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Una fabbrica d'handicap emotivi, comunicativi e fisici
«[.]La realtà del carcere è esattamente questa:per ogni malattia del corpo e della mente, il farmaco unico sono i tranquillanti, quelli che vengono chiamati in gergo la terapia. Che non cura, naturalmente, ma assopisce la paura di non reggere alla desolazione della vita di galera, e di uscire alla fine non solo segnate dalla carcerazione, ma anche malate»
1. Premessa
Per Husserl la corporeità, intesa come Leib, ossia entità consapevole, ricca di coscienza di sé, non è riducibile alla materia inanimata del Korper, puro oggetto delle scienze naturali.
In questo senso il corpo fisico è diverso dal corpo vivente, che crea l'unicità del Leib: il corpo vivente rappresenta altresì «la chiave imprescindibile dell'esperienza comunicativa ego-alter, nella dimensione del mondo vitale quotidiano, da cui procede la costituzione dell'oggettività intersoggettiva»
Il corpo quindi quando soffre, non è da intendersi come un mero oggetto scisso dalla persona, ma come un organo di percezione dotato di una psiche, come organo di senso liberamente mobile, il quale ha bisogno di cure, intese come behandung ossia come quel trattamento, secondo Gadamer, che prevede un unione tra cura e dialogo: una mano abile ed esperta che tastando sa riconoscere la trama.
La sofferenza, occupa l'intera identità e coincide con l'io.
Per guarire il corpo bisogna, quindi anche curare l'anima, bisogna saper comprendere la totalità dell'essere.
La malattia non va scissa dal malato: la salute è un esserci, uno stare nel mondo, il mantenere un equilibrio, e colui che opera sul malato, deve assumersi il ruolo di demiurgo, di guaritore ferito.
Parlando ci carcere si deve parlare non solo della costrizione dei corpi intesi come Korper, ma anche del Leib.
Anche in carcere vi sono malattie, ma come sono vissute? E quali sono i disturbi più frequenti, anche di origine psico-somatica?
2. I sensi malati
Circa un quarto dei neoreclusi soffre già dai primi giorni di vertigini: l'olfatto viene prima sconvolto, poi annientato nel 31% dei detenuti; entro i primi quattro mesi un terzo degli entranti dallo stato di libertà soffre di un peggioramento della vista fino a diventare con il tempo un'ombra dalla vista corta perché lo sguardo perde progressivamente la funzione di sostegno della parola, l'occhio non si articola più alla bocca; il 60% dei reclusi soffre entro i primi otto mesi di disturbi all'udito per stati morbosi di iperacutezza; il 60% fin dai primi giorni, soffre la sensazione di carenza di energia; il 28% patisce sensazioni di freddo anche nei mesi estivi (Gonin 1989)
Focault sostiene che col passare del tempo dalle forme punitive che laceravano e torturavano fisicamente il corpo del condannato si passò a quelle che colpivano l'anima. Alla espiazione che si accaniva contro il corpo, succede un castigo che agisce in profondità sul cuore, il pensiero, la volontà e la disponibilità.
L'apparato della giustizia comincia così a dedicarsi particolarmente ad una realtà senza corpo eppure è proprio sul corpo che cominciato a vedersi i segni della carcerazione, anche quelli nati non da malattie vere e proprie ma da condizioni di disagio emotivo e affettivo: Gallo e Ruggiero parlano di sofferenza legale, la quale è connatura gioco-forza al concetto stesso di pena, la quale se non ci fosse un po' di afflizione non avrebbe neppure senso di essere chiamata tale.
Il carcere immateriale nel quale viene scontata la pena è ormai in una fase di cambiamento: si può quasi parlare di una fabbrica automatica (Gallo e Ruggiero 1989) in quanto è sempre più decentrato e suddiviso in piccole unità autonome e ciascuno all'interno di questa struttura è individualizzato nel ruolo che interpreta.
