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Chi ha la possibilità di conoscere un po' più approfonditamente l'istituzione carceraria, come del resto chi è costretto a trascorrerci forzatamente un periodo della sua vita, si rende conto ben presto che si tratta di un mondo parallelo a quello in cui siamo abituati a vivere.
Il carcere è innanzitutto un'istituzione totale cioè un'istituzione che si incarica interamente della vita delle persone che hanno infranto una qualche legge sociale allo scopo di rieducarlo e risocializzarlo.
Dati gli aspetti contrastanti di questa realtà diventa necessario porsi una domanda: l penitenziario, cosi come è strutturato, in che misura assolve alle funzioni di rieducazioni e risocializzazione?
Una prima riflessione ci viene mossa dalle statistiche sulla recidiva; con questo termine si designa la reiterazione del reato commesso o di un reato di altra natura da parte di chi ha già scontato una pena detentiva.
Dai dati statistici si riscontra che i recidivi nel nostro paese sono il settanta per cento dell'intera popolazione carceraria.
Tenendo
conto di questi dati non può non sorgerci il dubbio dell'effettiva efficacia
del carcere e riteniamo che, per poter rispondere meglio alla domanda che ci
siamo posti, sia necessario conoscere più approfonditamente cos'è un
penitenziario e quali sono i suoi effetti sulle persone che ci "abitano".
La caratteristica principale che accomuna tutte le istituzioni totali, e che
dunque è propria anche di un carcere, è la sparizione dei luoghi in cui si
svolgono i vari momenti in cui è suddivisa la vita dell'uomo. Non spariscono
solo i posti geografici ma anche la molteplicità dei luoghi dove normalmente si
svolge la dell'uomo: infatti mentre nel mondo esterno le persone dormono,
lavorano e si divertono in ambienti generalmente ben distinti tra loro, in
carcere ogni aspetto della vita si svolge nello stesso posto e sotto un'unica
autorità.
Una seconda caratteristica importante da ricordare è che le diverse fasi delle attività giornaliere si susseguono sempre uguali, secondo un ritmo ed un ordine stabiliti dall'istituzione stessa che li impone ai reclusi.
Una conseguenza di questa organizzazione, qui solo accennata ma che verrà approfondita in seguito, è la distorsione della dimensione temporale; il tempo infatti si dilata essendo scandito da ritmi completamente differenti da quelli della quotidianità vissuta all'esterno.
Tutto ciò avviene perché una delle funzioni dell'amministrazione carceraria è
"dover manipolare molti bisogni umani per mezzo dell'organizzazione burocratica di intere masse di persone"[1].
La rottura dei rapporti con il mondo esterno e il controllo totale esercitato sui detenuti in qualsiasi momento della giornata ben definiscono il carattere inglobante del carcere che prepotentemente si appropria in toto della vita di una persona.
L'ingresso di una persona in carcere è senza dubbio un evento traumatico che comporta tra l'altro tutta una serie di modificazioni sia nelle abitudini e nei modi di vita sia soprattutto provocando danni consistenti da un punto di vista strettamente fisiologico e, ancora più importante, da un punto di vista psico-sociale.
Intendo ora affrontare più dettagliatamente alcune conseguenze patite in condizione carceraria e che possiamo trovare esposte in letteratura.
1. Conseguenze sul piano fisico, fisiologico e somatico
Le conseguenze negative che la detenzione provoca sull'uomo sono quindi estremamente varie e di diversa natura; per necessità ho scelto di accennare solo brevemente le alterazioni fisiche e fisiologiche per poi focalizzarmi più attentamente su quelle legate alla vita psichica e sociale di un "ristretto".
Numerosi studi sugli uomini costretti a vivere in condizioni di reclusione hanno dimostrato come notevoli modificazioni nella vita di una persona abbiano dei riscontri sul piano fisico e fisiologico provocando disagi e malattie.
Gonin individua un'ampia gamma di disturbi che interessano specificatamente la sfera corporea e ne fa un'analisi accurata.
Io mi limiterò ad elencare alcuni esempi di patologie o disfunzioni causati dall'alto livello di stress e disagio vissuti in carcere.
Le disfunzioni più evidenti sono: disturbi cardiaci e circolatori, ipersensibilità, malattie gastero intestinali, disturbi digestivi, disturbi dell'apparato visivo, etc.
Conseguenze sulla personalità e sulla vita psico-sociale
1 La riduzione e la mortificazione del sé
Goffman(1968) nel suo testo "Asylums" approfondisce dettagliatamente gli effetti negativi della detenzione. Essi non sono esclusivamente legati alla salute fisica di una persona ma anche e soprattutto agli aspetti psicologici, affettivi, sociali e personali che sono molto importanti nella vita di ciascuno di noi.
L'ingresso in carcere infatti comporta innanzitutto una modificazione del concetto di sé proprio di ogni persona.
Il processo di alterazione dell'identità è chiamato riduzione ed alterazione del sé ed avviene primariamente a causa delle barriere che l'istituzione erige tra il detenuto ed il mondo esterno.
Nella vita civile una persona normalmente ricopre diversi ruoli a seconda delle attività che svolge e degli ambienti in cui si trova; il carcere invece spoglia l'individuo di qualsiasi ruolo ricoperto in precedenza, dato che la separazione dal mondo esterno può durare per anni.
Secondo Goffman la perdita di ruoli importanti per l'individuo costituisce quindi una prima causa che determina l'alterazione del sé comportando in alcuni casi una grave perdita di autostima.
Questo autore afferma che un'altra forma di mortificazione del sé è data dalla violazione del proprio spazio privato. In carcere infatti non esiste privacy: i detenuti sono continuamente esposti agli sguardi degli agenti o dei loro compagni. Questa convivenza forzata è vissuta come una sorta di contaminazione fisica, tanto è vero che molti "ristretti", questo è il nome con cui vengono chiamate le persone recluse nel gergo carcerario, adottano dei veri e propri comportamenti maniacali nei confronti della pulizia quasi per difendersi dalla presenza indesiderata degli altri.
L'esposizione contaminante non si verifica solo nella condivisione degli oggetti ma anche nel carattere forzatamente pubblico di alcuni eventi particolarmente importanti come ad esempio quello delle visite che avviene in una stanza comune sotto gli occhi degli agenti e degli altri detenuti. .
Uno dei momenti della vita di un detenuto in cui si può constatare il fenomeno di contaminazione ed invasione del sé è quello della perquisizione personale e della cella. Spesso la modalità con cui avviene questo procedimento è molto violenta e, penetrando nelle riserve private della persona, viola i territori del suo sé.
Si può quindi parlare di una contaminazione del sé legata anche alla dimensione spaziale. In carcere infatti si assiste ad un capovolgimento delle normali relazioni spaziali :nel timore di invadere il "territorio" altrui e per reagire all'invasione del suo spazio da parte dell'istituzione, il detenuto tende mantenere le distanze dagli altri per poter ricostruirsi un proprio angolo d'identità inviolato.
