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L'approccio riflessivo a supporto della genitorialità: presupposti teorici e metodologici




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L'approccio riflessivo a supporto della genitorialità: presupposti teorici e metodologici 1
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L'approccio riflessivo a supporto della genitorialità: presupposti teorici e metodologici










1 Una formazione "significativa"




Secondo Valenziano (2008) la "ricerca educativa qualitativa" si è via via affermata nell'attuale panorama pedagogico in quanto sempre più capace di rendere conto delle condizioni in cui si realizza il rapporto educativo, pur tenendo in considerazione le caratteristiche della soggettività. In aggiunta, la ricerca educativa può oggi godere delle spinte motivazionali che giungono da una rinnovata concezione di formazione, vista non più come trasferimento di conoscenze e di abilità da parte di esperti o neofiti bensì come processo in continuo divenire entro cui l'individuo potrà fruire di opportunità e di risorse, avendo ben chiari i vincoli costituenti la condizione iniziale per il suo potenziale apprendimento.

Si parla di "esperienza formativa significativa" quando l'individuo viene messo nella condizione di costruire il proprio sapere non solo dal punto di vista intellettuale e cognitivo, incrementando egli le strategie di elaborazione del reale, ma anche dal punto di vista culturale, grazie alle possibilità di scoperta, di negoziazione e di attribuzione di significato alle esperienze. Un'esperienza formativa risulta dunque significativa quando l'individuo apprende non attraverso un mero travaso dall'esterno di dati e informazioni, per quanto opportunamente immagazzinati, bensì attraverso un processo di problematizzazione delle esperienze e dei vissuti, riuscendo ad attribuire ad essi un nuovo significato, così come nella prospettiva bruneriana (Bruner, 1990, op. or.). D'altra parte, anche la prospettiva fenomenologica ben contribuisce a notificare la significatività di un'esperienza formativa allorché, spostando l'attenzione dal mondo reale all'attribuzione di significato e, quindi, alla sua costruzione, mette in discussione il rapporto "naturale" con l'ambiente, facendo intuire che l'aspirazione di oggettività degli obiettivi, dei

significati, dei saperi altro non è che un processo di costruzione sociale (Bertolini,

1988; Margiotta 2011a). In questo senso, ogni situazione che porta a riflettere sull'attribuzione di senso agli accadimenti, capace di indurre una riattribuzione di significato, può definirsi come "educazione significativa", e quindi come "formativa" in quanto consente all'individuo di riorientarsi a nuovi orientamenti di prospettiva, accantonando saperi consolidati ma spesso obsoleti, cristallizzati, inefficaci. Un cambiamento diventa dunque significativo per l'individuo "quando l'azione formativa avvia un processo di rielaborazione e di interpretazione del cambiamento, in grado di promuoverlo e, in alcune situazioni, di "legittimarlo", permettendo al soggetto di mettere in discussione repertori cognitivi, emotivi e relazionali fin troppo noti e sedimentati, di sperimentare una diversa rappresentazione di se stesso e di mobilitare risorse e capacità non pensate. Si tratta di un processo formativo che agisce sull'ampliamento e il potenziamento delle capacità riflessive, auto-conoscitive e meta-cognitive e sulle modalità di significazione attivate (Valenziano, 2008, pag. 84).


I significati che l'individuo attribuisce alle proprie esperienze infantili hanno un profondo impatto sul suo modo di essere genitore; indubbiamente, entrare nelle proprie storie di vita, migliorare la conoscenza e la comprensione di se stessi e della propria storia consente di costruire una relazione più efficace e soddisfacente con i figli. Non pochi sono gli interrogativi che un genitore sensibile, motivato ad evolvere, si pone (Mariani, 2007): quali sono i significati del diventare genitore e del vivere la genitorialità? Esiste un sapere genitoriale di cui, come madri e padri, ci si sente portatori? Esiste un passato personale e familiare che influenza il rapporto con i propri figli? I genitori sono consapevoli del fatto che la loro storia personale e familiare incide nella relazione educativa coi loro figli? Le modalità educative che i genitori adottano coi propri figli sono le stesse che hanno adottato i loro genitori nei loro riguardi?

Da parte loro, nel lavoro educativo coi genitori anche gli operatori si pongono

analoghe domande: "Come, dove, con chi e da chi si impara a diventare, a fare, ad essere genitore? Quali saperi ed apprendimenti entrano in gioco? Quali conoscenze sono utili e come si connettono con la storia personale e con la narrativa familiare? che li portano da un lato a vedere il genitore quale massimo esperto della relazione col proprio bambino e, in quanto tale, lo riconoscono, lo supportano, lo accompagnano, lo formano, mentre dall'altro lato a considerare la relazione genitoriale come una trama educativa dove, attraverso condotte ricorsive, flessibili, strategiche, il genitore interrela quotidianamente la storia del singolo con la storia, la cultura, la memoria della comunità familiare (Gaudio, 2010, pag. 90).

Attivare un percorso non formale di formazione a supporto della genitorialità ad impostazione educativa, comporta perciò intraprendere un percorso capace di coinvolge il piano personale - ed anche esistenziale - dove l'intento non può essere quello di in-formare/plasmare le persone ("ti dico come si fa") ma di coadiuvare la loro autonoma tras-formazione attraverso esperienze apprenditive comunitarie riguardanti la propria vita, la vita delle loro famiglie, la realtà sociale e culturale di appartenenza.




2 Sfondo teorico ed ipotesi alla base del progetto formativo dedicato ai genitori




Lo sfondo concettuale entro cui si colloca la nostra proposta formativa - che in realtà è un progetto pilota per l'apprendimento degli adulti - convoglia più modelli, sostanzialmente afferenti alle prospettive teoriche di cui abbiamo riferito nel secondo capitolo e che abbiamo privilegiato per analizzare quel particolare rapporto intersoggettivo declinabile nei termini di "relazione educativa"; esse offrono infatti adeguate congiunte possibilità di lettura e di interpretazione dei processi attraverso cui si costruisce l'identità genitoriale. Dette prospettive teoriche delineano i seguenti costrutti:

il costrutto personalistico, derivato dalla visione umanistica di Maritain, che pone la persona al centro dell'atto educativo per valorizzarlo nella sua integralità antropologica ed integrazione assiologia, nella convinzione che ogni briciola di sapere può essere sempre generata o rigenerata solamente a partire dalle necessità individuali di autentica estrinsecazione del Sé, riconoscendo in questo modo l'onnipresenza delle possibilità di apprendimento e rinunciando, nel contempo, all'obsoleta prassi di trasmettere conoscenze precostituite;