Vige il blocco della comunicazione, in quanto i contatti con l'esterno sono limitati, mentre quelli interni al carcere sono standardizzati e privi di stimoli, tali quindi da creare una coercizione comunicativa di pari passo con quella fisica.
Il detenuto dalla sua cella, sente attraverso la televisione o la radio, parlare di ciò che c'è all'esterno: vive in un modo che racconta per immagini e suoni di qualcosa a cui lui non può partecipare, egli è un escluso che vive in un mondo di s/comunicazione
Il modo di comunicare tra i detenuti, il linguaggio che si crea, sottolineano l'estraneità del reo dal mondo esterno, lo stigmatizzano in quanto diverso, colpevole e quindi emarginato.
La pena aggiuntiva che viene inflitta al detenuto è anche quella di una mancanza di libertà nel comunicare, di un'insofferenza per non potersi esprimere, la parola gli viene tolta e negata.
La società davanti al reo, volta le spalle chiudendosi in un mutismo che ghettizza lui e coloro che hanno avuto rapporti di parentela o amicizia con lui: «[] Sono una ragazza di dodici anni e sono esclusa da tutte le attività sociali perché mio padre è un ex detenuto.
Le mie compagne di scuola mi hanno detto che le loro madri non vogliono che mi frequentino perché ciò danneggerebbe la loro reputazione.
Mio padre ha avuto una pessima notorietà grazie ai giornali e , anche se ormai ha scontato la pena, nessuno lo dimenticherà mai [].
Cosa posso fare? Mi sento molto triste, perché non è bello davvero essere sempre sola []»
Gallo e Ruggiero sottolineano questa accezione del carcere sostenendo che il carcere obbliga a parlare e non a tacere, benché il rumore di fondo del carcere sia quello di un silenzio obbligato e interiorizzato che crea una circolarità comunicazionale interna, la quale ricrea all'infinito la spirale della detenzione: l'assenza di stimoli crea barriere mentali e handicap, il silenzio che scende imbarazzato su determinati argomenti, che diventano tabù pericolosi crea un'afasia che distrugge la dialettica.
Si ottiene così un non-dialogo, un rumoroso silenzio che annichilisce e priva la comunicazione del respiro e dello spazio che servirebbero per parlare davvero.
«Sei in una gabbia, in una scatola di cemento; ti accorgi dopo un po' che le parole pesano. Hanno molta più importanza che all'esterno: è come se corrispondessero a dei gesti. Una parola significa uno schiaffo, un'altra significa una carezza. Impari a pesare quello che dici, come lo dici. E' un mondo chiuso dove si parla per frasi fatte» (Ruggiero e Gallo 1989).
Daniel Gonin, intitola un capitolo del suo lavoro Trasformazione dei sensi della carne imprigionata: un titolo già di per sé forte, così come sono pesanti le parole che seguono e che parlano della situazione fisica in carcere, di come i sensi cambino all'interno del carcere, di quanto sia forte l'impatto che queste strutture coercitive hanno su chi vive al loro interno.
La vertigine è dunque il vuoto avvolgente, è il nulla minaccioso, è il baratro aspirante della morte»
La vertigine
Non appena la persona entra in prigione viene colto da vertigini immediate, tutti i suoi riferimenti spazio-temporali sono persi, cancellati, allontanati in modo vivido e repentino.
Gonin ammette che sottrarre l'individuo dal suo contesto, dal suo universo, è uno degli scopi dell'incarcerazione, in quanto entrare in prigione è entrare nell'innominabile.
Questo termine può rendere subito l'idea della difficoltà che poi ci sarà nella parola e nell'uso di essa all'interno dell'ambiente carcerario , inoltre sottolinea come sia importante l'effetto del nome delle cose a noi famigliari, alle quali possiamo appoggiarci per definire anche noi stessi, ritrovando quindi la nostra identità anche attraverso loro, poiché danno un senso del posto che occupiamo nel mondo.
I riferimenti spazio-temporali non ci sono più, e così il detenuto perde quella sicurezza che la quotidianità con i suoi ritmi gli dava e cade in uno stato di confusione simile ad una densa foschia.