Per comprendere meglio questo capovolgimento delle relazioni spaziali tra i corpi ci serviamo dell'aiuto di una testimonianza : "Tre anni insieme nella stessa cella. Quattro metri per cinque. Eppure l'uno non aveva mai messo piede nel regno dell'altro. Come se un tabù non detto né scritto impedisse ad entrambi di violare uno spazio personale in qualche modo sacro. Insieme nella zona comune, ma nel suo piccolo regno- la branda e quel sottile invisibile dintorno- ognuno era pienamente sovrano".[2]
Non strettamente legato alla contaminazione del sé ma che può essere considerato una causa della distorsione dei normali rapporti spaziali è l'effetto disorientante che una lunga permanenza in un ambiente ristretto può provocare all'individuo quando entra in contatto con l'esterno. Durante il colloquio individuale con uno dei detenuti della redazione di 'Ristretti Orizzonti', lui stesso mi ha confidato che quando è uscito dal carcere per la prima volta dopo tanti anni di reclusione, in occasione di un permesso premio, ha trovato il mondo esterno notevolmente cambiato e ciò gli ha provocato una reazione di paura. Questa reazione l'ha avvertita anche a livello fisico: gli girava la testa, aveva l'impressione di essere sulla luna e che gli altri lo osservassero in continuazione. Tutto gli appariva molto veloce confrontato con la calma che regna in carcere. Essendo abituato a spazi limitati ha detto che lo impauriva la dimensione esterna e non circoscritta.
Un altro fenomeno, forse meno diretto e più difficilmente osservabile, che contribuisce sicuramente alla mortificazione del sé è "l'effetto circuito" che consiste nella rottura della relazione abituale tra l'individuo che agisce ed i suoi atti.
Molto spesso infatti ciò o colui che provoca una reazione difensiva del detenuto assume questa stessa reazione come pretesto per poter rivalersi su di lui. Così l'individuo è costretto ad accettare circostanze o comportamenti che contrastano con la propria idea di se stesso essendogli consentita solamente una stretta gamma di reazioni espressive con cui difendersi.
Anche la procedura d'ammissione alla casa di reclusione è un evento particolarmente traumatico e rappresenta uno dei primi modi attraverso cui l'istituzione mortifica il sé: per mezzo di questo procedimento, infatti, il neo recluso inizia ad essere codificato e plasmato dall'amministrazione carceraria che in questo modo spersonalizza e "cosifica" l'individuo riducendo il suo valore a quello di un semplice numero di matricola.
Il processo di mortificazione del sé, come del resto anche tutti gli altri deficit psico-sociali indotti dal carcere, non sono da considerarsi fenomeni indipendenti dalle alterazioni bio-fisiologiche sopra esposte ma piuttosto i due livelli di funzionamento individuale sono ritenuti strettamente collegati l'uno all'altro poiché si influenzano a vicenda.
Abbiamo cercato di individuare alcune delle cause che possono contribuire ad una modificazione più o meno permanente dell'identità di una persona, purtroppo però gli effetti negativi della detenzione non si limitano a quelli sopra esposti.
La sindrome da prigionizzazione
La sindrome da prigionizzazione è un'altra delle conseguenze negative del regime carcerario. Bisogna però specificare che l'influenza che questo fenomeno e più in generale anche tutti gli altri disturbi o alterazioni della sfera psico-sociale hanno sul detenuto dipendono in primo luogo dalla personalità e dalla capacità di adattamento dell'individuo stesso.
Clemmer utilizza il termine "prigionizzazione" per indicare l'assunzione in grado maggiore o minore dei modi di vita dei costumi e della cultura generale del carcere.
Secondo questo autore la sindrome di prigionizzazione è un tentativo ben riuscito dell'istituzione carceraria che, allo scopo di garantire un ordine e un controllo al suo interno, ricerca l'uniformità dei comportamenti e degli atteggiamenti dei detenuti attraverso l'imposizione di abitudini e modalità di vita comuni.
Infatti l'accettazione di un ruolo inferiore, l'acquisizione di informazioni relative all'organizzazione della prigione, l'atteggiamento di sottomissione all'autorità e il riconoscimento che niente è dovuto all'ambiente per la soddisfazione delle proprie necessità sono aspetti della prigionizzazione che si possono riscontrare in molti detenuti.
Gli studiosi di questa sindrome sostengono che una permanenza prolungata negli istituti di pena produce:
erosione dell'individualità cioè un deficit nella capacità individuale di pensare ed agire autonomamente;
disculturazione ossia perdita della cultura che individuo aveva prima di entrare in carcere;
estraniamento ovvero incapacità, una volta rilasciato, di adeguarsi all'ambiente esterno;
danni fisici e psicologici;
deprivazione sensoriale ovvero adattamento alla povertà dell'ambiente e al ritmo dell'istituzione.
Anche se alcuni di questi effetti possono essere presenti in molti casi è opportuno precisare che gli studi sperimentali sulla sindrome da prigionizzazione hanno dimostrato che non si tratta di un fenomeno ad andamento lineare ne che è uniformemente distribuito nella popolazione carceraria. Probabilmente le persone più a rischio sono quelle con un livello culturale più basso e che sono professionalmente non qualificati.
Comunque sia la prigionizzazione intesa appunto come acquisizione della cultura che vige in un istituto di pena rappresenta l'aspetto più preoccupante del fenomeno perché è responsabile della recettività individuale alle influenze che fomentano o rendono più profonda la criminalità e antisocialità e che fanno del detenuto un esponente caratteristico dell'ideologia criminale nella comunità carceraria.
3. La s-comunicazione
Gallo (1989) sostiene che il carcere rappresenti un mondo a sé anche e soprattutto perché le relazioni interpersonali si reggono su principi completamente diversi da quelli che generalmente regolano la comunicazione nella vita normale.
La comunicazione non è più un valore d'uso bensì diviene una merce simbolica ovvero una comunicazione oggettuale, di scambio.
Per questo motivo Gallo ritiene che sia corretto coniare il termine "s-comunicazione" riferito ai processi interattivi che si svolgono in carcere. Molto spesso anche nei colloqui individuali avuti con i detenuti della redazione di 'Ristretti Orizzonti' mi è stato più volte ribadito che in carcere è molto difficile se non impossibile costruire, delle amicizie basate sul disinteresse e la gratuità reciproci.
La convivenza forzata con i propri compagni ma anche le necessarie relazioni con coloro i quali sono tenuti a relazionare sul suo comportamento ( educatori, psicologi, etc. ), costringe il detenuto ad adottare un modo di comunicare stereotipato, volto a dare un'immagine di sé che sia consona alle aspettative dell'interlocutore.
Scrive Gianni, un ex detenuto: " Ho vissuto una sorta di schizofrenia applicata. Crescevo in un ambiente che mi richiedeva di rispondere a diversi piani di relazione, e a tutti non potevo, in pratica, mostrare me stesso tutto intero: dovevo farlo a pezzi. Ai compagni di pena dovevo tenere celata la parte di me sensibile che cresceva e si sviluppava, mentre dovevo tenere accesa e desta la parte istintiva legata alle dinamiche di conflitto; ed in questo modo anch'essa cresceva e si sviluppava. Agli operatori che osservavano (agenti, educatori, psicologi, etc.) dovevo svendere, fino a volte ad apparire ossequioso, le maniere gentili ed occultare tutta intera l'altra parte.Anche con loro la sensibilità, ma anche il carattere, dovevo tenerlo nascosto, poiché le volte che tentai un confronto, fui tacciato d'immaturità. Finiva sempre che ogni volta che affermassi un pensiero o un sentimento che fosse in contrasto con gli stereotipi proposti da entrambe i "sistemi" , subivo una pesante punizione.
