interlocutori principali, fra cui lo stesso
Antonio. La crisi dello stato é un'ossessione incombente su tutti i
partecipanti al dialogo e stride volutamente con l'ambiente sereno e raffinato
in cui essi si riuniscono per tenere le loro conservazioni, la villa tuscolana
di Crasso. La consapevolezza della terribile fine di tutti i partecipanti al
dialogo conferisce una nota tragica ai proemi che precedono i singoli libri.
Cercando di conservare la verosomiglianza della caratterizzazione dei propri
personaggi, Cicerone si é sforzato di ricreare l'atmosfera degli ultimi giorni
di pace dell'antica repubblica. Il modello a cui si ispira é sostanzialmente
quello del dialogo platonico: con gesto aristocratico, alle strade e alle
piazze di Atene viene tuttavia sostituito il giardino della villa di campagna
di un nobile romano. A sintetizzare la tesi principale di tutta l'opera
potrebbe valere un'espressione di Sulpicio, uno dei partecipanti al dialogo:
' non l'eloquenza é nata dalla teoria retorica, ma la teoria retorica
dall'eloquenza '. Si richiede quindi una vasta preparazione culturale (
soprattutto filosofica - morale ) all'oratore: bisogna che egli sia versatile,
abile a sostenere il pro e il contra su qualsiasi argomento, riuscendo sempre a
convincere e a trascinare il proprio uditorio; ma questo di per sè non basta: il
tutto deve essere accompagnato dalla virtus, la quale deve mantenere l'intero
sistema oratorio ancorato all'apparato dei valori tradizionali, in cui la
' gente perbene ' si riconosce. Crasso insiste perchè probitas (
integrità )e prudentia ( saggezza ) siano saldamente radicate nell'animo di chi
dovrà apprendere l'arte della parola: consegnarla a chi mancasse di queste
virtù sarebbe come mettere delle armi nelle mani di forsennati. La formazione
dell'oratore viene quindi a coincidere con quella dell'uomo politico della
classe dirigente. Egli dovrà servirsi della sua abilità oratoria non per
blandire il popolo copn proposte demagogiche, ma per piegarlo alla volontà dei
boni. Nelò 46 Cicerone riprese le tematiche del De oratore in un trattato più
esile, l'Orator, aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica.
Disegnando il ritratto dell'oratore ideale ( come Platone aveva tratteggiato le
figure del sofista e del politico ), l'Arpinate sottolinea i tre fini ai quali
la sua arte deve indirizzarsi: probare ( argomentare la propria tesi ),
delectare ( produrre un effetto piacevole sull'uditorio ), flectere ( muovere
le emozioni tramite il pathos ). Ai tre fini corrispondono i tre registri
stilistici che l'oratore dovrà sapere alternare: umile, medio, e elevato o
' patetico '. Nel 44, poi, Cicerone compone i Topica, ispirati
all'opera omonima di Aristotele, i quali trattano dei topoi, i luoghi comuni ai
quali può far ricorso l'oratore alla ricerca degli argomenti da sviluppare nel
discorso. Ma possono farvi ricorso anche i filosofi, gli storici e i giuristi.
