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Cicerone : Traduzioni
L'occasione più fortemente desiderata, o giudici, la sola veramente adatta a sedare l'antipatia verso la vostra classe e il discredito per l'istituto giudiziario, vi è data in un momento critico per lo Stato, non da consiglio umano, ma quasi dal volere divino. Da lungo tempo ormai s'è diffusa, non solo tra noi, ma anche fra gli altri popoli, l'opinione, esiziale per la repubblica e per voi rischiosa che, con l'attuale sistema giudiziario, un uomo ricco può, per quanto colpevole, sottrarsi alla giustizia. Ora appunto, in un momento così delicato per la vostra classe e per il potere giudiziario, mentre v'è gente pronta a tentare, con pubblici dibattimenti e proposte di legge, di suscitare quest'odio contro il senato, si presenta dinanzi a voi come imputato Gaio Verre, uomo già condannato dalla pubblica opinione per la sua vita di misfatti, ma che, stando alle sue speranze e affermazioni, è stato, grazie ai suoi ingenti mezzi finanziari, già assolto. Io ho abbracciato questa causa, o giudici, col pieno assenso e la viva aspettazione del popolo romano, non per accrescere l'ostilità verso il vostro ordine, ma per porre un argine al generale discredito. Ho portato dinanzi a voi un uomo, che vi offre la possibilità di ridare alla giustizia la perduta stima, di riconciliarvi col popolo romano, di dare soddisfazione ai popoli stranieri; un uomo che è stato il grassatore del pubblico erario, l'oppressore dell'Asia Minore e della Panfilia, predone della giustizia da lui amministrata come pretore urbano, peste e rovina della provincia siciliana. Se voi lo giudicherete con rigore e secondo coscienza, resterà saldo quel prestigio che è vostro compito preservare; se invece le sue ingenti ricchezze riusciranno a spuntarla sul rispetto della legge e sulla verità, raggiungerò almeno lo scopo di provare che ai giudici non è mancato un accusato, né a questo un accusatore, ma è mancato piuttosto alla repubblica il suo tribunale.
E a questo punto non mi sembra giusto sottacere la nobile e originale attività di questo brillante generale. Sappiate dunque che in Sicilia non c'è nessuna città, fra quelle dove i governatori abitualmente si fermano e tengono le sessioni giudiziarie, nella quale non si scegliesse una donna appartenente a famiglia non certo di infimo rango per darla in pasto alla sua lussuria. Si procedeva così: alcune di esse erano invitate pubblicamente a banchetto; invece quelle più riservate, se c'erano, arrivavano a ore particolari per evitare la luce del giorno e le compagnie numerose. I banchetti inoltre non rispettavano quel silenzio che è conforme alla dignità di un governatore e di un generale del popolo romano e neppure quella decenza che solitamente regna nei conviti dei magistrati; ma si svolgevano nel clamore più assordante e fra gli schiamazzi più scomposti; talora la situazione degenerava in una rissa e si veniva addirittura alle mani. Infatti questo governatore severo e scrupoloso, che non si era mai sognato di obbedire alle leggi del popolo romano, ottemperava meticolosamente alle leggi che si stabilivano nel bere. Ecco dunque come andavano a finire queste manovre: uno veniva portato via a braccia dalla sala del convito come dal teatro di una battaglia, un altro veniva lasciato lì come un caduto sul campo, i più giacevano qua e là lunghi distesi al suolo fuori di testa e privi di sensi, che se uno mai li avesse visti avrebbe creduto di assistere non al banchetto di un governatore, ma alla battaglia di Canne della depravazione.
Passo ora a parlare di quella che il nostro imputato chiama passione, i suoi amici mania morbosa, i siciliani rapina continuata. Quanto a me, non so proprio come chiamarla: vi porrò davanti agli occhi i fatti e voi dovrete valutarli per quello che sono, non già in base al nome che li designa. Voi, signori giudici, prendete prima conoscenza della natura dei fatti in sé e per sé, e dopo non vi sarà probabilmente troppo difficile cercare quale nome si debba secondo voi dare a essi. Io dichiaro che in tutta quanta la Sicilia, provincia così ricca e antica, piena di tante città e di tante famiglie così facoltose, non c'è stato vaso d'argento né vaso di Corinto o di Delo, né pietra preziosa o perla, né oggetto d'oro e d'avorio, né statua di bronzo o di marmo o d'avorio, dichiaro che non c'è stato quadro né arazzo che egli non abbia bramosamente ricercato, accuratamente esaminato e, se di suo gusto, portato via. Sembra un'esagerazione la mia; fate bene attenzione anche alle parole stesse che pronuncio; ché non è già per usare un'espressione forte né per aggravare l'accusa che dichiaro di non fare nessuna eccezione. Quando affermo che Verre non ha lasciato all'intera provincia nessuno di questi oggetti d'arte, sappiate che adopero le parole nel senso letterale, non con l'esagerazione degli accusatori. Sarò ancora più esplicito: non ha lasciato nulla in casa di nessuno e nemmeno nelle città, nulla nei luoghi pubblici e nemmeno nei santuari, nulla in casa di un siciliano e nemmeno di un cittadino romano; per concludere, di tutto ciò che gli capitasse davanti agli occhi e suscitasse la sua bramosia, fosse un oggetto d'arte privato o pubblico, profano o sacro, costui non ha lasciato nell'intera Sicilia assolutamente nulla.