. il costrutto di apprendistato e pratica, che dalla teoria sociale

dell'apprendimento sviluppata da Vygotskij a Bruner giunge al concetto di apprendimento situato così come elaborato da Lave e Wenger (2006), consentendo di esplicitare l'apprendimento come una forma di partecipazione a pratiche esperte (cfr. Wenger, 2006), prendendo parte ad una comunità: "un fare in contesti storici e sociali che danno struttura e significato a ciò che facciamo" (Lave e Wenger, 2006, pag. 47);

il costrutto di apprendimento trasformativo, che Mezirow (1991) ha elaborato a

partire dalle tesi di Bruner (1988) sulla funzione della cultura come "forum primario" di negoziazione interpersonale del significato, del senso e dell'indirizzamento delle azioni, secondo cui l'adulto, per costruire la propria identità professionale, abbisogna di decostruire e di ricostruire i saperi - attraverso un approccio riflessivo alla conoscenza di sé e del mondo, non sempre funzionali al contesto né privi di distorsioni;

il costrutto di riflessività, certamente tematizzato da Mezirow ma in particolare

così come derivabile dalle analisi (a) della Stein (1999), che riconosce come ogni azione possa essere fruttuosa solo se si accompagna alla determinazione della persona nell'adoperarsi per realizzare i propri valori, (b) della Mortari (2003), per la quale l'individuo apprende dall'esperienza e acquista coscienza di sé e del mondo quando si dedica a riflettere su ciò che accade per cercarne il significato, (c) di Margiotta (2011b) che, a partire dalle riflessioni di Dewey, ribadisce la significatività pedagogica del nesso tra pensiero riflessivo e processi formativi;

il costrutto enattivo, riconducibile in primis a Maurice Merleau-Ponty (1945) ma

ripreso da Varela, secondo cui la conoscenza viene acquisita per tramite dell'azione. Dunque non più cognizione come rappresentazione - cioè manipolazione astratta di simboli realizzata da una mente scissa dal corpo - bensì cognizione come azione nell'ambiente e sull'ambiente (embodied cognition) generativa - cioè enattiva - di trasformazione e di una contestuale co-evoluzione del sistema individuo-ambiente. Secondo questa visione il sistema apprende mentre si trasforma attraverso l'azione (che è corporea) e conosce perché si trasforma; nel contempo, si trasforma perché conosce. La lezione che si ricava è che "la dimensione evolutiva della embodied cognition porta a dire che come non esiste una mente che governa il corpo ma entrambi - corpo e mente - dialogano per produrre costantemente uno spostamento in avanti degli orizzonti e per allargare i mondi di esperienza (ed è questo che fa la coscienza), altrettanto diventa decisivo per l'educazione configurarsi in questi termini. In accordo con Margiotta (2013) ciò vuol significare che non c'è relazione educativa se non c'è autoformazione.


La figura 1, mutuata dal modello di figura 2.3 di cui al §2.3, vuole rappresentare detto sfondo concettuale entro cui ha trovato ragione la nostra proposta formativa di supporto a una genitorialità riflessiva, e alla quale sottendono tre ipotesi:

a) innanzitutto, i numerosi significati connessi alla genitorialialità non possono

prescindere né dalla comprensione dei bisogni primari dell'uomo e dei comportamenti più consoni alla loro soddisfazione né dalla conoscenza dei principali aspetti dello sviluppo, delle capacità di relazione e di adattamento dell'individuo al proprio ambiente (Brazelton e Greenspan, 2001);

b) in secondo luogo, se la genitorialità è la qualità dinamica, in costante evoluzione, dei molteplici momenti di dialogo educativo dell'adulto col bambino, allora funzione genitoriale e relazione educativa vanno ritenute le due dimensioni fondanti il rapporto adulto-bambino, laddove tale rapporto si realizza in una reciprocità dove solo la consapevolezza e la capacità di autoriflessione del primo costituiscono la misura dell'evoluzione del secondo (Bastianoni e Fruggeri, 2005);

c) infine, e in accordo con Fabbri (2008, pp. 45-46), se il "mestiere di genitore" viene imparato attraverso l'esperienza, a partire da quella dell'essere figli sino agli apprendimenti per la partecipazione a pratiche sociali, riteniamo che attraverso percorsi culturali informali adottanti un approccio riflessivo, i genitori possano essere efficacemente accompagnati ed aiutati a transitare da una condizione di genitore principiante o preriflessivo (facente cioè riferimento a saperi impliciti e inconsapevoli) ad una condizione di genitore competente o riflessivo (facente cioè riferimento a saperi espliciti ed autentici).


Figura 1 - Sfondo concettuale entro cui sui colloca la nostra proposta formativa a supporto della prima genitorialità, come mutuato dal modello di analisi della enattività della relazione educativa di cui alla figura 2.3.




Siamo d'altra parte convinti che l'adozione di un approccio riflessivo consenta di rendere i genitori attivi costruttori delle proprie conoscenze e competenze oltre che critici consapevoli delle proprie prassi, "dando modo di rendere espliciti e trasparenti - all'interno dei contesti familiari - le implicazioni ed i presupposti ideologici e culturali sottesi ad azioni, rapporti, eventi e ne consente continue analisi, rivisitazioni, negoziazioni" (Fabbri, 2008, pag. 50).




3 Presupposti metodologici



I presupposti metodologici sulla base dei quali è stato progettato il percorso formativo dedicato alla prima genitorialità - presentato nel prossimo capitolo - trovano numerose affinità con gli assunti teorici e metodologici prospettati da Mignosi (2012, pp. 38-43) e riguardanti le accortezze di seguito descritte.

Adozione di un setting gruppale e l'uso del gruppo come risorsa formativa


I partecipanti ad esperienze formative gruppali non professionali vanno a costituire un "gruppo di formazione", ovvero un particolare gruppo di lavoro che si costituisce in virtù dell'interesse e della motivazione ad apprendere degli aderenti. Un gruppo di formazione si snoda nell'ambito di un setting spazio-temporale definito a priori ed ha come finalità ultima quella poter accedere a rinnovate o a nuove conoscenze, competenze e capacità relazionali. Se contenuti e metodologia sono dichiarati sin dall'inizio non è possibile enunciare a priori il processo, che man mano sarà determinato dalle dinamiche intersoggettive e dagli esiti delle interrelazioni tra i partecipanti. Rispetto ad altri gruppi di apprendimento formale, i gruppi di formazione si connotano per una specificità riguardante il fatto che il percorso apprenditivo/evolutivo che li coinvolge "non consiste nella trasformazione di risorse umane e materiali in un prodotto o in un servizio bensì nella trasformazione di una risorsa particolare: se stessi" (Muti, 1986, pag. 117).

In questo senso, il gruppo è stato utilizzato come dispositivo formativo

fondamentale in quanto consente da un lato di affrontare problemi e difficoltà del singolo in un clima empatico di condivisione collegiale oltre che un confronto su questioni di interesse comune e dall'altro di vagliare e considerare prospettive risolutorie molto efficaci e assai diverse rispetto a quelle elaborabili dal proprio abituale unico punto di vista. In altre parole, attraverso il confronto attivo e l'interazione di sguardi multipli un gruppo di formazione consente di affrontare con successo numerosi e contingenti problemi, di riconoscere e di rispettare l'altro da sé, di constatare quanto la diversità sia un'opportunità e non un ostacolo per la crescita personale. In qualche modo, in un gruppo di formazione prende forma una "mente comune", ove ciascuno può accrescere i propri saperi ed affrontare pragmaticamente situazioni problematiche con soluzioni nuove, arricchite, inedite, in una condivisione collegiale che non ha natura solamente cognitiva ma anche emotivo-affettiva. I gruppi di formazione comportano numerose potenzialità sia dal punto di vista delle opportunità che dei rischi ed è questo uno dei motivi basilari per cui il lavoro formativo gruppale richiede, da parte dell'operatore, solide e specifiche conoscenze e competenze relativamente alla conduzione e alla gestione de gruppo (Bion, 1971). Infatti, l'intreccio comunicativo, sovente complesso ma sempre significativo dal punto di vista relazionale, consente di creare un "legame intersoggettivo" che può sia sostenere che bloccare l'evoluzione apprenditiva del gruppo - oltre che del singolo - in virtù della natura dei vissuti esperiti comunitariamente e della capacità di far prevalere la razionalità sull'emotività in vista dell'attribuzione del "giusto senso" (Bion, 1972).