Il modello del dialogo platonico ritorna poi, con maggiore evidenza, nel De re
publica, al quale Cicerone si dedicò assiduamente fra il 54 e il 51. Non cercò,
tuttavia, di costruire a tavolino uno stato ideale, come Platone aveva fatto
nella sua ' Repubblica ': con gesto che gli diventava sempre più
consueto, l'Arpinate si proiettò nel passato, per identificare la migliore
forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni. Il dialogo
si svolge nel 129, nella villa suburbana di Scipione Emiliano, che con l'amico
e collaboratore Lelio é uno dei principali interlocutori. La ricostruzione
della trama é purtroppo resa fortemente ipotetica, soprattutto per alcune
sezioni, dalle condizioni estremamente frammentarie in cui il dialogo ci é
stato conservato. Nel I libro Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle
3 forme fondamentali di governo ( monarchia, aristocrazia, democrazia ) e della
loro necessaria degenerazione nelle forme estreme, rispettivamente della
tirannide, della oligarchia e della olocrazia ( governo della ' feccia
' del popolo ). Scipione mostra come lo stato romano dei maiores ( gli
antenati ) si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver
saputo contemperare le tre forme fondamentali: l'elemento monarchico si
rispecchia nell'istituzione del consolato, l'elemento aristocratico
nell'istituzione del senato, l'elemento democratico nell'istituzione dei
comizi. Il libro II si occupa della costituzione romana, mentre il III tratta
della iustitia, ed é in larga parte dedicato a un tentativo di confutazione
dell'acutissima critica che l'accademico Carneade aveva svolto
dell'imperialismo romano: la critica si incentrava soprattutto sul concetto di
' guerra giusta ', ricorrendo al quale i Romani, col pretesto di
soccorrere i loro alleati, ( cioè sudditi ) in difficoltà, avevano
progressivamente esteso il proprio dominio ed ampliato la propria sfera
d'influenza. Il IV libro si occupa dell'educazione dei cittadini e dei princìpi
che devono regolare i loro rapporti. Nei libri IV e V Cicerone introduceva la
figura del rector et gubernator rei publicae ( rettore e governatore dello
stato ) o princeps. Nel VI libro il dialogo si conclude con la rievocazione, da
parte di Scipione l'Emiliano, del sogno in cui tempo addietro gli era apparso
l'avo, Scipione Africano, per mostrargli, dall'alto del cielo, la piccolezza e
l'insignificanza di tutte le cose umane, anche della gloria terrena, e
rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell'aldilà le anime dei grandi
uomini di stato: questa parte, che costituisce la sezione finale dell'opera, va
generalmente sotto il nome di Somnium Scipionis. La teoria del regime misto cui
si appella Scipione risaliva agli stessi Platone ( vedi le ' Leggi '
) e Aristotele. Quando si parla del princeps bisogna stare attenti a non farsi
trarre in inganno: il singolare si riferisce al ' tipo ' dell'uomo
politico eminente, non alla sua unicità ( come invece sarà invece per Machiavelli
); in altre parole, l'Arpinate sembra pensare ad una cerchia ristretta di
personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni e si
raffigura probabilmente il ruolo di princeps sul modello di quello che nella
repubblica romana aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano. Il princeps dovrà
armare il proprio animo contro tutte le passioni egoistiche, principalmente
contro il desiderio di potere e di ricchezza: é questo il senso del disprezzo
verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori dello
stato. Cicerone disegna così l'immagine di un dominatore - asceta,
rappresentante in terra della volontà divina, rinsaldato nella dedizione al
servizio verso lo stato dalla sua despicentia verso le passioni umane. L'ideale
ciceroniano era tuttavia difficilmente realizzabile: probabilmente proprio la
convinzione della necessità di un governo di maggiore autorevolezza, e d'altra
parte la consapevolezza dei pericoli che comportava l'accentramento di enormi
poteri nelle mani di pochi capi, spinsero Cicerone a tentare un avvicinamento a
Pompeo e ai triumviri, nella speranza di mantenere l'operato sotto il controllo
del senato. Ispirandosi ancora al modello di Platone, che alla Repubblica aveva
fatto seguire le Leggi, l'Arpinate completò il dialogo sullo stato col De
legibus, iniziato nel 52 e probabilmente non pubblicato durante la sua vita.