In primo luogo sostengo che egli ha amministrato il settore della marina non già pensando alla difesa della provincia, ma preoccupandosi di far soldi col pretesto della flotta. La consuetudine dei governatori precedenti era quella di imporre alle città siciliane la fornitura di navi e di un numero prefissato di marinai e di soldati, tu invece non hai imposto nessuna di queste condizioni alla grandissima e ricchissima città di Messina. Quanti soldati ti abbiano dato sottobanco i Mamertini per questa esenzione, se sarà il caso lo scopriremo in seguito dai loro stessi registri e dalle loro deposizioni. Io sostengo che d'altronde ti fu offerta in dono da parte di un magistrato supremo e del senato di Messina una nave da carico enorme, delle dimensioni di una trireme, una nave da carico bellissima e perfettamente equipaggiata, costruita palesemente, a pubbliche spese, a nome tuo, per incarico della città: e tutta quanta la Sicilia lo sapeva. Questa nave, stracarica del bottino predato in Sicilia, mentre anch'essa faceva parte precisamente di quella preda, nel momento in cui Verre lasciò l'isola al termine del suo mandato, partì con lui e approdò a Velia: il suo carico era costituito da numerosissimi oggetti, tra cui quelli che costui non volle spedire a Roma con il resto del bottino, perché gli erano molto cari e gli procuravano grandissimo piacere. Questa nave, bellissima e perfettamente equipaggiata, l'ho vista io personalmente a Velia qualche tempo fa e così l'hanno vista molti altri, o giudici. E, per la verità, a tutti coloro che avevano occasione di osservarla, essa dava già l'impressione di vedere già in lontananza l'esilio del suo padrone e di volerne progettare le fuga.
Fate bene attenzione, giudici. Rappresentatevi nella mente- i nostri pensieri sono liberi e scorgono gli oggetti che desiderano contemplare così come noi distinguiamo gli oggetti che vediamo-, rappresentatevi dunque col pensiero la condizione che io immagino: se potessi ottenere da voi l'assoluzione di Milone, ma a condizione che Publio Clodio ritorni in vita Che è mai quel terrore sui vostri volti? Quale impressione vi farebbe da vivo, se da morto, all'illogico pensiero della sua presenza, ha prodotto in voi un turbamento simile? E ancora: se Gneo Pompeo in persona, dotato com'è di valore e fortuna tali da riuscire sempre in imprese per tutti impossibili, se egli, dico, avesse avuto il potere di'istruire il processo relativo alla morte di Publio Clodio oppure di richiamarlo dagli inferi, secondo voi quale delle due alternative avrebbe scelto? Ammesso che per motivi di amicizia avesse voluto richiamarlo dagli inferi, non l'avrebbe fatto per il bene dello stato. Voi dunque, giudici, sedete qui per vendicare la morte di un uomo, a cui non vorreste restituire la vita se vi giudicaste capaci di farlo; per di più per la sua morte si è stabilita una procedura che non sarebbe mai stata proposta se avesse avuto l'effetto di farlo resuscitare. Se, dunque, fosse stato l'assassino di costui, nell'ammetterlo avrebbe motivo di temere la punizione da parte di quelli che lo hanno liberato? I Greci accordano onori divini ai tirannicidi: quali onoranze io in persona ho visto ad Atene e quali nelle altre città greche, quali cerimonie religiose istituite per uomini simili, quali canti, quali inni! Sono consacrati quasi al culto divino e alla memoria eterna. Voi, invece, non solo non accorderete onori a chi ha salvato un così grande popolo e ha vendicato tanta scelleratezza, ma permetterete addirittura che subisca una condanna? Confesserebbe, sì, confesserebbe con orgoglio e gioia, se avesse premeditato il delitto, di aver compiuto per la libertà di tutti un atto che non dovrebbe semplicemente confessare, ma addirittura sbandierare. Fate bene attenzione, giudici. Rappresentatevi nella mente- i nostri pensieri sono liberi e scorgono gli oggetti che desiderano contemplare così come noi distinguiamo gli oggetti che vediamo-, rappresentatevi dunque col pensiero la condizione che io immagino: se potessi ottenere da voi l'assoluzione di Milone, ma a condizione che Publio Clodio ritorni in vita Che è mai quel terrore sui vostri volti? Quale impressione vi farebbe da vivo, se da morto, all'illogico pensiero della sua presenza, ha prodotto in voi un turbamento simile? E ancora: se Gneo Pompeo in persona, dotato com'è di valore e fortuna tali da riuscire sempre in imprese per tutti impossibili, se egli, dico, avesse avuto il potere di'istruire il processo relativo alla morte di Publio Clodio oppure di richiamarlo dagli inferi, secondo voi quale delle due alternative avrebbe scelto? Ammesso che per motivi di amicizia avesse voluto richiamarlo dagli inferi, non l'avrebbe fatto per il bene dello stato. Voi dunque, giudici, sedete qui per vendicare la morte di un uomo, a cui non vorreste restituire la vita se vi giudicaste capaci di farlo; per di più per la sua morte si è stabilita una procedura che non sarebbe mai stata proposta se avesse avuto l'effetto di farlo resuscitare. Se, dunque, fosse stato l'assassino di costui, nell'ammetterlo avrebbe motivo di temere la punizione da parte di quelli che lo hanno liberato? I Greci accordano onori divini ai tirannicidi: quali onoranze io in persona ho visto ad Atene e quali nelle altre città greche, quali cerimonie religiose istituite per uomini simili, quali canti, quali inni! Sono consacrati quasi al culto divino e alla memoria eterna. Voi, invece, non solo non accorderete onori a chi ha salvato un così grande popolo e ha vendicato tanta scelleratezza, ma permetterete addirittura che subisca una condanna? Confesserebbe, sì, confesserebbe con orgoglio e gioia, se avesse premeditato il delitto, di aver compiuto per la libertà di tutti un atto che non dovrebbe semplicemente confessare, ma addirittura sbandierare.