Schizofrenico - Paranoico. Chissà quali altre psicosi si sviluppano all'interno di un mondo chiuso, un'istituzione totale come lo è il carcere
L'esigenza di un controllo estremo dei propri comportamenti per facilitare lo svolgersi pacifico di una convivenza che, in un regime di detenzione risulta essere sempre molto precario, rende quasi indispensabile per il detenuto l'imporsi tutta una serie di comportamenti stereotipati o, perlomeno poco spontanei che però possono garantirgli una permanenza nell'istituto che sia il più tranquilla possibile.
Ecco allora che il detenuto, soprattutto se in carcere da molto tempo, rimane imbrigliato nel meccanismo psicologico della s-comunicazione e, una volta ritornato nel mondo esterno, inizialmente ciò può provocargli delle difficoltà nel rapporto con gli altri.
Una risorsa utile per limitare i danni provocati dalla s-comunicazione è, senza dubbio, rappresentata dal volontariato che opera in carcere.
La figura del volontario è molto importante proprio perché, non appartenendo ne al gruppo dei detenuti ne a quello delle figure professionali che devono esprimere un parere sull'andamento del loro percorso educativo, può essere un aiuto importante contro l'assuefazione alla s-comunicazione.
Con il volontario, infatti, il detenuto, dovrebbe, almeno in teoria, poter costruire un rapporto più spontaneo e simile a quelli che si instaurano nella vita reale. E' per questo che, durante una discussione di Ristretti Orizzonti, l'idea espressa dalla maggioranza è stata quella di un volontariato che sia indipendente il più possibile dall'istituzione e che non sia chiamato in causa nell'esprimere giudizio ufficiale sul detenuto.
C'è tuttavia un altro aspetto della s-comunicazione carceraria che Curcio definisce torsione della comunicazione per illustrare il processo di distorsione della comunicazione che, a suo parere si verifica in un penitenziario.
Questo autore afferma che la comunicazione in carcere ha una sua propria struttura per mezzo della quale definisce il recluso e che gli viene imposta. Così il detenuto è costretto ad abbandonare il linguaggio proprio della sua comunità di appartenenza ed essere definito solo dalle parole di chi lo reclude. L'immagine di sé che ne trae risulta perciò essere deformata e, allo scopo di difendersi da questo linguaggio che distorce la propria identità, può cercare rimedio inventando con gli altri compagni dei gerghi particolari, delle microcomunità linguistiche contrapposte al linguaggio ufficiale dell'istituzione.
Benché la comunicazione all'interno di queste comunità sia sostanzialmente povera e basata su formule stereotipate ha il vantaggio di offrire sicurezza ai reclusi a cui sembra di riuscire a mantenere in questo modo una propria identità.
Quando l'individuo non accetta di definirsi o definire il proprio mondo utilizzando i codici linguistici e comunicativi impostigli dall'istituzione, ne tanto meno si ritrova nel gergo parlato nelle microcomunità, può ricorrere a torsioni comunicative di tipo diverso. Il suo dialogo, anziché rivolto ad un interlocutore esterno si dirige verso un destinatario "interiore". Una lunga detenzione e soprattutto un lungo e totale isolamento possono causare l'esteriorizzazione delle proprie voci interiori oppure provocare una frammentazione del linguaggio verbale che diventa sconnesso.
Curcio, inoltre afferma che, un'altra via d'uscita attraverso cui alcuni detenuti cercano di sfuggire agli effetti della torsione della comunicazione è la fabulazione, cioè l'invenzione di storie a cui si dà valore di verità.
La fabulazione offre un'alternativa al blocco della comunicazione ordinaria; si configura, cioè, come un'alternativa simbolica al contesto prescrittivi tipico del carcere.
Di questo fenomeno tratta anche Marcello Santoloni all'interno del libro di Serra "Devianza e difesa sociale" (1981) che ha condotto delle ricerche all'interno di alcune carceri italiane. Il metodo che ha utilizzato per la ricerca dei dati è stato quello di svolgere delle interviste a detenuti e ad ex detenuti, dividendo i primi in detenuti politici e comuni.
Nel corso del suo studio, tuttavia, ha trovato un netto rifiuto da parte dei detenuti politici nel rispondere alle domande quindi i dati raccolti sono relativi ai detenuti comuni. Dalle interviste condotte è risultato che la fabulazione rappresenta un'attività molto importante per il detenuti poiché soddisfa un suo bisogno di evasione dalla realtà in cui è inserito.
La fabulazione inoltre risponde all'esigenza di raccontare anche agli altri una favola che gli garantisca l'inserimento nel gruppo degli altri detenuti.
Santoloni spiega che i contenuti delle fabulazioni riguardano prevalentemente la vita esterna al carcere, ovvero quella vissuta prima della detenzione; infatti il passato di un detenuto molto spesso non è verificabile dagli altri compagni e quindi, può essere "farcito" con molte fantasie.
Ma con il termine s-comunicazione si può anche intendere il tipo di messaggio che l'istituzione stessa comunica al singolo in modo indiretto ed implicito nella sua struttura ed organizzazione, un messaggio volto a ricordare al detenuto la sua condizione di dipendenza assoluta dal carcere e che mira a produrre il fenomeno dell'infantilismo in tutti coloro i quali che sono costretti ad accettare passivamente ciò che il carcere decide per loro (Curcio 1997).
4. La fabbrica di eterni bambini
Come già emerso nella definizione di istituzione totale, una delle caratteristiche principali dell'istituzione carcere è il suo carattere inglobante, cioè la sua capacità di organizzare l'intera giornata dei suoi "ospiti forzati" secondo ritmi e tempi ben precisi che si susseguono sempre uguali giorno dopo giorno .
L'amministrazione carceraria che dovrebbe garantire lo sviluppo o il mantenimento dell'autonomia personale ma soprattutto promuovere la responsabilizzazione dell'individuo nei confronti della propria vita, si muove invece nella direzione completamente opposta a questo principio.
Ogni aspetto della vita di un detenuto è infatti pianificato in modo che egli debba costantemente rendere conto all'istituzione di ogni suo movimento o presa di decisione.
Qualsiasi tipo esigenza che l'istituzione non è obbligata a soddisfare deve essere fatta presenta dal detenuto stesso con una apposita richiesta, chiamata "domandina".
Non si può fare a meno di notare come questo meccanismo di controllo totalizzante abbia delle forti analogie con il comportamento direttivo tipico dei genitori nei riguardi dei figli, quando questi ultimi, non essendo ancora pronti per prendere decisioni autonome, si rivolgono a loro per ottenere le necessarie conferme o disconferme sulla "bontà" o meno delle loro prese di posizione.
In questo caso però, non si sta parlando di esseri umani in fase di sviluppo quanto piuttosto di individui già formati che l'istituzione cerca di far ritornare ad uno stadio di comportamento e di dipendenza tipici dell'infanzia.