Impiego della narrazione e delle tecniche autobiografiche




Nella formazione con i genitori, laddove l'obiettivo non sia tanto quello di informarli quanto di coadiuvarli nell'interpretazione del loro ruolo, nella comprensione dei loro non sempre fecondi atti routinari, nel potenziamento delle loro conoscenze e competenze in quanto educatori, l'approccio narrativo risulta non solo del tutto adeguato ma fondamentale. In aggiunta, è tanto più efficace quanto più pone il genitore protagonista della narrazione al centro di una dimensione storico- esperienziale di natura intergenerazionale, così che egli possa confrontare e riflettere su propri aspetti identitari in quanto figlio e in quanto genitore, garantito e supportato da un rimando testimoniale del gruppo, avente funzione di rispecchiamento. Merita riferire, a questo proposito, le riflessioni di Bruner (1992, pag. 16) secondo cui chi ascolta una storia di vita o un racconto autobiografico èinteressato non tanto all'attendibilità della narrazione bensì a quello che l'individuo ritiene o crede di aver compiuto, alle motivazioni addotte per giustificare le sue azioni, al contesto o alle condizioni in cui pensava di trovarsi e così via.

Le narrazioni autobiografiche, come anche i pezzetti di "storia di vita" (Demetrio,

2000), ben dunque si prestano nel supportare azioni formative attive e informali dedicate ai genitori, poiché consentono una presa di distanza da se stessi e favoriscono un'introspezione riflessiva attraverso una rivisitazione - e forse anche una ricostruzione - delle proprie esperienze e dei connessi vissuti. Il percorso introspettivo attraverso la narrazione di sé consente all'individuo di scoprire e di integrare i "nuclei di senso" (Demetrio, 2006) più veritieri delle proprie esperienze. Rispetto a tale processo di autoconsapevolezza. È come se i tasselli di un puzzle si accorpassero improvvisamente incuranti della dimensione cronologica, per offrirsi alla comprensione dell'individuo nella globalità e nella temporalità dell'adesso, così che singole circostanze di vita possono farsi all'istante narrabili grazie alla demolizione di ancestrali - sovente dolorose - cristallizzazioni che si oppongono o impediscono il cambiamento (Demetrio, 1996, pag. 89). Spiega Mignosi (2012, pag.

41) che ". in un percorso di formazione in gruppo l'esperienza vissuta, sia sul piano intrapsichico che sul piano intersoggettivo attraverso la condivisone delle storie di ciascuno e la riflessione di gruppo, entra a far parte integrante delle persone e della loro visione del mondo, coinvolgendo sia il livello esplicito (contenuti consapevolmente portati in risposta a domande/sollecitazioni) sia il livello «tacito» (contenuti attribuiti a se stessi, scelte linguistiche, punteggiatura degli eventi).". Ciò a sottolineare che "attraverso esperienze significative e la costruzione sociale di nuovi significati cambia il modo di vedersi e sentirsi" (ibidem), nonostante il cambiamento strutturale del sé non sia né facile né immediato, richiedendo tale processo livelli assai profondi di comprensione. In ogni caso, un gruppo di formazione offre a ciascun partecipante un'occasione unica per intraprendere un percorso di empowerment personale, dove la moltiplicazione delle visioni e delle interpretazioni, la comprensione e l'incoraggiamento della comunità, congiunti a pensieri non banali né superficiali ma riflessivi, sollecitano l'autostima, favoriscono il riconoscimento di sé, incrementano il senso della propria efficacia, consentendo di percepire quanto ognuno sia artefice del proprio destino e quanta forza si possieda per modificare da sé quelle situazioni critiche entro cui sta stagnando.



Utilizzo dei linguaggi informali e creativi e di tecniche ludiche per creare spazi transizionali

L'uso della narrazione e delle pratiche autobiografiche quali strumenti attraverso cui riflettere ed acquisire consapevolezza su prassi, esperienze, vissuti, relazioni,

favorisce la creazione di quello che Winnicott (1974) chiama "spazio transizionale"

entro cui si trova sempre un aiuto per contattare ed esprimere i propri sentimenti, per trasformarli, generando così nuove conoscenze. Affinché un genitore possa raccontarsi ed esprimersi è ovviamente necessario che lo spazio proposto sia di qualità, come ad esempio quello che viene co-costruito quando le persone conversano alla pari, vivono momenti informali, giocano insieme, condividono una lettura assimilandola a patrimonio personale nel proprio spazio di crescita, oppure si raccontano attraverso linguaggi diversi come la scrittura, le attività simboliche, artistiche, espressive, tutto ciò consentendo di far nascere una reciproca fiducia, una disponibilità comune a correre rischi, a mettersi in gioco collettivamente perché il problema o la capacità del singolo diviene problema o capacità di tutti. Tali acquisizioni vengono certamente favorite dalla conversazione con se stessi e con gli altri e proprio per questo si rivela particolarmente opportuno il lavoro nel piccolo gruppo, dove il confronto interattivo stimola l'impegno introspettivo. In questo modo il genitore ha la possibilità di comprendere meglio quanto ha appreso dagli altri o quanto deriva dalla sua formazione, e quanto ha elaborato sulla base della interazione con il partner e con i propri figli.

In questo senso appare del tutto indicata la tecnica di conduzione di gruppo del role-playing, così denominata da Moreno negli anni Cinquanta (Moreno, 1953): a partire dalle narrazioni di spaccati di vita o dai racconti autobiografici dei partecipanti - ma anche su input del formatore - i gruppi di formazione permettono di simulare una situazione o un evento attraverso la sua messa in scena, il cui obiettivo è quello di aiutare la persona - o un insieme di persone - ad immedesimarsi in un dato ruolo e ad agire i connessi comportamenti: il fine ultimo è di riuscire ad affrontare analoghe situazioni di vita reale in maniera più serena e distaccata. Nei gruppi di formazione genitoriale l'aspetto ludico del role-playing consente ai genitori di inscenare circostanze di vita parentale effettive o immaginarie anche su aspetti assai problematici, la cui rivisitazione a posteriori, attraverso la riflessività ed il rimando del gruppo (solitamente scevro da giudizi negativi tout court), porta a vedere la situazione considerata in maniera diversa ma, soprattutto, ad una nuova comprensione - sovente inattesa - dei propri impasse relazionali, comunicativi, affettivi, emotivi. Grazie a paralleli processi di immedesimazione e di distanziamento, il gioco di ruolo permette all'individuo che inscena una data situazione - ma anche agli osservatori per i medesimi processi proiettivi - di elaborare pensieri, esperire sensazioni ed emozioni contestuali e di estrinsecare comportamenti nel qui ed ora in maniera libera, in quanto protetti entro un contesto simbolico, in un assetto formativo di per sé realistico ma non reale e, per questo, vissuto dalla persona come meno spaventevole.




4 La metodologia narrativa e fenomenologica alla base dell'approccio riflessivo




L'approccio metodologico che riteniamo maggiormente appropriato dato lo sfondo epistemologico prospettato, afferisce al paradigma fenomenologico ermeneutico che, a differenza di quello neopositivista, non mira alla definizione di leggi generalizzabili ma cerca piuttosto di studiare in profondità i dati, gli elementi, le conoscenze acquisite attraverso vari strumenti di ricerca, rinunciando ad una

descrizione e ad una spiegazione oggettiva dei fatti a favore di un'ermeneutica, ovvero di un'interpretazione e di una comprensione dei significati che una data situazione o contesto o interazione può assumere per i soggetti interessati (cfr. Mantovani, 1998; Baldacci, 2001).