Sostengono che lo Spartano Lisandro era solito dire che: Sparta è molto dignitosa nella sede della vecchiaia: infatti in nessun altro luogo vi è tanto rispetto per la vecchiaia, in nessun altro luogo la vecchiaia è più onorata. Anzi, ciò è anche tramandato, quando ai giochi di Atene un tale di età avanzata, era venuto alla grande assemblea nel teatro , e dai suoi concittadini non gli fu dato nessun posto ; quando invece si fu avvicinato agli Spartani , che , erano in qualità di legati, e ed erano a sedere in un certo luogo , sono detti quelli alzarsi ( si dice che quelli si alzarono ) tutti in piedi e fecero un posto a sedere al vecchio. ( Allora ) quando da tutta l'assemblea fu fatto a quelli un applauso molteplice , fu detto loro dal tale , che gli Ateniesi sanno quali sono le cose giuste , ma non vogliono farle. Molte cose, nella nostra città sono chiarissime, ma ciò, riguardo a cui parliamo, principalmente , che cioè come uno è più vecchio , così vota per primo, e non solo per onore ai precedenti ,ma anche a quelli, che sono con il potere ( hanno il potere ) ,si antepongono i maggiori per età.
Socrate, essendo il più sapiente degli uomini e avendo vissuto in modo molto giusto, nel processo capitale proprio lui parlò per sè cosicché sembrasse che fosse non supplice o imputato ma maestro e signore dei giudici. Ché anzi, dopo che l'eloquentissimo oratore Lisia gli aveva portato l'orazione scritta, che, se lo riteneva opportuno, imparasse a memoria perché la usasse per sè nel processo, la lesse ben volentieri e disse che era stata composta abilmente: 'Ma' disse 'come se mi avessi portato le scarpe di Sicione non le userei nonostante fossero comode e adatte al piede, perché non sono virili', e gli parve che questo discorso fosse eloquente e degno di un oratore, ma non sembrò potente e masculino. Dunque egli fu anche condannato: e non solo nelle prime frasi, nelle quali i giudici decidevano se condannarlo o assolverlo, ma anche in quelle che dovevano condurre un'altra volta secondo le leggi. Infatti ad Atene, condannato un colpevole, se la colpa non era capitale, c'era per così dire una determinazione della pena: e quando veniva data la sentenza dai giudici, il colpevole era interrogato quasi che riconoscesse quale pena meritava di più. Perciò, quando Socrate fu interrogato rispose che meritava di ricevere grandissimi onori e premi e che gli fosse particolarmente fornito il vitto quotidiano nel Pritaneo, che è ritenuto il massimo onore presso i Greci. Alla risposta di questo i giudici si adirarono tanto che condannarono a morte un uomo del tutto innocente.
[1] Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? quamdiu etiam furor iste tuus nos eludet? quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum praesidium Palati, nihil urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora voltusque moverunt? Patere tua consilia non sentis, constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam, non vides? Quid proxima, quid superiore nocte egeris, ubi fueris, quos convocaveris, quid consilii ceperis, quem nostrum ignorare arbitraris? [2] O tempora, o mores! Senatus haec intellegit. consul videt; hic tamen vivit. Vivit? immo vero etiam in senatum venit, fit publici consilii particeps, notat et designat oculis ad caedem unum quemque nostrum. Nos autem fortes viri satis facere rei publicae videmur, si istius furorem ac tela vitemus. Ad mortem te, Catilina, duci iussu consulis iam pridem oportebat, in te conferri pestem, quam tu in nos [omnes iam diu] machinaris. [3] An vero vir amplissumus, P. Scipio, pontifex maximus, Ti. Gracchum mediocriter labefactantem statum rei publicae privatus interfecit; Catilinam orbem terrae caede atque incendiis vastare cupientem nos consules perferemus? Nam illa nimis antiqua praetereo, quod C. Servilius Ahala Sp. Maelium novis rebus studentem manu sua occidit. Fuit, fuit ista quondam in hac re publica virtus, ut viri fortes acrioribus suppliciis civem perniciosum quam acerbissimum hostem coercerent. Habemus senatus consultum in te, Catilina, vehemens et grave, non deest rei publicae consilium neque auctoritas huius ordinis; nos, nos, dico aperte, consules desumus.