L'azione stavolta non é posta in un'epoca passata, ma nel presente, e
interlocutori sono lo stesso Cicerone, il fratello Quinto, e il grande amico
Attico. L'ambientazione é nella villa di Cicerone ad Arpino e nei boschi delle
campagne circostanti, raffigurati secondo una modulazione del motivo del locus
amoenus che ha il suo modello soprattutto nel Fedro di Platone. Quinto é
tratteggiato come un ottimate estremista, Cicerone come un conservatore
moderato, Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle sue scelte
filosofiche. Nel libro I Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la
legge non é sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli
uomini ed é perciò data da Dio. Nel libro II l'esposizione delle leggi che
dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa non su una
legislazione utopica ( alla Platone ) ma sulla tradizione legislativa romana,
che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. Nel libro
III Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro
competenze. In gioventù l'Arpinate aveva seguito le lezioni dei filosofi più
diversi, e ad interessarsi di filosofia continuò per tutta la vita: a
scriverne, tuttavia, iniziò solo nel 46, con l'operetta sui Paradossi degli
Stoici, dedicata a Marco Bruto e incentrata soprattutto sull'esposizione delle
tesi stoiche maggiormente in contrasto con l'opinione comune. Ma é nel 45 che i
lavori filosofici si infittiscono in maniera incredibile in coincidenza con
eventi dolorosissimi nella vita di Cicerone, quali la morte della figlia
Tullia. L'Hortensius, perduto, era un'esortazione alla filosofia, sul modello
del Protrettico di Aristotele. Gli Academica, che trattavano i problemi
gnoseologici, ebbero una duplice redazione: la prima, i cosiddetti Academica
priora, in due libri; la seconda, gli Academica posteriora, in quattro libri.
Il De finibus bonorum et malorum ( I limiti del bene e del male ) é da alcuni
considerato il capolavoro filosofico di Cicerone: tratta questioni etiche, e
cioè il problema del sommo bene e del sommo male, che é affrontato in 5 libri,
comprendenti 3 dialoghi. Nel primo é esposta la teoria degli epicurei, cui
segue la confutazione ciceroniana; nel secondo si mette a confronto la teoria
stoica con le teorie accademica e peripatetica; nel terzo é esposta la teoria
eclettica di A. Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone, la più vicina al
pensiero dell'autore. Ancora di questioni etiche tratta un'altra fra le
maggiori opere filosofiche ciceroniane e certo la più appassionata, le
Tusculanae disputationes, dedicate anch'esse a Bruto e ambientate nella villa
di Cicerone a Tuscolo. L'opera, in 5 libri, che segna il massimo avvicinamento
dell'Arpinate alle tesi propugnate dagli stoici, é condotta in forma di dialogo
tra Cicerone e un anonimo interlocutore. Nei singoli libri sono trattati,
rispettivamente i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti
dell'animo e della virtù come garanzia della felicità: siamo dunque di fronte
ad una grande summa dell'etica antica. Nelle Tusculanae l'Arpinate cerca una
risposta ai suoi personali interrogativi, una soluzione ai suoi dubbi: di qui
la profonda partecipazione emotiva dell'autore agli argomenti trattati. Di
argomenti religiosi e teologici trattano tre dialoghi, il De natura deorum, in
3 libri, anch'esso dedicato a Bruto; il De divinatione, in 2 libri, e il De
fato giuntoci incompleto. Le due ultime opere sono presentate esplicitamente
dall'autore come integrative e complementari rispetto alla prima. Nelle opere
filosofiche Cicerone viene ripesando tutto il corpus di metodi e teorie
cresciuto entro le scuole ellenistiche. L'impegno ciceroniano nell'attività
filosofica é soprattutto moralistico, e non dimentica i doveri del cittadino al
servizio dello stato. Interessante in questi dialoghi é il ricercare sempre la
conseguenza pratica, la ricaduta in termini di azione e partecipazione politica
a cui possono portare le teorie filosofiche: si tratta di ricucire le membra
lacerate del pensiero ellenistico per trarne fuori una struttura ideologica
efficacemente operativa nei confronti della società romana. In sede di teoria
della conoscenza Cicerone aderì, nei suoi anni maturi, al probabilismo degli
Accademici, una sorta di scetticismo pragmatico, che senza negare l'esistenza
di una verità oltre i fenomeni, si preoccupa principalmente di garantire la
possibilità di una conoscenza probabile, utile a orientare l'azione e ad essa