Circa un quarto degli entranti in carcere (età media 28 anni), soffre di vertigini e le percentuale di chi prova questa sensazione, diminuisce solo lentamente, riducendosi al 21% dopo sei mesi di reclusione, e colpisce il 18% dei reclusi dopo un anno.
Nella sua analisi Gonin constata che, le prigioni moderne creano meno empasse rispetto ai vecchi stabilimenti, creando sfasamenti inferiori per quanto concerne lo stato di equilibrio spaziale, e questo permette di valutare il tipo d'incarcerazione.
Questi fenomeni, nei casi più gravi possono arrivare a far cadere rovinosamente al suolo, chi ha l'equilibrio più precario, inoltre è una base su cui si fissano tutte le modificazioni sensoriali del detenuto.
L'olfatto
Gonin inizia la descrizione sensoriale dell'olfatto sottolineando come questo senso sia pregante nella vita degli individui, come sia il senso dell'intimità, qualcosa di ferino quasi che ci riconduce alla nostra natalità, all'odore della madre percepito e riconosciuto dal neonato.
La prigione è intrisa di odori, pesanti, grevi, che uniformano l'ambiente, e lo rendono irrespirabile al punto da anestetizzare, da preferire un'amputazione dell'olfatto per non soccombere.
Il 31% dei detenuti sottoposti alla inchiesta di Gonin e parte del campione controllato, segnalano l'incapacità a sentire profumi e odori nei primi mesi di detenzione.
Nei quattro mesi successivi la percentuale sale al 40%.
Gonin riporta anche i dati inerenti la moderna prigione di Varces in cui le percentuali sono in ribasso (14.8% contro il 36.1% presente nelle carceri di Saint-Paule Saint -Joseph).
L'anosmia è la prima delle rinunce dei sensi, secondo l'autore la perdita degli altri segue in quanto la maggior parte di essi diventano inutili in un cotesto anonimo e ostile com'è quello carcerario.
«Finalmente si esce! [.] Tutto attira la tua attenzione, ti incuriosisce. Sembra tutto troppo veloce, le macchine vanno ad una velocità impressionante anche se non superano i settanta all'ora, la gente ha fretta, corrono come delle trottole [].
Sembra che d'improvviso il mondo abbia accelerato il suo ritmo. L'odore di scarico delle macchine lo senti fortissimo. I profumi ti sembrano troppo intensi.
Ricordo il primo caffè espresso che presi dopo 12 anni di carcere: il solo odore, appena entrai nel bar, mi diede una scarica di caffeina allo stato purissimo.»
«Ogni carcere ha un suo particolare odore: Le Nuove puzza di vecchio e di muffa, Alessandria di ferro e di polli, alba letame e lavanda, Novara ferro e cera per pavimenti, Cuneo odora di olio fritto in cui annega una parmigiana. Quando l'ultimo cancello si chiude dopo di noi non ricordo più l'odore che mi era diventato familiare, l'ho già perso» Franca
La vista
Gonin parla di dissociazione, il vedere-essere visto ispirandosi a Focault: in prigione i detenuti vengono osservati, sono delle immagini da sorvegliare, vi è una privazione dello sguardo per una prerogativa della visione delle persone, quindi si svilisce il senso stesso del guardare per conoscere-apprendere l'altro, per un vedere meramente confinato nel monitorare oggetti.
Bentham nel suo Panopticon aveva creato la prigione per eccellenza, posto in cui da ogni lato si vedesse, la cella con il relativo detenuto presente al suo interno, una specie di Grande fratello orwelliano, che azzerava qualsiasi velleità di privacy da parte di coloro che erano ristretti in carcere. La struttura del panopticon era costituita da una torre centrale in mezzo alla quale un solo sorvegliante era in grado di controllare costantemente la situazione.
Al giorno d'oggi non vi è un panopticon a vegliare sulla vita dei reclusi, però il binomio vedere-essere visto rimane modificando in senso negativo l'equilibrio sensoriale.