Fino a quando, Catilina, intendi abusare della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora questo tuo comportamento fazioso si prenderà gioco di noi? Fino a che punto si spingerà la tua illimitata sfrontatezza? Non ti turbano il presidio notturno a difesa del Palatino, le pattuglie armate che perlustrano la città, l'angoscia del popolo, l'accorrere di tutti i cittadini onesti, e neppure la scelta di questa sede- così difesa- per le riunioni del senato, né l'espressione del volto di costoro? Non ti accorgi che i tuoi progetti sono scoperti? Non ti rendi conto che il tuo complotto è ostacolato dal fatto che tutti qui ne sono a conoscenza? Credi forse che qualcuno di noi ignori che cosa hai fatto la notte scorsa e quella precedente, dove sei stato, quali congiurati hai convocato e quali decisioni hai preso? Che tempi, che decadenza di costumi! Il senato è al corrente di questi progetti, il console ne è consapevole: eppure lui continua a vivere. A vivere? Non solo, ma anzi viene in senato, gli si permette di prendere parte alle decisioni d'interesse comune, osserva ciascuno di noi e con un'occhiata gli assegna un destino di morte. Quanto a noi, uomini di grande coraggio, siamo convinti di fare abbastanza per lo Stato vanificando i furiosi tentativi assassini di costui. Ti si avrebbe dovuto condannare a morte già in precedenza, Catilina, per ordine del console; su di te avrebbe dovuto riversarsi la rovina che già da lungo tempo trami contro tutti noi. Se un uomo di grandissimo pregio, quale fu il pontefice massimo Publio Scipione, pur non ricoprendo cariche pubbliche, mandò a morte Tiberio Gracco che peraltro attentava solo in misura marginale alla stabilità della repubblica, noi consoli tollereremo che Catilina accarezzi il progetto di devastare con stragi e incendi il mondo intero? Tralascio il noto esempio, ormai troppo lontano, di Gaio Servilio Ahala, il quale uccise di mano propria Spurio Melio che ordiva trame estremistiche. Ma vi assicuro che vi fu, vi fu anche in questo stato un tempo il coraggio, quando gli uomini di grande energia infliggevano al cittadino sedizioso un supplizio più crudele di quello riservato al peggiore nemico. Contro di te, Catilina, un decreto del senato severo ed energico lo possediamo: lo Stato non è privo della saggezza e della capacità di decisione del collegio senatorio; siamo noi consoli- lo riconosco davanti a tutti- siamo noi a venir meno al nostro dovere.
Nunc, antequam ad sententiam redeo, de me pauca dicam. Ego, quanta manus est coniuratorum, quam videtis esse permagnam, tantam me inimicorum multitudinem suscepisse video; sed eam esse iudico
turpem et infirmam et [contemptam
et] abiectam. Quodsi aliquando alicuius furore et scelere concitata manus ista plus valuerit quam vestra ac
rei publicae dignitas, me tamen meorum factorum
atque consiliorum numquam, patres conscripti, paenitebit. Etenim mors, quam
illi [mihi] fortasse minitantur, omnibus est
parata; vitae tantam laudem,
quanta vos me vestris decretis honestastis, nemo est adsecutus. Ceteris enim bene gesta, mihi uni conservata re publica gratulationem decrevistis. Sit Scipio clarus ille, cuius consilio
atque virtute Hannibal in Africam redire atque [ex] Italia decedere coactus
est, ornetur alter eximia
laude Africanus, qui duas urbes huic imperio infestissimas, Carthaginem Numantiamque, delevit, habeatur vir egregius
Paulus ille, cuius currum rex
potentissimus quondam et no
bilissimus Perses honestavit, sit aeterna gloria Marius, qui bis Italiam obsidione et metu servitutis
liberavit, anteponatur
omnibus Pompeius, cuius res
gestae atque virtutes isdem quibus solis cursus regionibus ac terminis
continentur; erit profecto inter horum laudes aliquid
loci nostrae gloriae, nisi forte maius est patefacere nobis provincias, quo exire possimus, quam curare, ut etiam illi, qui absunt, habeant, quo victores revertantur.
Quamquam est uno loco condicio melior externae victoriae quam domesticae, quod hostes alienigenae
aut oppressi serviunt aut recepti
[in amicitiam] beneficio se obligatos
putant; qui autem ex numero
civium dementia aliqua depravati hostes patriae semel esse coeperunt, eos cum a pernicie
rei publicae reppuleris, nec vi coercere nec beneficio placare possis. Quare mihi cum
perditis civibus aeternum bellum susceptum esse video. Id ego vestro bonorumque omnium auxilio memoriaque tantorum periculorum, quae non modo in hoc populo, qui servatus est, sed in omnium gentium sermonibus ac mentibus semper
haerebit, a me atque a meis facile propulsari posse confido. Neque ulla profecto tanta vis reperietur, quae coniunctionem vestram equitumque Romanorum et tantam conspirationem
bonorum omnium confringere et labefactare possit.