funzionalizzata. Nel libro II degli Academica Lucullo rimprovera a Cicerone di
distruggere la stessa possibilità della conoscenza rifiutandosi di ammettere
l'esistenza di criteri sicuri delle nostre percezioni: se tutto é opinabile,
allora non vi sarà più nè certezza nè verità. L'Arpinate replica che anche un
dubbio generalizzato non comporta la negazione della verità; nemmeno pensa,
come gli scettici che esistano più verità. In un celebre passo delle Tusculanae
Cicerone definisce il metodo che egli segue nel trattare dei problemi di
maggiore importanza: astenendosi egli stesso dal formulare un'opinione precisa,
si sforza di esporre le diverse opinioni possibili, e di metterle a confronto
per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre. L'eclettismo filosofico
di Cicerone obbedisce alle esigenze di un metodo rigoroso, che si sforza di
stabilire fra le diverse dottrine un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito
polemico. La stessa ideologia della humanitas, alla cui elaborazione l'Arpinate
diede un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale di
aperta tolleranza: dai suoi stessi dialoghi traspare questa grande apertura e
si può notare come i vari interlocutori non polemizzino mai tra loro con toni
aspri e cerchino sempre di rispettare il loro turno per prendere la parola:
siamo insomma di fronte ad una cerchia ristretta di uomini perbene che vedono
nelle teorie diverse dalle loro un arricchimento culturale. Ma c'é un caso in
cui il contradditorio e la confutazione, pur senza scadere nella zuffa, si
fanno talora più violenti e indignati: l'eclettismo ciceroniano, come già
anticipato, mostra una chiusura radicale verso l'epicureismo, alla cui
esposizione e confutazione sono dedicati i primi due libri del dialogo De
finibus bonorum et malorum. I motivi dell'avversione ciceroniana verso
l'epicureismo sono soprattutto due, tra loro strettamente connessi: in primo
luogo la filosofia epicurea porta al disinteresse per la vita politica ( '
vivi di nascosto ' era il loro motto ), mentre dovere dei boni é l'attiva
partecipazione alla vita pubblica; inoltre l'epicureismo esclude la funzione
provvidenziale della divinità ( per quanto non ne neghi l'esistenza ) e
indebolisce così i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone rimane
la base fondamentale dell'etica. Va poi detto che l'Arpinate vedeva
negativamente la ricerca del piacere ( voluptas ) propugnata dagli epicurei, i
quali non esitavano a collocarla tra le somme virtù: ora é evidente che se ogni
cittadino vivesse ' di nascosto ' alla ricerca del piacere personale
lo stato si sfascerebbe; inoltre mettere la voluptas tra le virtù é come
mettere una prostituta tra signore per bene, dice Cicerone. Tutte queste
argomentazioni spiegano in parte il senso dei dialoghi di argomento religioso e
teologico. Nel De natura deorum viene esposta e confutata la tesi epicurea
dell'indifferenza degli dei rispetto alle vicende umane. Successivamente viene
presa in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale, mentre in uno dei
libri successivi ( il III ) l'Arpinate si schiera a favore dello scetticismo
accademico. Più interessante risulta il De divinatione, anche perchè legato a
vicende più contemporanee a Cicerone, che si dimostra incerto se denunciare la
falsità della religione tradizionale o proporre il suo mantenimento al fine di
conservare il dominio sui ceti inferiori. Tornando al De finibus bonorum et
malorum, Cicerone, dopo aver confutato la tesi epicurea, esamina quella stoica:
riconosce che lo stoicismo fornisce le basi morali più solide all'impegno dei
cittadini verso la collettività, ma tuttavia si sente lontano per cultura e
gusti: il loro rigore etico gli appare anacronistico e impraticabile nella
società romana. Cicerone, invece, apprezza le tesi scettiche: la verità é per
lui irraggiungibile, e l'uomo si può solo avvicinare ad essa applicando la
virtus; l'eclettismo ciceroniano non a caso si basa su ideali scettici: dato
che la verità é irraggiungibile, tanto vale esaminare tutte le diverse
filosofie ed estrapolare da ognuna di esse il meglio. Un posto particolare tra
le opere filosofiche occupano anche il Cato maior de senectute e il Laelius de
amicitia. Nel Cato maior de senectute Cicerone trasfigura l'amarezza per una
vecchiaia la quale, oltre al decadimento fisico e all'imminenza della morte,
sembra soprattutto temere la perdita della possibilità di intervento politico.