Il rischio dell'infantilizzazione causata dal regime e dall'organizzazione carceraria è ben illustrato dalle parole di Gianni che in proposito si esprime così: " Uscito dal carcere, mi sono reso conto di quanto fossi strutturato per vivere, o meglio, per sopravvivere all'interno del mondo chiuso e di quanto fossi carente di strumenti per affrontare la vita esterna.
Mi sentivo (e lo ero anche) piccolo per tutti gli aspetti pratici che riguardano il vivere quotidiano: burocrazia, lavoro, casa, spese, impegni, tempi, ritmi, insomma: responsabilità. Apparivo grande, a volte, nelle mie elucubrazioni mentali, ma non mi garantivano nulla che fosse la sopravvivenza materiale.
Certo è che mi sentivo fortemente schizzato: un uomo bambino.
5. Automutilazione ovvero l'identità difesa
Il carcere, come abbiamo già visto, agisce in modo distruttivo sull'identità individuale privandolo di qualsiasi tipo di autonomia e libertà decisionale controllando in ogni momento della giornata il corpo del recluso ed i suoi movimenti.
L'istituzione carceraria riduce la persone ad una condizione di assoluta dipendenza e passività ed il sè dell'individuo ne risulta inevitabilmente mutilato. E alla mutilazione, all'assasinio del sè, si potrebbero ricondurre tutti quegli episodi di suicidio o di autolesionismo che hanno come scenario il carcere.[5]
In realtà queste azioni così violente e distruttive possono avere un'altra spiegazione, spiegazione che ha un'origine molto antica e che si può ricondurre ai riti di fachirismo e all'istituzione arcaica del sacrificio.
Analizzando i significati di cui nell'antichità erano intrisi gli episodi di automutilazione, si possono individuare due varianti di questo fenomeno.
La prima è l'automutilazione espiatoria o riparatoria e viene compiuta allo scopo di ottenere il perdono dei torti commessi e per essere riammessi nella società.
A colui che si era pentito veniva chiesto di automutilarsi pubblicamente privandosi delle parti corporee per mezzo delle quali aveva perpretrato l'atto criminoso e di "gettarle in pasto alla platea".
Questo sacrificio serviva a placare le angosce ed il desiderio di vendetta dei destinatari, predisponendoli favorevolmente al perdono.
La seconda variante dell'automutilazione offre una spiegazione differente di questo gesto e ne evidenzia la funzione liberatoria che rappresenta, secondo me, la giustificazione principale degli atti autolesionistici in carcere. Il detenuto, privato dall'istituzione persino della libertà di gestire il proprio corpo, lo sente estraneo a sé e ne prova repulsione, si sente prigioniero della sua corporeità e lo mutila per liberarsene.
L'automutilazione intesa in questo senso diventa lo strumento simbolico per riconquistare un certo grado di libertà: la libertà di essere ancora padrone del proprio corpo, nonostante i tentativi che il carcere mette in atto allo scopo di prenderne il possesso.
Ecco che allora l'autolesionismo diventa l'estremo tentativo di riaffermare quell'identità personale che viene continuamente negata, lesa, ammazzata dall'istituzione.
Questa spiegazione si pone in netto contrasto con quella che ha fornito Lombroso (1876) nella sua teoria sul fachirismo e l'analgesia.
Anche quest'autore opera un parallelismo tra le azioni autolesionistiche dei detenuti ed i riti di alcune tribù da lui definite "selvagge" e sostiene che la capacità di provare dolore si afferma con l'evoluzione.
Di conseguenza, essendo convinto che sia i popoli "selvaggi" che i "delinquenti" occupino un gradino inferiore nella scala evolutiva, secondo Lombroso non bisogna stupirsi se presentano tendenze autodistruttive dato che risultano insensibili al dolore.
Nella sua teoria, Lombroso non ha tenuto conto del contesto relazionale in cui l'autolesionismo va inserito ne tanto meno del suo significato simbolico; al contrario, giustificando questo gesto sulla base di un'insensibilità al dolore e, più in generale all'istinto di sopravvivenza, si è mosso nella direzione contraria a quella che rende possibile la sua comprensione.
Curcio (1997) afferma che se un detenuto cuce o taglia parti del proprio corpo non significa assolutamente che in lui sia assente l'istinto di sopravvivenza; al contrario il suo gesto rappresenta l'estremo tentativo di comunicazione ed affermazione della propria esistenza laddove queste gli vengono negate.
Il significato dell'autolesionismo risiede quindi nel rifiuto della passività e della mancanza di comunicazione imposte all'individuo.
6. Il mondo immobile
La dimensione temporale in carcere è un altro elemento che risulta essere governato da leggi sue proprie, completamente differenti da quelle che governano il tempo nella vita reale.
Il carcere potrebbe essere definito il regno dell'immobilità, della staticità, del non tempo e del non spazio. Toch (1977) sostiene che l'inattività e l'assenza di novità possono essere considerate le due principali fonti di stress che comunque viene percepito in misura differente dai diversi detenuti.
La sensazione di inattività, secondo Toch include anche dei vissuti di noia, vuoto, ridondanza, percezione del futuro come sempre uguale al presente.
In realtà l'esperienza della temporalità così come viene vissuta da un recluso non è così semplice da spiegare e da capire.
In carcere, infatti, il tempo sembra dividersi in due: quello della reclusione ed il tempo "Altro".
Per contrastare l'immobilità e l'assenza di vita sociale il detenuto contrappone un atteggiamento rivolto al futuro; solo così è possibile neutralizzare almeno parzialmente la paralisi della quotidianità in cui è costretto a vivere.
Si dice che il carcere rallenta anche la modificazione dell'aspetto esteriore delle persone, a dimostrazione dell'immobilità che regna in quest'istituzione.
Il carcere mantiene giovani, si sente dire a volte. Già ma è proprio questo immobilismo che spaventa e rimanda ad un'immagine di un corpo senza vita.
Curcio (1997) a tal proposito scrive che: "La conservazione di un corpo in cui il tempo non ha lasciato i suoi segni rimanda ad un corpo ibernato in un tempo congelato. E cos'hanno da spartire la mancanza di mutamento e la staticità, con la danza cosmica dell'universo pulsante?"[6]
Nonostante la staticità, non bisogna pensare al tempo vissuto in carcere come ad un tempo completamente vuoto: anch'esso, infatti è "riempito" da ritmi e regole che lo scandiscono e che, se non rispettate, implicano un condensarsi della pena che diventa, in questo modo, sempre più opprimente. Ci si domanda allora come mai molti detenuti, riferendosi al periodo vissuto in carcere, lo definiscano un tempo "vuoto".
Secondo Curcio (1997) questa percezione potrebbe essere frutto di un'incapacità personale: l'individuo, cioè, non sarebbe in grado di elaborare la discontinuità relazionale tra esterno ed interno e quindi si abituerebbe a vedere ciò che "non c'è" trascurando "ciò che invece c'è".
Possiamo dunque affermare che il tempo creato dall'istituzione sia una dimensione che non appartiene all'individuo ma piuttosto gli è estranea, lo schiaccia e lo opprime, un tempo "negativo", quindi.