Ora, prima di ritornare all'oggetto della discussione, dirò alcune cose che riguardano me. So di essermi fatto una schiera di nemici grande quanto è quella dei congiurati, che avete visto essere immensa; ma la considero infame, spregevole, vile. E anche se un giorno, mossa dall'odio e dalla scellerata follia di qualcuno, questa schiera sarà più forte di quanto non sia il sentimento della dignità vostra e dello stato, io non mi pentirò mai, senatori, delle mie azioni e delle decisioni che ho preso. Infatti la morte, che essi forse mi minacciano, è destinata a tutti, mentre ricevere in vita una lode grande quanto quella con cui voi, con i vostri decreti, mi avete onorato, non l'ha mai conseguito nessuno. Ad altri infatti l'avete decretata per vittoriose imprese militari, ma soltanto a me per aver salvato lo Stato. Sia dunque famoso Scipione, la cui decisione e il cui valore costrinsero Annibale a fare ritorno in Africa e a abbandonare l'Italia; ottenga grande lode anche l'altro Africano, che rase al suolo Cartagine e Numanzia, due città acerrime nemiche del nostro Stato; abbia lode anche quell'uomo egregio, Paolo, il cui carro trionfale fu ornato da un re un tempo di grande potenza e nobiltà, Perseo; sia gloria eterna a Mario, che per due volte liberò l'Italia dall'invasione e dal timore della schiavitù; davanti a tutti si collochi Pompeo, le cui imprese gloriose possono essere circoscritte solo dai confini di quelle stesse regioni che il sole tocca nel suo corso; certamente tra le lodi di questi ci sarà un po' di spazio per la mia gloria, a meno che non sia ritenuto più meritorio conquistare province nelle quali possiamo riversarci, che non preparare un luogo dove anche quanti sono lontani tornino vincitori.<BR>Del resto, per un solo aspetto la condizione di una vittoria all'estero è migliore di una vittoria interna: i nemici stranieri, sconfitti diventano schiavi, o, se abbiamo instaurato con loro dei legami di amicizia, si ritengono obbligati; invece i cittadini che, resi malvagi da una qualche forma di pazzia, siano divenuti nemici della patria, se anche riesci a distoglierli dall'ordire trame contro lo stato non li potresti mai sottomettere con la forza né placarli con la benevolenza. Per questo motivo io mi rendo conto che la guerra tra me e questi depravati non avrà fine. Grazie al vostro aiuto e a quello di tutti i cittadini perbene, grazie al ricordo degl'immani pericoli che abbiamo corso, ricordo che rimarrà sempre vivo non solo in questa popolo che fu salvato ma nei discorsi e nella memoria di tutti, io confido che questa guerra possa essere facilmente vinta da me e dai miei. E senza dubbio non si troverà una forza così perversa da poter struggere o soltanto indebolire l'alleanza fra voi e i cavalieri romani e una così grande concordia di tutti i buoni.
Quae tecum, Catilina, sic agit et quodam
modo tacita loquitur: 'Nullum
iam aliquot annis facinus exstitit
nisi per te, nullum flagitium sine te; tibi uni multorum civium neces, tibi
vexatio direptioque sociorum inpunita fuit ac libera; tu non solum ad neglegendas leges et quaestiones,
verum etiam ad evertendas perfringendasque valuisti. Superiora illa, quamquam ferenda non fuerunt, tamen, ut potui, tuli; nunc
vero me totam esse in metu propter unum te, quicquid increpuerit, Catilinam timeri, nullum videri contra me consilium iniri posse, quod a tuo scelere abhorreat, non est ferendum. Quam ob rem discede
atque hunc mihi timorem eripe;
si est verus, ne opprimar,
sin falsus, ut tandem aliquando
timere desinam.'
Haec si tecum,
ita ut dixi, patria loquatur, nonne impetrare debeat,
etiamsi vim adhibere non possit?
Ora è la patria, madre comune di tutti noi, a odiarti e temerti, ormai da tempo convinta che tu non accarezzi altro progetto che il parricidio: non ne rispetterai l'autorità, non ne accetterai la sentenza, non ne temerai la forza? Essa, Catilina, discute con te e silenziosa, in un certo qual modo, si rivolge a te così: 'Ormai da molti anni non è stato perpetrato alcun delitto se non per opera tua, nessuna azione infame senza la tua partecipazione; soltanto per te l'uccisione di molti cittadini, la vessazione e la depredazione degli alleati sono rimaste impunite e prive di di conseguenze: sei stato capace non solo di calpestare le leggi e i tribunali, ma anche di distruggerli e annientarli. I noti delitti del passato, che non avrei dovuto sopportare, tuttavia, come ho potuto, li ho sopportati. Ora però sono in grande ansietà solo per causa tua: aogni rumore si teme Catilina; sembra che nessun complotto possa essere ordito contro di me sena la tua scellerata partecipazione; non intendo più sopportarlo. Perciò vattene, e liberami da questo timore: se è fondato, perchè io non ne sia uccisa, se invece è falso, perchè una volta per tutte io smetta di temere'. Se, come ho detto, la patria ti rivolgesse queste parole, non dovrebbe forse ottenere ciò che ti chiede, anche se non fosse in grado di usare la forza?