Nella consapevolezza dei limiti del metodo fenomenologico-ermeneutico, tra cui:


(a) il rischio della soggettività del ricercatore, che si connota a variabile vincolante da tenere sotto debito controllo,

(b) il rischio della casualità e dell'estemporaneità dei dati raccolti, (c) la non generalizzabilità delle conoscenze acquisite,

ai fini della sperimentazione di cui nel prossimo capitolo forniremo il resoconto

abbiamo scelto di utilizzare una blanda mistura tra la metodologia narrativa - mutuando soprattutto la prospettiva elaborata da Demetrio (1996, 2000) - e il metodo proposto da Mortari (2007, pp. 193-202) consistente in un meticciamento tra grounded theory e metodo fenomenologico.

Nel presente lavoro la metodologia narrativa ha supportato la parte esecutiva della sperimentazione   mentre il metodo fenomenologico ha guidato l'analisi del materiale raccolto nel corso della stessa.



4.1 La metodologia narrativa a supporto della formazione



Il pensiero narrativo nella concezione bruneriana



Partendo dall'assunto di Dewey (1967) secondo cui è la modalità narrativa del pensiero a permetterci di riflettere sull'esperienza, Bruner (1988, 1992) ha ampiamente documentato che le esperienze assumono la forma delle narrazioni utilizzate per descriverle, evidenziando altresì che il significato personale - e quindi la realtà personale - viene costruita nel corso della concettualizzazione e della espressione narrativa, che così connota il modo utilizzato dall'uomo per interpretare ed attribuire senso alle proprie esperienze. Nella concezione dell'autore, il pensiero narrativo, che si dipana attraverso le azioni, le intenzioni, i vissuti che disegnano la vita delle persone, è quello che fa uso delle "fabule" e che si occupa degli intenti e delle finalità degli individui: "la narrativa si occupa delle vicissitudini delle intenzioni umane", egli afferma (Bruner 1988, pag. 21) e, quindi, delle loro azioni. Tale modalità cognitiva si dispiega sulla creazione di possibilità e invece di rivolgersi all'astratto e al generale - come il pensiero paradigmatico - è tesa al particolare, ovvero all'interpretazione piuttosto che alla deduzione o all'induzione e a ciò che può essere anche impalpabilmente intuito e, quindi, anche esaltato con congetture, credibili seppur non necessariamente veritiere. Inoltre, non essendo sottoposto a verifica rispetto ai criteri di veridicità o falsità, il pensiero narrativo autorizza la creatività, l'immaginazione, l'invenzione. Non considerando rilevante la corrispondenza al vero dei fatti narrati ma piuttosto l'essenza degli stessi, in quanto rappresentazione soggettiva e condivisa di una certa realtà, il pensiero narrativo consente una pluralità di rappresentazioni del mondo e, in particolare, ne garantisce la permanenza nel tempo. L'assunto di Bruner è che la narrazione risponderebbe al bisogno di ricostruire la realtà assegnando ad essa un significato specifico a livello tanto temporale (storico) che culturale (contestuale). Anche se la narrazione caratterizza il pensiero sulle situazioni umane nel loro contesto sociale e culturale e il pensiero paradigmatico connota invece una modalità cognitiva decontestualizzata, le due tipologie di pensiero non sono mai completamente separate ma anzi, il pensiero narrativo - che è alla base del linguaggio naturale - costituisce la principale modalità attraverso cui l'individuo organizza la propria conoscenza del mondo e di se stesso. In questo modo, la narrazione diventa anche uno strumento di interazione sociale e di negoziazione di significati, attorno a cui prendono forma visioni del mondo condivise e istituzionalizzate. A tutti i livelli, la conoscenza umana si fonda dunque sulla modalità narrativa del pensiero, poiché proprio questa consente all'uomo di comprendere e di interpretare - vale a dire di dare un senso - alla realtà esperita, per cui la narrazione concorrerebbe alla generazione di saperi e, quindi, di cultura.



Pratiche narrative ed autobiografiche



Le indagini e le ricerche impostate sull'uso di elementi narrativi sono oramai numerose e rilevanti sono stati gli apporti in termini di modelli e visioni prospettiche. Pulvirenti (2008, pag. 12), a questo proposito, afferma che "non a caso, tra le strategie di ricerca, l'intervista narrativa - già presente nella letteratura internazionale da molti anni - si sta diffondendo sempre più in quanto offre al ricercatore un elevato potenziale di accesso all'oggetto della sua ricerca, ovvero consente di «avvicinarsi» al mondo cognitivo dei suoi interlocutori, di riconoscerne le rappresentazioni della realtà, di portare avanti le istanze di cambiamento che la ricerca genera, in quanto momento di esplicitazione e dunque di trasformazione delle rappresentazioni della realtà". L'importanza del raccontarsi è infatti connessa alla possibilità di "scoperchiare" significati intimi della nostra vita, ripercorrere le proprie esperienze e i propri vissuti. Narrare di sé è dunque un "ri-membrare, ovvero un «ricostruire il corpo» della propria esperienza che il rincorrersi delle azioni e situazioni aveva «smembrato», rendendolo irriconoscibile persino a noi stessi" (ibidem). Per questo motivo si può affermare che i racconti personali hanno la funzione di potenziare le possibilità e le capacità degli individui di valorizzare proprie abilità, di individuare risorse aggiuntive in se stessi, nel proprio gruppo, nel proprio ambiente sociale, di auto-organizzarsi e, in sostanza, di attivare se stessi quali artefici della propria vita. Da qui si evince che la narrazione autobiografica ha una potente funzione di empowerment, di cui viene riconosciuto il valore da psicologi (in quanto favorisce l'analisi e la comprensione della personalità), da antropologi (in quanto consente un'approfondita comparazione tra somiglianze e diversità culturali), da sociologi (che ne hanno facilitata l'individuazione di interrelazioni gruppali), da storici (che dai racconti di vita traggono fondamentali elementi per una conoscenza approfondita della storia locale), da pedagogisti (in quanto mezzo innovativo a supporto dei processi di insegnamento-apprendimento in ogni contesto formativo), anche perché facilita l'alternanza del lavoro dal livello individuale a quello collettivo (cfr. Argyris e Schon, 1998). Perciò, l'atto narrativo/rievocativo e la comunicazione attraverso il racconto connotano, nell'attuale condizione umana, un dispositivo di studio e di analisi sempre più utilizzato per promuovere l'apprendimento - del singolo e del gruppo - a partire dalle esperienze e dalle pratiche di vita quotidiana. Il racconto personale, infatti, va a definire una sorta di "struttura formale" dell'individuo che in qualche modo rende conto di quegli universi inerenti cognizioni e sentiti emotivi ed affettivi del tutto interiori, del tutto intimi, che si fanno così esplicita e pubblica sostanza biografica. Le tecniche autobiografiche centrano l'attenzione sulla soggettività e sulla singolarità dei vissuti individuali, consentendo alla persona di ripercorrere e rivisitare i propri percorsi esperienziali ed apprenditivi. Grazie alla narrazione l'espressione di un pensiero interno diventa espressione di sé (auto-biografia), andando a coinvolgere specificamente quei processi cognitivi, quelle dinamiche affettive, quei pattern emotivi, quei modelli valoriali che costituiscono - in una dimensione storica - il patrimonio più autentico della persona. In altre parole, la narrazione consente all'individuo di rivelarsi a se stesso, di interpellarsi e di attribuire un nuovo significato - e finalmente di trovare un senso - anche ai più arcaici sedimenti della propria intimità esistenziale. Le metodologie narrative - ed in specie quelle autobiografiche - ad ogni età e in qualsivoglia condizione incoraggiano quella che Spaltro (2004) definì la "bella formazione", con ciò indicando una tipologia formativa capace di proporre e di realizzare nuove modalità di pensiero e di condotta aventi, come fine primario, la produzione di benessere e ricchezza, di evoluzione e sviluppo per tutti. Si può perciò affermare che nell'ambito di un assetto formativo distante dai paradigmi tradizionali della conoscenza, intesa come qualcosa che alcuni possiedono e altri no e che i primi possono versare nelle menti dei secondi (vedi la metafora dell'imbuto di Norimberga), l'approccio narrativo connota gli aspetti fondamentali di una formazione ego-centrata ("io") la quale, coniugando l'essenza individuale con le sue capacità e competenze, "aiuta le persone a svelarsi, a vedersi, a pensare e pensarsi, a restare nella memoria, in quella propria e in quella altrui (Demetrio, 1998), divenendo così generativa - ovverosia enattiva - di nuove conoscenze, di nuovi saperi.