Lo sguardo è limitato, il detenuto non può spaziare con la vista al di là della finestra della cella o del cortile perchè tutt'attorno si ergono mura elevate, la sua vista si accorcia, ed è privata da stimoli esterni particolari.
Secondo le ricerche svolte da Gonin il 31% di chi è entrato in prigione dopo i primi quattro mesi ha l'impressione che la sua vista diminuisca di colpo, e durante l'anno questa sensazione aumenta.
Dopo sei mesi la percentuale sale al 44% mentre dopo un anno al 50%.
Anche la non abitualità alla lettura prolungata può venire considerata tra i fattori che provocano un abbassamento della vista.
Anche l'illuminazione diurna e notturna incide sulla vista così come è stata valutata anche la televisione benché quest'ultimo dato non ha distinto chiaramente i sintomi tra chi possiede la tv in stanza e chi non ce l'ha.
La causa determinante dell'abbassamento visivo è da imputare comunque allo scarso raggio d'azione per lo sguardo che è coartato su brevi distanze senza potersi mai adagiare sulla linea dell'orizzonte.
La frustrazione del non vedere oltre, provoca un raddoppio dello sforzo della vista e quindi una diminuzione della stessa.
Gli occhi del detenuto non fissano mai il viso dell'interlocutore, ogni sguardo insistente in prigione viene considerato provocatorio e quindi avvalla l'azione del distoglierlo e del non focalizzarlo troppo sugli altri.
Il detenuto inoltre viene privato dell'egocentrismo perchè in balia costante degli altri, siano essi periti o legali o sorveglianti diviene così oggetto del giudizio e della vista altrui divenendo così un malvedente.
L'udito
La prigione è gremita dai suoni, dalla chiusura delle celle, dalle chiavi nelle serrature, dalla chiusura del cancelli, gli sciacquoni, il parlottio dei detenuti e delle guardie, i passi, le grida etc. e in questo coacervo di rumori e suoni il ristretto deve individuare la presenza di chi sorveglia prima di essere visto.
Il 47% dei detenuti intervistati da Gonin si dichiara "ipersensibile ai rumori" già dal primo periodo detentivo, e questo stato di iperacutezza viene accentuato nel periodo che va dai 4 agli 8 mesi detentivi, dopo un anno i detenuti ( il 54%) afferma di possedere un sensibilità uditiva non normale che perdura durante tutta la pena.
Questa sensibilità uditiva sopperisce alla vista e diventa un sonar che aiuta il detenuto all'interno della sua vita da recluso.
Il tatto
Gonin a questo proposito racconta un episodio illuminante su un ragazzo detenuto che continuava a chiedere garza e cotone all'infermeria. Interrogatolo sul perchè di questa continua richiesta, il ragazzo risponde che in quel modo può mantenere il senso del tatto.
Toccare oggetti "nuovi", puliti dall'odore del carcere provocava sensazione tattile necessarie a mantenere questa senso vivo e presente: il desiderio di toccare una bottiglia di vetro e non quelle solite di plastica fornite dal carcere, la necessità di sfiorare la pelle di un'altra persona, di una donna, diventa frustrazione per non poterlo fare.
La pelle in carcere diventa "elettrica", ipersensibile, si rovescia come un guanto, dice Gonin, è un segnale d'allarme per il detenuto, diviene portatrice di iperestesia.
Durante l'intervista con una delle detenute semi-libere è emerso che a causa di problemi personali soprattutto nel primo periodo di ingresso in carcere, capita di usare medicinali, la cosiddetta terapia per poter aver quella tranquillità psico-fisica che manca in carcere. Nello specifico questa detenuta dice: «Prima avevo tanti problemi, quando (ancora) ero in sezione, e prendevo per questo la terapia. Dopo ho lasciato anche per il consiglio del dottore e delle suore anche perché (a lungo andare) fa male. Però ogni volta io quando sono nervosa io sempre chiedo qualcosa per stare tranquilla».