La vostra incredibile affluenza, o Quiriti, e la grande abbondanza quanta non mi sembra di ricordare, mi danno sia grande alacrità di difendere la repubblica sia speranza di recuperarla. Tuttavia il coraggio in realtà non mi mancò mai: mancarono le circostanze, che non appena sembravano mostrare un barlume di luce, fui promotore di difendere la vostra libertà. Poiché se avessi tentato di farlo prima, ora non potrei farlo. Infatti al giorno d'oggi, o Quiriti, affinché non riteniate che sia stata fatta una cosa mediocre, sono state gettate le fondamenta delle azioni future. Infatti Antonio non è ancora stato chiamato con il nome nemico dal senato, ma di fatto è già stato giudicato. Ora in realtà sono molto più sollevato poiché anche voi con così grande consenso e tanto plauso avete ammesso che quello è un nemico. E infatti, o Quiriti, né può essere che o loro, che schierarono l'esercito contro il console, non siano empi, o che non sia nemico quello contro cui sono state schierate a ragione le armi. Quindi questa preoccupazione, benché non esistesse affatto, il senato l'ha tuttavia eliminata, al giorno d'oggi, affinché non ce ne fosse alcuna. Cesare, che ha difeso e difende la repubblica e la vostra libertà con il suo impegno, la sua saggezza e infine con il suo patrimonio, è stato insignito con somme lodi dal senato. Io lodo, lodo voi, Quiriti, perché seguite con grande riconoscenza il nome dell'illustre giovane o meglio del fanciullo: infatti appartengono all'immortalità le sue imprese, il nome dell'età. Ricordo molte cose, ne ho sentite molte, ne ho lette molte, o Quiriti: nulla di simile conobbi dal ricordo di tutti i secoli: colui che, mentre eravamo oppressi dalla servitù, (mentre) il male cresceva nei giorni, non avevamo nessuna difesa, temevamo il capitale e pestifero ritorno di Marco Antonio da Brindisi, prese questa decisione inattesa per tutti, di sicuro impensata, di formare un esercito invitto con i soldati del padre e allontanare dalla rovina dello stato il furore di Antonio, incitato da nefandi propositi.
Infatti chi è che non comprenda questo, che, se Cesare non avesse preparato l'esercito, il ritorno di Antonio non sarebbe avvenuto senza danno? Infatti così faceva ritorno, ardente per il vostro odio, bagnato dal sangue dei cittadini romani che aveva fatto uccidere a Suessa, a Brindisi, affinché non pensasse a nulla se non alla rovina del popolo romano. Inoltre quale difesa della vostra salvezza e salute c'era, se l'esercito di Cesare, dei fortissimi soldati di suo padre, non ci fosse stato? Delle cui lodi ed onori, che a lui sono dovuti divini e immortali grazie a meriti divini e immortali, il senato decretò, assentendo alla mia richiesta, poco prima che si presenti una proposta ad ogni prima occasione. Per il quale decreto, chi non vede che Antonio è stato giudicato nemico? Come infatti possiamo chiamarlo, il senato decide particolari onori da ricercare per coloro che comandano eserciti contro di lui? Che? La legione Marzia, che a me sembra abbia tratto per volere divino, da quel dio, quel nome da cui consideriamo generato il popolo romano, non ha giudicato essa stessa, con le sue deliberazioni, prima del senato, Antonio nemico? Infatti, se quello non è nemico, è necessario che giudichiamo nemici quelli che lasciarono il console. Ottimamente e a proposito, o Quiriti, con il vostro plauso avete acclamato l'azione meravigliosa del Marziali: i quali si sono rivolti all'autorità del senato, alla vostra libertà, a tutto lo stato, lasciarono quel nemico, ladrone, assassino della patria. E non solo fecero ciò con animo e fermezza, ma anche con ponderazione e saggezza: ad Alba si fermarono in una città favorevole, fortificata, vicina, di uomini fortissimi, di cittadini fedelissimi e ottimi. La quarta legione, imitato il valore di quella legione, con il comandante Egnatuleio, che il senato lodò per merito poco prima, ha raggiunto l'esercito di Cesare.