4.2 La metodologia fenomenologica a supporto dell'analisi narrativa



 Principi fondamentali della metodologia fenomenologica



La metodologia fenomenologica rientra tra i metodi che caratterizzano la cultura ecologica della ricerca e risulta assai proficua per la ricerca pedagogica, dal momento che consente di studiare i fenomeni dell'esperienza umana attingendo a tecniche e a processi di analisi e di concettualizzazione qualitativa capaci di rendere accessibili dati altrimenti non direttamente sottoponibili a procedure di sperimentazione e quantificazione tipiche del paradigma positivistico. Il metodo fenomenologico, infatti, prescrive che per formulare un ragionamento fondato su basi scientifiche è necessario accedere alle cose stesse, ovvero alle cose così come accadono, evitando l'influenza e l'interferenza di teorie precostituite e di preconcetti o pregiudizi (Mortari, 2010, pag. 144). La particolare metodologia di ricerca - in ispecie se applicata secondo i dettami dell'approccio ermeneutico piuttosto che eidetico

- invitando ad iniziare ogni


processo di conoscenza "dal basso", cioè dai dati rilevabili e disponibili, dal punto di vista pragmatico ed operativo conduce ad un lavoro di descrizione e di analisi delle esperienze, sulla cui base risulta poi possibile coglierne le caratteristiche sostanziali. La caratteristica fondamentale del metodo fenomenologico giace dunque nell'atto descrittivo, che è un'operazione cognitiva coinvolgente tanto i soggetti partecipanti che i ricercatori, che si ritrovano i primi implicati in un processo di descrizione delle esperienze vissute ed i secondi impegnati in reiterati resoconti riguardanti non solo i dati raccolti ma anche le procedure che hanno condotto alla loro definizione. A livello operativo, l'oggetto d'indagine della metodologia fenomenologica è dunque "costituito dal significato dell'esperienza vissuta così come è percepita dai partecipanti" (ibidem, pag. 170), che si traduce nelle personali descrizioni.

L'obiettivo che persegue la metodologia fenomenologica è l'analisi di tali descrizioni per giungere ad una descrizione del fenomeno quanto più preciso possibile, così come esso si da' nella sua immediatezza, appunto fenomenica, cioè percepita. Le strutture essenziali (essenza) del fenomeno, così come derivano dall'esperienza descritta individualmente - assunta come intenzionalmente consapevole - costituiscono un elemento oggettivo analizzabile secondo i più rigorosi canoni del paradigma positivistico.

Punto di partenza della metodologia fenomenologica è l'esperienza vissuta con l'intento di esplorare reti e di analizzare significati che si sono stabilizzati o che si stanno strutturando. La metodologia fenomenologica esclude le generalizzazioni poiché in esse l'essenza individuale e singolare scomparirebbe. A questo proposito,

Mortari (2007, pag. 170) afferma che ".le strutture essenziali vanno considerate, per chi applica tale metodo, il risultato di un processo enattivamente inteso. Una concezione enattiva è quella per la quale la conoscenza è costruzione, ma essa avverrebbe nella forma di un dialogo con l'oggetto che interpella la mente a partire dalla sue strutture essenziali".

La metodologia fenomenologica è orientata alla scoperta, con ciò intendendo che il metodo si costruisce nel corso della ricerca e viene via via rimodulato in virtù delle contingenze. Inoltre, essa richiede un continuo impegno autoriflessivo da parte del ricercatore, che deve esimersi da giudizi e pregiudizi e mantenere altresì il suo pensiero esclusivamente e costantemente connesso alla descrizione del fenomeno, ovverossia ai dati derivati dall'analisi del fenomeno. Il ricercatore analizza e studia oggetti ed eventi nel modo in cui appaiono, nella consapevolezza che essi possono svelarsi in modi differenti in funzione dei criteri di approccio adottati. I principi fondamentali della metodologia fenomenologica vengono approfonditamente

delineati dalla Mortari in numerosi suoi contributi (qui basti far cenno ai lavori del 2007, 2002c, 2010), ai quali si rimanda. Qui riferiamo solo i due punti chiave dell'epistemologia fenomenologica:


(i) fedeltà al fenomeno: ovverossia "andare alle cose stesse" con l'obiettivo di cogliere la loro "datità originaria". Per essere fedeli al fenomeno è necessario fare riferimento al principio di evidenza, ciò significando che il ricercatore deve rivolgersi nella direzione verso cui le cose medesime attraggono. La fenomenologia ammette che nel loro manifestarsi le "cose" non si danno pienamente ai sensi dell'osservatore, tanto che ogni "cosa" trascendere l'apparenza secondo un suo proprio modo specifico. Nel mentre si coglie l'apparenza è importante saper rilevare il contestuale accadere delle cose nel loro disvelarsi e nel loro celarsi. Ciò significa che il ricercatore deve poter afferire anche al principio di trascendenza, con ciò sottolineando l'importanza di saper cogliere il lato occulto della datità, cioè afferrare anche quanto non si manifesta

nell'immediato. Ne deriva la necessità di adottare uno sguardo non univoco bensì bilaterale per cogliere il reale, nonché di monitorare costantemente

l'avanzamento della ricerca;


(ii) esperienza anticipata e mossa epistemica fondamentale: dato che non sempre è facile né immediato applicare il principio di fedeltà ai fini della conoscenza delle cose, in quanto l'esperienza del mondo - sia esterno che interno - è sempre setacciata da trame di concetti e di costrutti cognitivi che rendono impossibile l'accesso diretto ai fenomeni, Husserl (1995) suggerisce la mossa epistemica fondamentale dell'epoché, ovvero la necessità, da parte del ricercatore (a) di sospendere la validità delle conoscenze predefinite e di porre "tra parentesi" ogni assunto o posizione critica delle scienze oggettive in merito alle acquisizioni date, comprese le credenze e le convinzioni mentali che, pur strutturando le conoscenze, tendono a cristallizzare le possibilità gnoseologiche (epoché radicale) e (b) di mettere da parte tutti quegli strumenti di cui il paradigma positivista si serve per indagare la realtà, quali teorie, modelli, procedure (epoché professionale).

La filosofia di ricerca delineata dalla fenomenologia richiede tuttavia di essere

attualizzata mediante precipui atti cognitivi che "liberano la mente dalla tendenza a stare in un mondo anticipato e che consentono alle cose di manifestarsi nella loro essenza (Mortari, 2007, pag. 91 e segg.):

attenzione aperta: si tratta della disposizione a cogliere fedelmente il modo in cui il fenomeno si dà a conoscere. L'attenzione aperta è una modalità di ascolto che necessita che la mente assuma una postura passiva, ovvero metta "tra parentesi" se stessa per volgersi al fenomeno. L'attenzione aperta (per definizione allocentrica in opposizione a quella autocentrica propria del metodo positivistico) per essere sviluppata ed esercitata richiede (a) di percepire l'oggetto come avente valore intrinseco, per cui è negata ogni concezione strumentale dell'essere dell'altro, del suo modo di manifestarsi e delle possibilità relazionali col ricercatore, il quale deve porre attenzione all'altro, ascoltarlo e riconoscerlo nella sua unicità e originalità), (b) di sviluppare una disposizione rilassata della mente, nel senso che, obbligatoriamente, il ricercatore deve esimersi da interesse ed attaccamento alcuno.