Tuttavia Cicerone, immedesimandosi nell'austera figura di Catone il Censore,
tratteggia una vecchiaia nella quale si armonizzano in maniera perfetta il
gusto per l'otium e la tenacia dell'impegno politico, due opposte esigenze che
l'Arpinate ha cercato invano di conciliare lungo tutto l'arco della sua vita.
Diversa, più combattiva, é l'atmosfera che si respira nel Laelius de amicitia,
il quale, all'indomani dell'uccisione di Cesare, accompagna il rientro di
Cicerone sulla scena politica. Il dialogo é immaginato svolgersi nel 129, lo
stesso anno del De re publica: pochi giorni dopo la scomparsa di Scipione nel
corso delle agitazioni graccane. Rievocando la figura dell'amico scomparso,
Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sul valore e sulla natura
dell'amicizia stessa. Amicitia per i Romani era soprattutto la creazione di
legami personali a scopo di sostegno politico. Nascendo dal tentativo di superare
la tradizionale logica clientelare e di fazione propria dello stato
aristocratico, il dialogo muove tuttavia alla ricerca dei fondamenti etici
della società nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici. La novità
dell'impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la
base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della nobilitas: a
fondamento dell'amicizia sono posti valori come virtus e probitas riconosciuti
a vasti strati della popolazione. L'amicizia propagandata da Lelio non é solo
un'amicizia politica: si avverte in tutta l'opera un disperato bisogno di
rapporti sinceri, quali Cicerone, preso nel vortice delle convenienze imposte
dalla vita pubblica, potè forse trovare solo in Attico. La stesura del De officiis
venne iniziata probabilmente nell'autunno del 44: si tratta stavolta di un
trattato, non di un dialogo, dedicato al figlio Marco, allora studente di
filosofia ad Atene. L'opera é il prodotto di un'elaborazione rapidissima, per
lo più contemporanea alla composizione di alcune delle Filippiche: mentre sta
combattendo colui che ai suoi occhi sta portando la patria alla rovina
definitiva, Cicerone cerca nella filosofia i fondamenti di un progetto di vasto
respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che
permetta all'aristocrazia di riacquistare il pieno controllo della società. La
base filosofica viene offerta dallo stoicismo moderato di Panezio. Nel de
officiis Cicerone afferma di rivolgersi in primo luogo ai giovani: ciò conferma
la funzione pedagogica che egli in generale attribuisce al suo lavoro di
divulgazione filosofica. I 3 libri di cui il De officiis é composto trattano
rispettivamente dell'honestum, dell'utile e del conflitto tra di loro. Lo
stoicismo di Panezio si differenziava dallo stoicismo comune soprattutto per un
giudizio assai più positivo sugli istinti da parte di Panezio: le virtù
fondamentali venivano reinterpretate in modo da essere viste come organico
sviluppo di questi istinti fondamentali. La virtù fondamentale per Panezio era
la socialità, cui si affiancava la beneficenza: se alla prima spetta di '
dare a ciascuno il suo ', la seconda ha il compito di collaborare
positivamente al benessere della comunità e di mettere a disposizione dei concittadini
la persona e gli averi del singolo. La beneficenza teorizzata da Panezio
corrispondeva benissimo allo stile di vita degli aristocratici romani, che,
attraverso gli officia e l'elargizione nei confronti dei concittadini, sapevano
procurarsi un seguito politico capace di innalzarsi alle più alte cariche dello
stato; tuttavia per Cicerone la beneficenza può causare seri problemi: può
essere strumento di corruzione, infatti, il donare denaro oppure l'effettuare
benefici ingiusti o ancora abbassare le tasse. Perciò l'Arpinate sottolinea con
forza che la beneficenza non deve essere posta al servizio delle ambizioni
personali. Alla tipica virtù cardinale della fortezza Panezio aveva sostituito
la grandezza d'animo; ebbene, Cicerone riprende questa concezione, ma, paradossalmente,
a fondamento della magnitudo animi il De officiis pone un disprezzo quasi
ascetico per tutti i beni terreni, come gli onori, la ricchezza, il potere.