Quali giudizi più gravi aspetti, Marco Antonio? È portato in cielo Cesare, che ha preparato un esercito contro di te. Sono lodate con parole molto degne le legioni che ti abbandonarono, che da te furono richieste, che sarebbero tue se tu avessi preferito essere console che nemico; il coraggioso e verissimo giudizio di queste legioni lo conferma il senato, approva tutto il popolo romano, se per caso voi, Quiriti, giudicherete Antonio console, non nemico. Credevo che voi, Quiriti, giudicaste così come mostraste. E che? Forse pensaste che i municipi, le colonie, le prefetture, giudichino diversamente? Tutti i mortali affermano unanimemente che contro quella calamità si devono prendere tutte le armi di quelli che vogliono salve queste cose. Che? Avete potuto conoscere il giudizio di Bruto dal suo editto odierno, finalmente sembra forse a qualcuno da disprezzare? Giustamente e veramente dite di no, o Quiriti. Infatti alla repubblica è stata concessa quasi per grazia e dono degli dei immortali la stirpe e nome dei Bruti o per ricostruire o per riacquistare la libertà del popolo romano. E che dunque giudicò Bruto di Antonio? Lo tiene lontano dalla provincia, gli si oppone con l'esercito, esorta alla guerra tutta la Gallia sollevatasi essa stessa di sua iniziativa e di sua volontà. Se è console Antonio, è nemico Bruto; se Bruto è conservatore della repubblica, Antonio è nemico. Forse dunque possiamo dubitare quale di queste due cose sia vera?
E come voi con un solo consenso e una sola voce dite di non dubitare, così ora il senato ha stabilito che Bruto ottimamente ha meritato della repubblica difendendo l'autorità del senato, la libertà e la sovranità del popolo romano. Da chi le difende? Certamente dal nemico: quale altra difesa infatti è da lodarsi? Inoltre è lodata dal senato e a buon diritto è ornata con altissimi elogi la provincia della Gallia perché resiste ad Antonio: se quella provincia lo considerasse console e lo accogliesse incorrerebbe in un grande delitto. Tutte le province infatti devono essere sotto la giurisdizione e il comando del console. Questo nega Bruto, comandante supremo, console designato, cittadino nato per la repubblica: lo nega la Gallia, lo nega tutta l'Italia, lo nega il senato, lo negate voi. Chi dunque lo considera console se non i ladroni? Se non che neppure essi stessi sono convinti di ciò che dicono né possono dissentire dal giudizio di tutti i mortali, pur essendo empi e scellerati come sono: ma la speranza di rapinare e di prendere acceca gli animi di quelli che non saziò l'elargizione dei beni, non l'assegnazione dei campi, non quella infinita asta; (di coloro) che si proposero per bottino la città; (di coloro che si proposero) i beni e le fortune dei cittadini; che finché vi sia da rapire e portare via, non ritengono mancherà nulla a loro di questo; ai quali Marco Antonio, o dei immortali, allontanate e scongiurate di grazia questo augurio! promise avrebbe diviso la città. Invero accada così come voi pregate, o Quiriti, e il fio di questa pazzia ricada su lui stesso e la sua famiglia! Ciò confido che avverrà. Già infatti penso che non solo gli uomini ma anche gli dei immortali siano d'accordo per salvare la repubblica. Infatti se gli dei immortali con prodigi e con portenti ci predicono le cose future, sono state pronunciate così apertamente che a quello si avvicina la pena e a noi la libertà; se un così grande consenso di tutti non poté essere senza spinta degli dei: che c'è che della volontà dei celesti possiamo dubitare?
Resta, o Quiriti, che voi perseveriate in codesto proposito che portate avanti a voi. Farò dunque come usano i comandanti dopo aver schierato l'esercito che sebbene vedano i soldati molto preparati al combattere tuttavia li esortano; così io esorterò voi ardenti e sollevati a recuperare la libertà. Voi non avete, o Quiriti, non avete da combattere con un nemico tale col quale si possa stabilire una certa condizione di pace: infatti quello non desidera, come prima, la vostra servitù, ma ora, irato, il sangue. Nessuno spettacolo gli sembra essere più piacevole quanto il sangue, quanto la strage, quanto l'eccidio dei cittadini davanti agli occhi. Voi non avete a che fare, Quiriti, con un uomo scellerato e crudele, ma con una grande e orribile belva che, giacché è caduta in una fossa, deve essere sepolta. Se infatti uscirà di lì non potremo evitare la crudeltà di nessun supplizio. Ma ora è preso, è stretto, è pressato con quelle milizie che già abbiamo e fra poco da quelle che i nuovi consoli allestiranno fra pochi giorni. Gettatevi nell'impresa come fate, o Quiriti. Mai fu maggiore il vostro consenso in alcuna causa, mai foste tanto ardentemente uniti col senato. Né è strano: si tratta infatti non in quale condizione potremo vivere ma se potremo vivere o dovremo morire tra supplizi e vergogna. Sebbene la natura abbia destinato per tutti la morte, la virtù, che è propria della stirpe e della generazione romana, è solita respingere la crudeltà e il disonore della morte. Conservate di grazia questa virtù, Quiriti, che i vostri antenati vi hanno lasciato in eredità. Tutte le altre cose sono false, incerte, caduche, instabili: la virtù soltanto è fissa con radici saldissime; la quale mai può essere scossa con alcuna forza, mai essere smossa dal posto. Con questa virtù i vostri antenati prima vinsero tutta l'Italia, poi abbatterono Cartagine, distrussero Numanzia, ridussero sotto il potere di questo impero re molto potenti, genti molto bellicose.