Attingendo ad un'affermazione di Weil (1988, pag. 131; riportato da Mortari, 2007, pag. 93) ciò significa, in sostanza, che "solo gli atti cognitivi caratterizzati da una forma di rilassatezza - cioè di non attaccamento al proprio io - possono guidare alla comprensione dell'altro". L'attenzione aperta e volta al fenomeno connota perciò l'atto cognitivo caratterizzante la metodologia fenomenologica . Sulla base di questa prospettiva di ricerca è pertanto doveroso saper sviluppare due posture mentali: (i) non cercare: l'essenza originaria non è afferrabile sulla base di un progetto, in quanto ciò significherebbe soverchiare l'altro con il proprio sé; nell'approccio fenomenologico, invece, il ricercatore ha il dovere di esimersi dalla propensione di esercitare forme di controllo sull'altro e la responsabilità di lasciar essere l'altro nel modo proprio attraverso cui si manifesta alla presenza; (ii) fare vuoto: un'attenzione aperta e non orientata richiede non solo di lasciar emergere ciò che è, sottraendosi dal ricercare elementi previsti ma anche di "svuotare la mente" dal già pensato, da tutto quanto è troppo noto - quindi disinnestare gli usuali dispositivi epistemici - dal momento che ogni esperienza, seppure affrontata in maniera fenomenologicamente autentica, genera apprendimenti e conoscenze a cui l'individuo poi si affida automaticamente, in modo irriflessivo, non pensoso. Per il ricercatore fenomenologico "svuotare il sé per mantenere lo sguardo libero" significa non esimersi dall'essere presente bensì consentire alla propria mente di aprirsi ad un autentico ascolto dell'altro;

spaesamento cognitivo: la disciplina dello svuotamento mentale produce esperienze di spaesamento cognitivo, con ciò intendendo "quelle esperienze che spingono la mente ad abbandonare saperi accreditati, reti di significato e cornici epistemiche cui si tende ad affidarsi e che traggono fuori dai contorni epistemici familiari, per sporgere la mente verso l'esplorazione di scenari cognitivi inediti" (Mortari, 2007, pag. 101). Lo spaesamento cognitivo, quando ricercato intenzionalmente e non improvviso o inatteso (nel qual caso potrebbe causare uno stato emotivo talmente opprimente da paralizzare il pensiero e quindi turbare l'andamento della ricerca), arricchendo la possibilità di esporsi all'inedito, di addestrarsi alla sorpresa, di mantenere la mente disposta all'accoglienza dell'altro, favorisce la ricerca di nuove e originali vie di accesso alla comprensione del fenomeno, generando l'esperienza della cosiddetta scoperta attesa;

epistemologia ospitale: a differenza dell'epistemologia positivista, che utilizza metodi di ricerca predeterminati e fonda le sue analisi sul controllo dell'oggetto, l'epistemologia fenomenologica accoglie l'oggetto nella sua singolare modalità di manifestarsi, di venire alla presenza, evitando di ricorrere a categorie interpretative già definite. Nel caso della ricerca positivistica, il conoscere coincide con un processo cognitivo che "usa" l'oggetto governandolo e categorizzandolo in seno ad un progetto d'indagine prestabilito; viceversa, nella ricerca fenomenologica conoscere significa "seguire le tracce" che il manifestarsi dell'altro propone per farsi riconoscere nella propria singolarità;

il dire fenomenologico: la metodologia fenomenologica esige che "il rapporto con la parola subisca una trasformazione: occorre cercare una parola capace di dire l'essenza dell'esperienza, cercare un linguaggio al quale le cose nominate diano il loro consenso" (Mortari, 2007, pag. 106). Le regole utili per attivare un dire fenomenologico sono due: (i) utilizzare poche parole, solo quelle essenziali ed irrinunciabili, in quanto un eccesso verboso può oscurare, se non impedire, il disvelarsi dell'altro; (ii) non adottare una fraseologia intrisa di ovvietà ma piuttosto ricercare parole tali da garantire degli spazi vuoti - parole cioè "svuotate di significati congelati" - così che il linguaggio consenta voce anche all'altro e questi possa trovare quell'apertura per esternare la propria esperienza ed essenza: in una parola, per estrinsecare il proprio sé. In sostanza, ciò sta ad indicare che l'epoché va esercitata anche nei riguardi del linguaggio;

un pensare capace di sentire: se con i paradigmi razionalisti le emozioni sono state bandite dai processi di conoscenza in quanto reputate aspetti accidentali e irrazionali dell'esperienza umana e per ciò inficianti l'oggettività della conoscenza medesima, con la fenomenologia le emozioni divengono parte integrante degli atti cognitivi e rivalutate in quanto componenti intelligenti della cognizione, dal momento che consentono di approcciare il fenomeno in maniera più diretta e profonda favorendone una comprensione maggiormente articolata e completa. Se la Stein indica le emozioni nei termini di "pensieri del cuore", la Zambrano parla di "ragione affettiva", in quanto il pensare e il sentire sono un tutt'uno che non rischiano alcun reciproco annullamento. L'armonia tra il pensare e il sentire si compie nell'empatia (Einfülung), ovvero nella capacità di avere consapevolezza dell'altro "dal di dentro" (ein), di sentire l'altro come fosse dentro di sé (cfr. § 2.2.3).


pensarsi pensare, ovvero la riflessione fenomenologica: da quanto su detto, ben si comprende che il mandato della fenomenologia è sostanzialmente quello di preparare il ricercatore ad un lavoro su di sé affinché il suo essere - cioè la sua mente in sintonia con il suo "cuore" - scevro da canoni preordinati, divenga competentemente capace di incontrare l'altro. Ciò che caratterizza il ricercatore fenomenologico è "l'assunzione della responsabilità riflessiva, che consiste nel pensare i propri pensieri, ossia nel monitorare i processi cognitivi per portare all'evidenza della coscienza i presupposti inespressi che guidano il nostro pensiero e renderli il più possibile espliciti" (Mortari, 2007, pag. 110). La pratica autoriflessiva è dunque elemento integrante della metodologia fenomenologica; tale postura mentale consente al ricercatore di avere accesso a quei dati che di seguito gli serviranno per attestare il percorso di ricerca intrapreso e per esplicitare elementi di validazione. Se si accetta l'assunto fenomenologico per cui "i vissuti della mente sono fenomeni i quali, in quanto evidenti alla coscienza, possono essere oggetto d'indagine, allora la riflessione fenomenologica si prefigura come lo sguardo che prende in esame le esperienze della mente" (ibidem, pag. 111). La riflessione fenomenologica, cioè il pensare a quello che si pensa (cognizione) e che si sente (emozioni, affettività, sentimenti), aiuta ad allontanarsi dai vissuti subitanei e irriflessivi - per ciò stesso sovente invischianti - tipici dell'atteggiamento naturale con cui si conosce il mondo, consentendo di cogliere l'essenza delle cose.