A ciò si contrappone il tempo "Altro", appartenente all'individuo che si oppone al regime opprimente del tempo istituzionale, il tempo simbolico che lo proietta al di fuori di un presente paralizzante.
Il tempo in carcere è dilatato: l'inamovibilità che qui regna sovrana modifica la percezione temporale. Le ore ed i minuti scorrono più lenti soprattutto quando il detenuto non è impegnato nelle attività culturali, lavorative oppure nelle ore d'aria ma è rinchiuso in cella.
Di ciò un detenuto se ne rende meglio conto quando, ad esempio, trascorre un periodo di tempo fuori, beneficiando dei permessi premio. A livello percettivo, infatti, le lancette del suo orologio scorrono più velocemente di quanto lo facciano all'interno dell'istituzione.
Un'altra caratteristica del tempo in carcere è quella di essere circolare: i momenti e le attività quotidiane si ripetono alle stesse ore costantemente. E' una ripetitività estenuante che da l'idea di un movimento immobile in una temporalità a-temporale.
L'autoritarismo infantilizzante e assoluto del carcere si riflette anche sulla dimensione temporale bloccandola. Il tempo è paralizzato dalla burocrazia carceraria ogni volta che l'attuazione di un'iniziativa personale viene impedita o rallentata costringendo una persona a vivere nell'immobilismo di un presente imperituro che non lascia alcuno spazio ad un cambiamento futuribile.
7. Una delle prime forme di dis-contatto con sé stesso e gli altri: l'esperienza tattile in carcere
Nel sottolineare gli effetti negativi che il carcere provoca sull'individuo non si poteva tralasciare di affrontare come anche il tatto venga inevitabilmente coinvolto in quest'azione distruttiva e degradante per l'uomo.
Esaminando come viene distorta l'esperienza tattile ad opera del carcere mi sembra opportuno precisare che il tatto non è considerato qui semplicemente come uno dei cinque sensi appartenenti all'essere umano bensì come prima modalità per entrare in contatto con gli altri, per stabilire cioè una relazione. Sappiamo bene, infatti, che la prima forma con cui un genitore entra in rapporto con il neonato è per l'appunto quella delle carezze, delle coccole, una relazione "tattile", insomma.
Bock (1984) afferma che tutti gli studi compiuti sulle stimolazioni sensoriali hanno dimostrato che esse sono indispensabili a qualsiasi età per un sano sviluppo e mantenimento della personalità e che costituiscono una necessità primaria, infatti la deprivazione sensoriale ed emotiva provoca nell'uomo dei gravi danni fisici e psicologici fino, se prolungata, a provocarne la morte. Il nostro corpo, dunque, è un corpo-in-relazione proprio perché la sua sopravvivenza e strettamente legata alla possibilità di instaurare un rapporto con gli altri, senza del quale sarebbe impossibile la vita stessa.
Ma come viene vissuta l'esperienza tattile da un recluso?
LA VIOLENZA
Il contatto fisico in carcere, quando esiste, è generalmente violento. Si pensi agli episodi di pestaggio sui detenuti da parte degli agenti penitenziari oppure alle risse che poi sfociano in azioni violente tra i reclusi stessi.
Ma non c'è solo l'aggressione "esplicita" dei maltrattamenti fisici bensì anche quella più sottile delle perquisizioni a cui si è già accennato nel paragrafo relativo agli effetti sul sé dell'individuo. L'estrema violenza con cui spesso viene attuata questa pratica, infatti, mina ed invade profondamente i territori del sé e lascia un segno profondo nell'identità della persona.
Inizialmente, per difendersi da queste forme di contatto così lesive e disumanizzanti, il recluso fa ricorso alla memoria sensoriale del sé in relazione ma col passar del tempo diventa sempre più difficile accedere ai ricordi dei vissuti percettivi precedenti la vita di reclusione.
LA SOGLIA
Non riuscendo più ad utilizzare questa forma di difesa, il detenuto innalza la soglia della sua sensibilità sensoriale nei confronti degli stimoli esterni ed interni, provocando così una torsione del corpo recluso.
Così facendo, l'individuo si auto preclude la possibilità di entrare in contatto con gli altri e persino con se stesso.
Questa sorta di analgesia tattile che permette al recluso di difendersi da un ambiente ostile come lo è quello di un penitenziario, è dunque il risultato della totale negazione di qualsiasi tipo di relazione, eccetto quelle improntate sulla violenza.
Curcio (1997) et al. in proposito scrivono: "Tra i reclusi il contatto dei corpi non è praticato. La ricerca del con-tatto non trova ospitalità nel regno del dis-tatto.
Si capisce: lo stato di analgesia relativa in cui ogni recluso si dispone per non sentire le mani delle continue perquisizioni sul corpo, favorisce l'apprendimento della insensibilità. Ed ognuno in quest'arte diventa maestro.
La deprivazione tattile è una delle più gravi e devastanti soprattutto se collegata all'impossibilità di esprimere l'affettività e la sessualità, espressione che il carcere tenta di reprimere con ogni mezzo in nome "del buon costume e della decenza".
A questo proposito uno dei pochi modi autorizzati dall'istituzione per entrare in relazione positiva con l'altro utilizza è il contatto attraverso le mani.
Le mani sono l'unico mezzo per poter raggiungere l'altra persona o per meglio dire la persona altra, cioè quella che non sottostà alla disumanizzante torsione carceraria e può permettere al detenuto di stabilire un con-tatto vitale e vitalizzante.
8. Il dis-contatto si fa più profondo: l'affettività distorta
Affrontando il problema della torsione tattile, abbiamo già sottolineato l'importanza del sé relazionale che si mantiene sano anche grazie al contatto fisico con gli altri.
E' a tutti noto come il rapporto intimo con un'altra persona sia fondamentale per l'uomo. Per questo motivo ho scelto di illustrare per prime le conseguenze che la privazione di una normale vita affettiva e sessuale provocano a chi è recluso.
La detenzione, come abbiamo già visto, provoca l'amputazione del sé relazionale della persona, cioè di quella parte d'identità che esiste perché in co-presenza con le "identità altre".
L'impossibilità di poter vivere una relazione reale apre al recluso le porte all'immaginazione.
Ecco che allora il detenuto cerca di riempire il vuoto provocato dall'assenza di una vita affettiva normale che deturpa gravemente il proprio se relazionale con il simbolismo delle immagini pornografiche. Tuttavia si tratta di un falso simbolismo perché queste immagini non si allacciano ad alcun ricordo ne rimandano ad alcune emozioni reali. Le donne di cui si servono i detenuti per cercare di raggiungere l'appagamento erotico sono fredde ed incorporee ; inesistenti nella loro memoria relazionale e lontane dalla loro memoria sensoriale.
Giungere a questa soluzione allo scopo di risolvere il problema della torsione della sessualità assomiglia alle nozze mistiche che si svolgevano nell'antico Oriente tra il sacerdote e la ierodula, una prostituta sacra. Allo scopo di unirsi alla dea, il sacerdote consumava il rapporto con la ierodula e questo veniva considerato un atto indispensabile per raggiungere la sposa divina. La differenza tra il sacerdote e il detenuto è che mentre il primo si serve di una donna reale e di un rapporto effettivo per unirsi ad un'amante immaginaria in un rapporto simbolico, il recluso è costretto a crearsi un'amante immaginaria proprio allo scopo di raggiungere quella donna reale che desidera ma con cui non può relazionarsi.