Invero i vostri antenati, o Quiriti, avevano a che fare con un nemico tale che possedeva una repubblica, un senato, un erario, il consenso e la concordia dei cittadini, qualche possibilità, se così avessero deciso gli eventi, di pace e d'alleanza. Questo vostro nemico combatte la vostra repubblica, egli stesso non ne ha nessuna: si affretta a distruggere il senato, cioè il consiglio di tutto il mondo, egli stesso non ha nessun pubblico consiglio: vuotò il vostro erario, non ne ha uno proprio. Infatti come può avere la concordia dei cittadini quando non ha nessuna città? Invero quale garanzia di pace può esservi con uno nel quale vi è crudeltà incredibile, nessuna lealtà? Dunque al popolo romano, o Quiriti, vincitore di tutte le genti, è ogni contesa con un sicario, con un ladrone, con uno Spartaco. Infatti poiché è solito vantarsi di essere simile a Catilina, a quello è pari nel delitto, inferiore nell'attività. Quello non avendo ricevuto nessun esercito, allestì (uno); questi perdette quell'esercito che aveva ricevuto. Come dunque con la mia diligenza, con l'autorità del senato, con il vostro amore e virtù abbatteste Catilina, così udrete in breve tempo che il triste brigantaggio di Antonio sarà represso per la vostra concordia con il senato, così grande quanta mai fu, per la fortuna e il valore degli eserciti e dei vostri capi. Invero, per quanto potrò sforzarmi e concludere con l'impegno, con il lavoro, con l'attività, con l'autorità, con il consiglio, non tralascerò nulla che riterrò interessare alla libertà vostra. Né potrei infatti fare ciò senza delitto per i vostri grandissimi benefici verso di me. Tuttavia, nel giorno d'oggi, per la prima volta dopo un lungo tempo, per la proposta di Servilio, qui, uomo molto coraggioso, e a voi molto amico, e dei suoi colleghi, uomini molto ragguardevoli e ottimi cittadini, essendo io capo e organizzatore, ci siamo infiammati alla speranza della libertà.
Dunque è doveroso che gli dei,essendo
dei,(se almeno esistono,come certamente esistono)siano animati e che non siano
solo animati ma anche forniti di raziocinio e che siano uniti tra loro da una
concordia quasi sociale e che governino un unico mondo come un comune Stato e
una città.
Ne consegue che in questi vi sia lo stesso modo di pensare che è nella razza
umana,che vi siano in entrambe le parti la medesima verità e la medesima
legge,che è insegnamento di rettitudine e allontanamento della perversione.Da
quello si capisce che anche la prudenza e l'intelligenza sono giunte agli
uomini dagli dei(e per questo motivo fuono consacrate
e dedicate pubblicamente alle norme degli antichi Mente,Fedeltà,Virtù e
Concordia;chi è d'accordo nel negare che quelle cose siano nelle mani degli
dei,pur venerando le loro statue e le sacre immagini?E se nel genere umano sono
presenti l'intelligenza,la fedeltà,la virtù e la concordia,queste cose,da dove
sarebbero potute venir giù sulla terra se non dagli dei superi?),e pochè in noi ci sono saggezza,raziocinio e prudenza,è
doveroso che gli dei abbiano queste stesse abitudino
in sommo grado, e che non solo le abbiano ma le utilizzino anche negli affari
più buoni ed importanti.
Dal momento che esistono due categorie di astri, delle quali la prima non cambia mai il proprio corso nello spazio immutabile dalla nascita al tramonto, non andando mai incontro ad alcuno spostamento, la seconda invece compie due continue rivoluzioni lungo medesimi spazi e percorsi, e sia dall'una cosa che dall'altra si sono apprese sia la rotazione terrestre, che non potrebbe esserci se non per via di una forma sferica, sia le orbite delle stelle. E per il primo il Sole, protagonista principale fra le stelle (letteral: che detiene il ruolo di protagonista principale fra le stelle), si muove in modo tale che, dopo aver riempito la terra di diffusa luca, ombreggi le stesse ora da questa parte ora da quell'altra; infatti la stessa ombra della Terra, intercettando la luce del Sole, produce la notte. C'è tuttavia la stessa distribuzione di ore notturne e diurne. E tanto il modesto avvicinamento quanto l'allontanamento dello stesso Sole combinano in giusta misura un clima di freddo e di caldo. Infatti l'orbita del Sole maggiorata della quarta parte di un giorno insieme determinano la durata di un anno pari a circa 365 giorni. Ma il Sole, flettendo il corso ora a Nord ora a Sud genera l'Estate, l'Inverno, e quei due periodi dei quali il primo è connesso all'Inverno che sta finendo, il secondo all'Estate: così da quattro cambiamenti si evincono le origini e le cause di tutte le stagioni, che sono generati dalla terra e dal mare.
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