 Accedere alle cose così come accadono per promuovere la riflessività



Un approccio riflessivo alla genitorialità è dunque derivabile dalla prospettiva fenomenologica, in particolare dalle indicazioni di Mortari (2007) laddove sottolinea che i prodotti del pensare - pur nella loro fragilità e transitorietà - determinano un framework entro cui si vengono a determinare criteri e a generare processi grazie ai quali l'esistenza umana assume un significato e l'individuo può contattare, fino a conoscere intimamente, la propria essenza. L'autrice, al fine di intraprendere un orientamento analitico ed interpretativo dell'esperienza umana quanto più attento e profondo possibile, propone uno stratagemma didattico del tutto singolare - l'educare al pensare con sé e con gli altri - a causa della sua capacità ermeneutica di porre l'accento su una pluralità di prospettive (tra l'altro anche da noi abbracciate; cfr. cap. 2). Essa afferma:

"Partendo dal presupposto vygotskiano secondo il quale il ragionamento privato si sviluppa come interiorizzazione di processi sociali di pensiero, nel senso che il pensare individuale prenderebbe forma come interiorizzazione del pensare condiviso con altri, allora da un punto di vista educativo diventa fondamentale predisporre contesti di apprendimento in cui sia possibile esperire il «pensare-insieme con altri». Che il pensare, pur configurandosi come il "dialogo silenzioso che la mente intrattiene con sé", abbia comunque una matrice intersoggettiva, sociale, era già stato compreso da Socrate, il quale parlava del pensare come del due-in-uno, nel senso che il pensare implica la pluralità cognitiva: l'io si fa due consentendo il dialogare tra sé e sé, tra un sé che formula domande e un sé dal quale attendersi risposte. Ipotizzando la primarietà della condivisione del pensare e ragionando nell'orizzonte interpretativo aperto dal costruttivismo sociale, che concepisce la capacità di pensare come esito della partecipazione ad una comunità di discorso, allora da un punto di vista educativo risulta essenziale favorire esperienze in cui pensare-insieme tra pari e, quindi, organizzare contesti di apprendimento che prendano la forma di "comunità di discorso" dove gli studenti confrontano le loro idee e co-costruiscono mediti spazi di pensiero. Promuovere la dimensione sociale del pensare è fondamentale, ma ciò non deve far dimenticare la sua dimensione individuale, quel "dialogo senza voce", che il soggetto intrattiene con se stesso per cercare una comprensione di sé. È un bisogno vitale per l'essere umano fermarsi e pensare per interrogare le proprie idee e dialogare tra sé. Se non sviluppiamo il pensiero riflessivo, in cui l'io tiene compagnia a se stesso, dando voce alla dualità connaturata alla vita della mente, corriamo il rischio di vivere frammentati, persi nei pensieri di altri.." (Mortari, 2002c, pp. 199-200).



Quindi educare al pensare significa educare ad "aver cura della vita della mente", cioè a coltivare i pensieri che trasformano il vissuto dell'individuo esperito in relazione con gli altri. Vi sono alcuni aspetti fondamentali del pensare che vanno tenuti in considerazione da parte di chi progetta supporti formativi fondati su di un approccio riflessivo (Mortari, 2002a, pp. 62-70):

- necessità di pensare le questioni di significato, ovvero di porsi alcune domande fondamentali sul senso dell'esistenza, delle azioni e dei comportamenti personali, sul proprio ruolo sociale. Domande difficili per la mente in quanto non c'è una risposta univoca o corretta ma solamente una pluralità di ipotesi indeterminate. Ne deriva l'importanza del saper dialogare tra sé e sé, del sapersi trattenere in silenzio con se stessi ad ascoltare i propri pensieri, senza perdere nel contempo il senso della realtà in un continuo confronto con gli altri basato su un dialogo autentico teso alla co-costruzione di significati;

- necessità di fronteggiare la funzione distruttiva del pensare, dal momento che spesso, seppure inconsapevolmente, l'individuo viene significativamente influenzato da visioni cristallizzate, idee vetuste, pregiudizi e credenze originanti dai condizionamenti culturali e sociali che inficiano la lucidità per un esame critico ed oggettivo di realtà; l'educazione al pensare va perciò nella direzione di rendere consapevole l'individuo di atteggiamenti mentali negativi e de-costruttivi, per avviare a rinnovati scenari di significato;

- necessità di pensare come riflessione sul proprio agire, sia come "riflessione nell'azione" (nel mentre si agisce) sia "riflessione sull'azione" (a conclusione dell'azione). Si tratta naturalmente di un processo cognitivo sostanziale del pensiero, in quanto consente di imparare a valutare consapevolmente le proprie azioni e i propri comportamenti e perciò di avviarsi ad un vero e proprio processo di autoformazione;

- necessità di pensare i propri pensieri nel senso di avviare ad un processo di autoriflessività, di autocomprensione e di automonitoraggio, nell'intento di favorire la propria ragione nel pensare a se stessa e ai suoi prodotti, ciò consentendo di accedere alla dimensione passiva della mente, luogo in cui i pensieri possiedono l'individuo e dove accade che il "pensare i propri pensieri" permetta un'azione di profonda attenzione al sé, fenomeno cardine per la cura della vita della mente.

In questa visione, ne deriva che l'educare al pensare diviene lo strumento attraverso il quale promuovere un processo di "autocomprensione cognitiva", consistente nella presa di consapevolezza delle trame concettuali e dei criteri cognitivi a partire dai quali elaborare pattern di significato. Così intesa, "la pratica di auto- comprensione comporta un guadagno di consistenza del proprio esserci, perché se essere e pensare sono tutt'uno allora prendere consapevolezza del luogo simbolico a partire dal quale si pensa significa trovare un luogo per consistere nella forma del partire da sé" (Mortari, 2002c, pag. 199).


5 Il ruolo del formatore e l'uso di tecniche di conduzione informali



Dalle considerazioni su fatte si evince che per il formatore (animatore, operatore, ecc.) che desideri operare un'attività educativo-pedagogica nell'ambito del supporto alla genitorialità, è importante assumere un ruolo non istruttivo ma delinearsi piuttosto come un "facilitatore della interrelazione e della comunicazione", capace di entrare in un rapporto di vicinanza empatica coi genitori, di assicurare attenzione sia al gruppo che al singolo, senza depauperare alcuno (Giachery, 2001). La funzione del formatore sarà perciò quella di incoraggiare lo scambio di esperienze tra i genitori, in particolare:

(a) ascoltando in modo attivo e non giudicante gli interventi di ogni partecipante, valorizzando i contributi emersi e fornendo adeguati rinforzi positivi;

(b) stimolando la partecipazione di tutti, senza però forzature, evitando monopolizzazioni della discussione da parte di qualcuno o sovrapposizioni;

(c) favorendo il confronto fra i partecipanti, evitando di prende re posizione o dare soluzioni.