L'assenza di rapporti con persone reali fa si che nell'individuo si crei un'immagine di un Altro inesistente e privo di ogni concretezza. E' per questo che abituati ad ottenere appagamento dalle donne inesistenti, quelle dalle riviste o della televisione, i detenuti non sono più in grado, una volta usciti dal carcere, di instaurare una relazione intima profonda con un'altra persona; l'immaginario grazie al quale si sono costruiti le loro fantasie sentimentali e sessuali durante il periodo della detenzione, irrompe prepotentemente nell'esperienza quotidiana provocando la cancellazione dell'altro reale e della sua sessualità.
Lo stesso meccanismo si verifica nel caso in cui l'oggetto del desiderio o la persona verso cui riversare il proprio bisogno di affettività sia un "reale" ma non effettivamente conosciuto di persona. Mi riferisco ad esempio ai "fidanzamenti epistolari" in cui manca completamente la conoscenza reciproca e basati su fantasie prive di ogni rimando alla realtà.
A volte i reclusi ricorrono ai ricordi del passato nel tentativo di difendersi dalla torsione della sessualità; tuttavia le sensazioni che in queste immaginazioni prendono la forma di fantasie guidate non hanno niente a che fare con le emozioni nate da un incontro reale con un'altra persona .
Lo stato di detenzione costringe quindi il corpo ad una de-erotizzazione integrale a cui i detenuti cercano di porre rimedio elaborando delle proprie tecniche di de-analgesizzazione. Queste sono molteplici e possono essere costituite ad esempio da ricordi, frasi, fotografie, ma comunque mai da un corpo femminile reale. La conseguenza di tutto ciò è che : " In questo scarto si radica anche la difficoltà di riconversione eterosessuale della sessualità reclusa. Riconversione difficile perché obbligata ad una rielaborazione totale e radicale dei percorsi simbolici che strutturano la transe erotica e liberano il corpo orgasmico".[8]
9. Le altre relazioni sociali
Il carcere non influisce solamente sulle relazioni affettive intime con l'altro sesso ma più in generale su tutte le relazioni sociali e gli affetti di una persona.
In effetti il principio su cui si regge il regime detentivo da sempre è quello dell'isolamento totale, la perdita cioè dei contatti col mondo esterno.
Haney(1997)sostiene che il carcere determina spesso emarginazione sociale e Rockach (2000) afferma che l'esperienza di solitudine vissuta da detenuti sia maggiore rispetto a quella della popolazione normale.
Inoltre è stato riscontrato che la solitudine e l'isolamento sono fortemente correlati con la depressione, l'ansietà, l'ostilità interpersonale ( Hanson, Jones, Carpenteer e Remondet 1986 ).
La condizione su cui si basa l'estraniamento del recluso dalla società è reso più chiara da queste parole : "Gettato nella solitudine, il condannato riflette. Posto solo, in presenza del suo crimine, impara ad odiarlo, e se la sua anima non è ancora rovinata dal male, è nell'isolamento che il rimorso verrà ad assalirlo".[9]
L'isolamento dei reclusi permette all'istituzione carcere di esercitare un pieno potere su di loro poiché la solitudine è la prima condizione perché possa esserci una sottomissione totale all'autorità.
In realtà la separazione forzata dalla famiglia, dagli affetti e, più in generale, dalla realtà esterna non può che peggiorare ulteriormente la condizione del detenuto perché i suoi rapporti si indeboliscono oppure le relazioni che resistono rischiano di diventare rapporti di eccessiva dipendenza o possessività.
Come ben espresso nel titolo di un articolo di F. Morelli, giornalista di Ristretti Orizzonti, "Chi entra in carcere da emarginato uscirà da escluso".[10]
L'isolamento provoca una torsione del sé relazionale: è molto difficile mantenere delle relazioni sociali con l'esterno, molte amicizie si perdono ed i legami famigliari sono messi a dura prova dalla difficoltà di mantenere dei rapporti a distanza.
Il detenuto, vivendo completamente fuori dalla famiglia, si crea una propria realtà che non va di pari passo con l'evolversi delle dinamiche famigliari.
Le quattro ore di colloquio mensili concesse ai parenti o amici sono davvero troppo poche perché non si verifichi una vera e propria mutilazione del sé relazionale del ristretto.
Così si esprime uno dei detenuti che ha fatto parte della redazione di "Ristretti Orizzonti", parlando dei rapporti con i suoi famigliari: " La realtà è ben diversa da come l'ho lasciata, i miei famigliari ormai hanno costituito altre famiglie, ho una certa paura di essere considerato un intruso che si affaccia nelle loro vite. Dei miei vecchi amici, fuori, non ne ho più".[11]
Succede spesso che al momento del rientro in famiglia, il detenuto non trovi alcun sostegno da parte dei propri cari quando si tratta di parlare della sua esperienza. Questo succede proprio perché il cambiamento di personalità conseguente alla vita detentiva genera delle tensioni all'interno del nucleo famigliare.
Come si è già ribadito più volte, l'essere umano si costituisce nella vita di relazione senza la quale non è possibile l'esistenza stessa di una persona.
Se dunque ognuno di noi ha bisogno di instaurare rapporti interpersonali e sociali significativi, è a dir poco disumano privare un individuo di affetti, lavoro, sessualità e contesti relazionali differenziati.
Se infatti l'uomo si trova nell'impossibilità di mantenere delle relazioni sociali significative durante il periodo di detenzione, su quali basi si fonderà la sua vita una volta uscito dal carcere?
L'istituzione carceraria che definisce e regola gli spazi entro cui una persona deve muoversi, i tempi che deve rispettare sia quando resta in cella che quando frequenta altri luoghi, non offre modalità adeguate allo sviluppo di relazioni socio-affettive sane ed equilibrate.
La pena detentiva si caratterizza innanzitutto come privazione della libertà; purtroppo però il suo intervento non si limita a questo ma va ben oltre, costringendo anche l'affettività ad una regolamentazione assai restrittiva.
Il carcere mina, anno dopo anno, l'identità sociale del detenuto, politica questa che va esattamente nella direzione opposta a quella del reinserimento sociale.
10. Le possibili conseguenze della morte del sé relazionale: l'ipnotismo televisivo
La morte del sé relazionale provocata dall'isolamento e dalla solitudine è insopportabile per ogni persona.
Abbiamo visto come questo fenomeno possa accadere ad ogni detenuto ed ora cercheremo di individuare in che modo cerca di alleviare il vuoto derivato dalla mancanza di relazioni sociali.
Il recluso non partecipa al mondo esterno perciò la sua condizione può essere definita, come scritto da Curcio (1997), "irrealtà della presenza" o "irrealtà dell'irrealtà". Tutto gli scorre vicino ma nello stesso tempo gli è estraneo tanto non suscitargli alcuno coinvolgimento emotivo.
Anche la memoria si innesta sul vuoto emozionale perché la persona, non partecipando direttamente alle attività della realtà esterna finisce con l'incorporare una memoria estranea, immateriale e priva di contenuti emotivi.