Cfr.Guidotti B.., in Manuale di sociologia della salute, I Teoria, a cura di Cipolla C., 2003, Franco Angeli. Capitolo 8, specialmente pagg. 209, 213-214.
Gadamer H.G., Dove si nasconde la salute, 1994, specialmente capitolo 5-8-10 e 11, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Gonin nel suo libro parla di corpi incarcerati e di come nascano in carcere varie malattie anche di origine psico-somatica che colpiscono i detenuti durante la loro permanenza in carcere(nello specifico l'Autore fa riferimento ai carceri francesi che ha avuto modo di analizzare).
Si pensi al cruento incipit del testo di Focault, Sorvegliare e punire, 1971, Feltrinelli, in cui viene descritto nei minimi dettagli il supplizio di un condannato a morte tal Damiens, il quale prima di giungere all'agognata morte subirà sevizie e strazi di meticolosa crudeltà.
La detenzione segna come marchio a fuoco l'esistenza dei detenuti non solo il copro fisico, ma anche e soprattutto la sfera relazione, emotiva e la capacità di re-inserirsi effettivamente nella società.
Termine usato nel libro di Ruggiero e Gallo, per delineare la tipologia comunicativa che esiste in carcere, una comunicazione pressoché oggettuale, di scambio e baratto, in cui le parole assumono connotazioni metaforiche.
Nelle interviste fatte alle detenute del carcere della Giudecca è emerso un termine usato per isolarsi dal resto delle detenute e godere di una specie di privacy (laddove è impossibile in quanto si vive 24 ore al giorno a contatto con detenute senza possibilità di stare sole nemmeno per un momento): inccuffiarsi. Quando una detenuta vuole stare sola, si butta sul letto con le cuffie del walkman sulle orecchie e rimane lì ad ascoltare musica a volume alto potendo trovare un surrogato di isolamento dal mondo che la circonda, la possibilità di poter ascoltare i propri pensieri senza dover forzatamente partecipare alle attività delle detenute della sua cella.
Si ritornerà a parlare di s-comunicazione e barriere comunicative anche nel capitolo inerente il carcere della Giudecca e i discorsi sul sesso fatti dalle donne e raccolti nel libro Donne in sospeso dell'Associazione Il granello di senape.
Gonin D., Il corpo incarcerato, 1994 (prima edizioni italiana a cura delle Edizioni Gruppo Abele). Di seguito verranno riportati i passi salienti della sua opera analizzando così le dinamiche della trasformazione dei sensi che avviene nel carcere e viene subita pesantemente dai detenuti.
L'autore riferisce un esempio di questa mancanza forzata dell'olfatto presentando un esempio avvenuto nel carcere dove lavorava. Lo spaccio dell'Istituto cominciò a vendere un dopo-barba profumato, ebbene in infermeria trovavano quest'odore non piacevole, e quando si chiese ai detenuti a questo proposito, alcuni rimasero stupiti di apprendere che il dopo-barba sapesse profumo, arrivando anche chiedere che tipo di profumazione fosse. Loro non la sentivano.
Questo brano è tratto dall'articolo "Il ritorno in famiglia dopo la galera", Sansonna N., Anno 6 n. 3 del 2004, Ristretti Orizzonti.
Il termine ricomincianti è usato per delineare quella categoria di detenuti e detenute che escono fuori dal carcere e cominciano a riprendere in mano la loro vita, grazie ai benefici di legge come l'art. 21 e poi la semi-libertà o i permessi premio. Il ruolo di ricomincianti è difficile dal punto di vista dell'adattamento socio-affettivo e identitario in quanto, come dice lo stesso Sansonna nel suo articolo ci si rende consapevoli che «[.] sei tu ad aver rallentato i tuoi ritmi vitali, operazione necessaria per conservare lucidità e sanità mentale, una sorta di auto-anestetizzazione, che l'organismo- e forse la psiche- opera su se stesso, per adattarsi all'ambiente innaturale in cui per tanti anni ha vissuto».
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