Il ruolo del conduttore-facilitatore di gruppi di formazione può perciò essere inteso nell'accezione bruneriana di "scaffolding", in quanto il suo compito principale è quello di stimolare la riflessione su esperienze consolidate ma infruttuose, o su pratiche inedite ma efficaci, mediando e facilitando, nel contempo, gli scambi e i confronti entro il gruppo. D'altra parte, conducendo il gruppo empaticamente e con partecipazione, il formatore mette in gioco se stesso, ricavando dall'esperienza - al pari degli altri membri del gruppo - un arricchimento personale. Ciò è tanto più possibile quanto più egli è disponibile ad una riqualificazione permanente delle sue modalità operative ed interattive, che faranno prevalente riferimento ad un agire pensato piuttosto che ad una mera meccanica applicazione di protocolli teorico- prassici e routinari. È altresì fondamentale, nel conduttore, la capacità di saper cogliere, senza pregiudizi, le caratteristiche del contesto entro cui opera per far emergere l'ignoto e l'inatteso, in vista del fine ultimo del suo intervento che è l'azione maieutica di incoraggiamento e di supporto all'apprendimento adulto a partire dal riconoscimento, dall'analisi e dalla valorizzazione delle di lui pratiche ed esperienze. Ne deriva che il livello professionale del conduttore deve essere altamente qualificato. Le sue capacità in quanto "formatore informale" devono essere approfonditamente acquisite e consolidate attraverso una preparazione che deve riguardare anche - e soprattutto - il lavoro su di sé (Bruzzone e Iori, 2009). La gestione di un gruppo di formazione - soprattutto se condotto alla luce di tematiche riguardanti aspetti esistenziali della vita individuale - comporta che il formatore non sia esente da implicazioni personali che vanno a coinvolgerlo direttamente nei processi conoscenza di volta in volta attivati, e di cui deve assumersi tanto la complessità che l'imprevedibilità, dal momento che essendo investito, per mandato professionale, di una precisa responsabilità, non può mancare di consapevolezza rispetto alle opportunità e ai rischi impliciti in ogni sua azione e in ogni sua reazione (cfr. Demetrio, 1997).

Pur avendo una responsabilità diretta nella progettazione del percorso formativo, nelle scelte metodologiche e in quelle procedurali, gli esiti dell'esperienza non dipendono esclusivamente dal formatore, che ne è invece componente integrante, partecipe attiva in ogni tappa del processo, compartecipando egli alle scoperte e alle riflessioni collegiali, all'attribuzione di senso e di significato agli eventi vissuti assieme e svolgendo una funzione di supporto alla capacità enattiva, generativa, del gruppo. A tal fine è necessario che il formatore abbia l'accortezza di predisporre condizioni di lavoro non valutativo e vigili affinché nessuno - sé compreso - incappi nella tentazione di giudicare l'altro; invece, dovrà porre la massima attenzione nel cogliere e nell'accogliere le osservazioni, le riflessioni, le domande, i suggerimenti di tutti, in modo da consentire ad ognuno la libertà di sperimentare emozioni, di raccontarsi, di ricercare, di analizzare. Questa professionalità operativa preserva da possibili conflitti - o aiuta a dipanarli - che tipicamente possono insorgere in virtù delle dinamiche di gruppo, connessi alla sensazione di non essere stati ascoltati, riconosciuti, valorizzati, e così via, mentre aiuta l'operatore ad utilizzare ogni eventuale "conflitto cognitivo" come spunto per una proficua rielaborazione in merito a pensieri disfunzionali, cristallizzazioni mentali, comportamenti inefficaci, venendosi a creare, nel contempo, "le condizioni per sperimentare il senso di fiducia in se stessi e negli altri e il contenimento del gruppo, che sollecitano e consentono il cambiamento" (Mignosi, 2012, pag. 40).


6 Diventare consapevoli di sé per essere genitori competenti


Per concludere, e volendo far ancora riferimento agli insegnamenti di Winnicott, merita ricordare che nelle sue conversazioni alla radio iniziate sin dagli anni '30 affermava che nel "lavoro di crescere i figli, le cose importanti vanno fatte momento per momento, nel mentre accadono i fatti della vita quotidiana, ritenendo che per imparare il "mestiere di genitore" non esistono lezioni, né momenti specifici" (Winnicott, 1957; cfr. anche 1968, trad. it.). Egli ha in sostanza anticipato la necessità di porre un focus sia sulle responsabilità genitoriali che sul loro ruolo di expertise, presentando una pedagogia fondata sulla consapevolezza di sé e sulla riflessività in merito alle proprie esperienze e ai propri vissuti. Il pensiero di Winnicott, che ai nostri fini ritorna assai utile, è che si possono raggiungere ottimi risultati utilizzando ciò che la gente sente, pensa o fa, e a partire da questa premessa si può costruire una base di discussione o di formazione per accrescere le proprie conoscenze, consapevolezze, capacità. Tutto ciò esprime un concetto molto importante, in quanto evidenzia che l'unico modo per imparare ad essere madre o padre è quello di fare il genitore (cfr. Formenti, 2000; 2008). Il "fare" è sempre legato ad un sapere, ma se il sapere non è riconosciuto, esso non può esprimersi in competenza. La competenza dei genitori non è una qualità della sola persona, non è disgiunta dal contesto in cui viene praticata, non è slegata dalle relazioni concrete col partner, con la famiglia d'origine, con la rete di supporto sociale. Nella maggior parte dei casi il genitore non è consapevole di essere portatore di sapere e ha dunque bisogno di scoprirlo, di vedersi in azione, ma soprattutto ha bisogno di confrontarsi e di raccontarsi agli altri. Questo è il miglior modo per supportare gli adulti ad esplicitare appropriate funzioni genitoriali nei riguardi dei propri figli, funzioni di cui essi sono capaci almeno in germe. In questo modo la conoscenza tacita può fluire e sia chi racconta sia chi ascolta potrà trovare fiducia in se stesso.

La sensazione di essere inadeguati è ricorrente nei genitori d'oggi. Non si può tra l'altro negare che a questo vissuto contribuisca il proliferare di libri, trasmissioni, corsi di formazione sui temi della genitorialità, tutti nella pretesa di insegnare "come si diventa genitori competenti". Precetti, teorie e prassi di cura vendute come ottimali ma che sovente si rivelano impraticabili nella quotidianità della relazione educativa con il proprio figlio. Per chi fa un lavoro educativo con le famiglie, la "competenza genitoriale" è un concetto che merita una puntuale considerazione: declinato sempre più in termini strettamente psicologici, cognitivi e/o affettivi, esso sembra aver perso la sua connotazione originaria, squisitamente pedagogica, che chiama in causa lo specifico ruolo dell'educazione nei processi di formazione, nei saperi, nelle azioni che caratterizzano la relazione genitori-figli. Indubbiamente, la formazione genitoriale deve prendere atto delle istanze contingenti, degli ostacoli contestuali e dei limiti personali, sempre però "evitando di colpevolizzare l'inadeguatezza del singolo, come se fosse sufficiente solo una generica buona volontà o una infarinatura di informazioni pedagogiche o psicologiche per annullare le difficoltà del crescere i figli e se stessi. Piuttosto, occorre anche uno sguardo complessivo al sistema di senso e di significato delle macro-direzioni di cui seguiamo il corso, senza spesso essere pienamente coscienti" (Mariani, 2007). L'analisi delle competenze genitoriali e l'individuazione di adeguate risposte professionali dovrebbero invece moltiplicare gli "sguardi sulla famiglia" (Formenti, 2010, 2012a; Formenti e West, 2010), ponendosi almeno un duplice obiettivo:

(a) da un lato favorire una lettura riflessiva, profonda e aperta della narrativa familiare e degli elementi di competenza (in termini di pieni e di vuoti) che sembra contenere;

(b) dall'altro mostrare come apprendere dall'esperienza non sempre connoti "un fare cose e un parlare di ciò che si fa", o "un rendere conto di quanto si fa", ma ancor più significhi far emergere la conoscenza tacita, implicita, ovverossia quei principi, quelle norme, quei criteri sulla cui base stabiliamo le nostre decisioni ed elaboriamo inconsapevolmente modelli, idee, valutazioni, che vanno a costituire l'humus entro cui è immersa la nostra vita.

In questo senso, apprendere dal proprio fare significa pensare anche ai pensieri che hanno accompagnato il nostro agire, le nostre esperienze, i nostri vissuti (Mortari,



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Appunti su: https:wwwappuntimaniacomumanisticheeducazione-pedagogialapproccio-riflessivo-a-suppor83php,



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