La televisione diventa allora la finestra attraverso cui l'individuo si può affacciare sul mondo esterno; tuttavia la partecipazione che i programmi gli offrono è meramente impersonale ed istantanea.
La comunicazione offerta dalla televisione è sempre a senso unico ed ha l'effetto di riconfermare la situazione di impotenza e passività in cui si trova il recluso.
In questo modo si perpetuano i meccanismi di infantilizzazione, passività dipendenza e regressione che contribuiranno a fare del detenuto un disadattato.
Ma la televisione è anche un mezzo per uscire dall'anonimato tutte le volte in cui, offrendo una spettacolarizzazione dell'ambiente carcerario, rende visibili, insieme alle storie dei detenuti, anche la loro presenza.
Le stimolazioni acustiche del mezzo televisivo diventano una rassicurazione importante contro i vissuti individuali di solitudine perché rappresentano la controprova dell'esistenza di un mondo vivo al di fuori dalle mura del carcere.
11 Le malattie e la soluzione farmacologia
Sono moltissime le persone che entrano sane in carcere e lì vanno incontro a malattie fisiche o psichiche che li colgono improvvisamente e si rivolgono al medico o allo psichiatra per delle visite di controllo.
Rivolgersi a qualcun altro allo scopo di alleviare il proprio dolore è una risposta culturalmente appresa dal più tenera età ed è tipica delle società occidentali.
Come il bambino che si fa male chiede aiuto allo scopo di attirare su di sé attenzione degli adulti, così dobbiamo interpretare i malesseri nati in un ambiente di reclusione.
A torto si pensa che le malattie accusate da molti detenuti sino in realtà frutto di nevrosi ipocondriaca. Questo termine, secondo le definizioni mediche e psichiatriche sta ad indicare un rapporto morboso con il proprio corpo.
Tuttavia i sintomi che colpiscono i reclusi non vanno considerati in questi termini bensì sono il frutto di una relazione difficile con il contesto ambientale in cui vivono.
Il dolore che li affligge non è affatto immaginario, piuttosto è il dolore del sé relazionale che con la detenzione viene amputato e sottoposto a torsione
"L'esteriorizzazione del disagio psicofisico - è stato osservato - appartiene all'ordine del simbolico, esso è la materializzazione del conflitto interiore, il messaggio che l'individuo lancia a se stesso e al suo contesto sociale. La malattia è dunque una rappresentazione delle angosce e delle contraddizioni che il pensiero e la parola non sono in grado di esprimere"[12].
La risposta dell'istituzione a questa domanda di aiuto si traduce quasi sempre nel trattamento farmacologico usato per lenire il dolore di una vita relazionale segregata ed amputata.
Ecco che l'individuo inizia a diventare un caso di interesse psichiatrico ed il carcere riesce così a mascherare la sua azione coercitiva che invece di manifestarsi sotto forma di violenza esplicita e fisica si trasforma in una sorta di "manganello farmacologico" a cui il recluso ricorre per sfuggire alla monotonia, alla ripetizione, alla ritualità stereotipata, alla costanza di stimoli, alla deprivazione sociale e sensoriale, alla stanchezza di vivere e al dolore.
Questa soluzione rientra perfettamente nella politica carceraria che ha tutto interesse nel rendere le persone più "tranquille".
Ci si chiede però dove sia la componente rieducativa e risocializzante in un'azione che riduce la persona ad un vegetale e lo rende totalmente incapace di attivarsi e gestire autonomamente la propria esistenza.
Scrive così la compagna di un detenuto: "E' un uomo in pena e non un uomo che sta scontando una pena, si lascia andare alla deriva, non lo riconosco più, cerco di svegliarlo dal suo torpore, ci sono tante volte che lui mi prende quasi sonno al colloquio, le mascelle inchiodate, mi arriva a piccoli passi al colloquio e con i pugni chiusi, irrigidito nel corpo e con occhi cerchiati di verde o quasi, e questo succede quando è al massimo della terapia, con il minimo (terapia serale) ha il dolore impietrito nel volto, sembra che abbia dieci anni in più"[13].
Facendo uso di psicofarmaci, l'amministrazione carceraria favorisce l'insorgere di un' ulteriore dipendenza anche tra chi prima non faceva uso di farmaci o droghe fornendo così una risposta sbagliata ai sintomi dell'individuo ovvero all'unico modo da lui trovato per esternare la sua sofferenza e comunicarla.
1 La "Scoglio" del rientro
Il rientro nella società dopo il periodo d'internamento in carcere è senza dubbio molto desiderato da ogni detenuto. Tuttavia anche il ritorno ad una vita normale presenta conseguenze tutt'altro che facili da affrontare. Come abbiamo più volte ribadito la natura del carcere è inglobante in quanto controlla ed influenza tutti gli aspetti della vita di una persona. Lì ogni detenuto è perennemente osservato ed ogni suo movimento viene registrato in modo da garantire una sorveglianza continua e la conseguente morte della vita privata. Ma non solo. L'amministrazione carceraria è onnidisciplinare: organizza la vita dei detenuti scandendo i tempi delle loro giornate, stabilendo le attività consentite e quelle proibite e via dicendo; esercita, insomma, un potere quasi totale sulle loro esistenze. Ritornando alla vita reale l'individuo si trova, come direbbe la Selye, "imprigionato in una routine" cioè ancorato ad un preciso modello psicofisiologico di adattamento che ha appreso quando si trovava in una condizione di stato-dipendenza e che permane anche al variare delle condizioni ambientali che lo hanno determinato. Questo fatto è un grosso ostacolo al riadattamento della persona nella società perché generalmente dura abbastanza a lungo e disturba il normale comportamento psicofisiologico. Già nel paragrafo dedicato alla torsione spaziale e temporale nella vita detentiva abbiamo affrontato i disturbi e le sensazioni violente che investono una persona al suo primo impatto con la realtà esterna dopo un lungo periodo di reclusione. Il movimento frenetico della quotidianità nel mondo normale e gli spazi aperti contrapposti alla staticità e agli orizzonti ristretti del carcere creano nell'individuo uno stato di ansia, di confusione ed, in alcuni casi, di agorafobia. Inoltre spesso l'ex detenuto rimane schiavo delle abitudini e dei ritmi che gli erano stati imposti durante la reclusione anche molto tempo dopo essere stato scarcerato. Ma la cosa più difficile è riuscire a ricostruirsi una vita propria in un mondo governato da leggi totalmente differenti da quelle che regnano nel luogo dove è stato costretto a trascorrere un periodo più o meno lungo della sua vita. Il carcere infatti, proprio come il mondo esterno, ha la sua cultura e le sue regole che risultano incompatibili con quelle della società. Chi esce da un istituto di pena lascia dietro di sé un intero universo di parole, gesti, comportamenti e silenzi che gli hanno reso possibile la sopravvivenza lì dentro. Non si può negare che la discontinuità tra questi due mondi è veramente incolmabile e lascia un solco profondo nella mente e nel corpo di tutte le persone che vivono questa esperienza.
L'uscita dal carcere si può quindi paragonare alla nascita di un bambino: come un neonato, infatti, l'ex recluso viene invaso da una molteplicità di stimoli relazionali a cui si era completamente disabituato e che modifica qualitativamente le modalità di vita caratteristiche della condizione istituzionalizzata.
Le fantasie del mondo esterno costruite durante il periodo di reclusione non bastano a sostenere il suo percorso verso la risocializzazione anche perché molto spesso esse sono permeate di una forte idealizzazione di quella realtà alla quale il recluso si sente di non appartenere più.
A precedere l'uscita infatti c'è l'intera produzione dell'immaginario del recluso caratterizzato da una forte tendenza alla semplificazione drastica dei meccanismi che governano il mondo esterno, dalla tentazione di considerare solamente gli aspetti belli e positivi della vita "al di là del muro" e dall'eliminazione di ogni difficoltà. Tutto questo è frutto di un meccanismo di difesa che consente al detenuto di sopravvivere alla durezza della vita interna nell'attesa delle gratificazioni che è convinto di ottenere una volta uscito dal carcere.
Tuttavia questa difesa così essenziale per sopravvivere nel mondo recluso è un'arma a doppio taglio perché non corrispondendo alla realtà che l'individuo troverà nel mondo reale lo lascia impreparato e senza mezzi adeguati per affrontare la sua nuova vita.
L'istituzione totale carcere restituisce al mondo esterno una persona dopo averla tremendamente mutilata del suo Sé relazionale: l'individuo, infatti, non ha più nessun luogo affettivo e realizzativo verso cui dirigersi e in cui ritrovarsi perché ha perso tutti i suoi legami sociali originari ed ora si trova sradicato dalla vita stessa.
La reintegrazione in un mondo che non solo non lo considera più ma molto spesso gli oppone un netto rifiuto diventa allora un'impresa impossibile; forse è anche questo il motivo per cui la maggior parte degli ex detenuti non può fare a meno di ritornare in carcere dopo un periodo trascorso nella società esterna.
E' denominata claustrofilia la reazione psicopatica che certi ex detenuti possono adottare per fare in modo di essere ancora arrestati ed incarcerati e che costituisce un ritiro protettivo da una tensione ambientale insopportabile.
13. Il fallimento del sistema carcerario
Sebbene, a questo punto, gli effetti devastanti che il carcere produce sull'uomo siano ormai ben chiari, ci riproponiamo di riportare il pensiero di Foucault (1976) sull'ideologia, la politica e ed i risultati prodotti da quest'istituzione.
Quest'autore definisce la prigione come luogo di osservazione degli individui puniti dalla legge; infatti, individua nel Panopticon, la struttura del carcere "ideale" secondo l'ideologia punitiva.
Il Panopticon è un edificio in cui, attraverso una serie di "artifici" architettonici, i reclusi possono essere tenuti sotto una sorveglianza costante senza che si accorgano di chi li sta guardando.
Questo sistema offre dunque anche una possibilità per ottenere una documentazione adeguata sul detenuto che, in quest'ottica, si trasforma in un soggetto da conoscere.
In questo modo l'apparato penitenziario crea un personaggio che non corrisponde all'immagine reale di chi ha commesso il reato bensì è una figura creata dall'istituzione stessa e verrà chiamata "delinquente".
La differenza principale che lo distingue dall'autore di un'infrazione, scrive Foucault, è che " è meno il suo atto che non la sua vita ad essere pertinente per caratterizzarlo".[14]
Secondo quest'ideologia, il carcere, per adempiere alla sua funzione educativa deve totalizzare l'esistenza del recluso identificandolo in toto con il reato da lui commesso: così facendo diviene una "fabbrica di delinquenti" perché li costruisce per poi legittimare il suo potere punitivo.
Fabbricando devianti, il penitenziario fornisce alla giustizia criminale un campo di oggetti unitario e autentificato da scienze che le permettono di funzionare e di operare su una supposta verità oggettiva.
Non è solo attraverso l'ideologia bensì soprattutto tramite la pratica e l'organizzazione del sistema penitenziario che il carcere produce devianza: infatti non potrebbe essere altrimenti viste le innumerevoli costrizioni e violenze a cui sono sottoposte le persone recidive prima tra tutte l'isolamento. A causa di questa politica insensata e disumana invece che favorire la nascita di comportamenti prosociali non fa che contribuire alla nascita o all'aumento del risentimento dell'individuo nei confronti della società e delle autorità in generale.
Anche le restrizioni imposte ai detenuti che godono di misure alternative e che quindi sono all'inizio del loro reinserimento nella comunità esterna e dovrebbero quindi essere aiutati in questo difficile percorso, in realtà non fanno altro che rendere più facile la violazione delle regole e di conseguenza il ritorno in carcere.
Da ultimo, come già più volte ribadito, la detenzione recidendo tutti i legami che la persona aveva prima di entrare nell'istituto di pena, non solo non offre il supporto necessario per l'inizio di una nuova vita da individuo libero ma recide anche qualsiasi tipo di aiuto che invece è assolutamente necessario a chi vuole ricostruire da capo la propria esistenza.
L'estensione del concetto di devianza ora non più riferita solo all'azione illegale ma all'intera persona, estensione promossa dalla teoria e dalla pratica penitenziarie, rende difficoltoso al detenuto farsi accettare dagli altri membri della società civile con conseguenze catastrofiche, oltre che da un punto di vista affettivo anche sul versante lavorativo non essendo facile trovare un datore di lavoro dopo un lungo periodo trascorso in prigione. A ciò si deve aggiungere che molto spesso i corsi organizzati nelle case di reclusione e destinati alla formazione in ambito lavorativo non sono competitivi, cioè non offrono delle competenze adeguate alle richieste del mercato in quel momento.
Se consideriamo tutti questi fattori possiamo a buon diritto affermare che la prigione non solo fallisce nel ridurre la criminalità ma contribuisce anche a produrre delinquenza.
Goffman E., Asylums. Le istituzioni totali: meccanismi dell'esclusione e della violenza. Einaudi, Torino, 1968
Nicola Sansonna, Storia di Gianni, entrato all'età di 15 anni in carcere, in "Ristretti Orizzonti" n.2, anno 2, 2000.
Nicola Sansonna, Storia di Gianni, entrato all'età di 15 anni in carcere, in "Ristretti Orizzonti" n.2, anno 2, 2000.
Casi di autolesionismo nel 1998 secondo il DAP: 6.342, secondo dati del carcere di Sollicciano, in Pratelli D., ibidem
A. De Tocqueville, Rapport à la Chambre des Dèputes, cit. in Foucault, Sorvegliare e punire,Torino,Einaudi,c1976
F. Morelli, Chi entra in carcere da emarginato ne uscirà da escluso, in 'Ristretti Orizzont'i, anno 4, numero 2- marzo-aprile 2002
M. Salvati, Quando sarò fuori ho paura che sarò solo, in Ristretti Orizzonti, anno 5, numero
3 maggio-giugno 2003
J. M. Sallman e Ph. Levillain (a cura di), Forme di potere e pratica del carisma,Ligouri, Napoli, 1984; cit. in R. Curcio, N. Valentino, S. Petrelli, Nel bosco del Bistorco, Edizioni Sensibili alle Foglie,Roma,1997
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